La Legge Ammazza Foreste, spiegata facile

La Legge Ammazza Foreste, spiegata facile

Il Testo Unico per le Filiere Forestali (TUFF), approvato dal Governo Gentiloni nel 2018, si è meritata l’appellativo di Legge Ammazza Foreste per i danni che causa al patrimonio boschivo italiano. Il GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane nasce in prima battuta per combattere questa legge, che all’epoca dell’approvazione suscitò le fortissime, e purtroppo inascoltate, proteste del mondo scientifico.

La legge mira ad aumentare la produzione di legname ricavata dai boschi italiani, aumentando quindi il taglio di alberi, e arriva persino a prevedere il taglio coatto di boschi privati i cui proprietari vogliono lasciarlo crescere. È una legge con finalità produttive, che non si preoccupa minimamente di conservare l’ecosistema forestale.

Qui ve l’abbiamo riassunta in pochi punti:

  • Il TUFF ripropone per i boschi definizioni ormai superate, mentre andrebbero impiegate quelle della FAO – utilizzate già dagli inizi degli anni 2000 – che garantiscono di poter effettuare statistiche in linea con quanto richiede l’Europa e la FAO stessa e di conseguenza permette di fare confronti accurati. 
  • Fatta eccezione per le aree protette, nel cosiddetto Testo Unico non viene considerata alcuna ipotesi di zonizzazione del patrimonio forestale nazionale, ossia una distinzione tra boschi da destinare alla produzione e quelli che invece devono essere conservati per ragioni ecologiche, paesaggistiche, idrogeologiche, genetiche, culturali, sociali. Un salto indietro di 95 anni: la legge Serpieri del 1923 operava tale distinzione finalizzata alla difesa idrogeologica. Nella vicina Svizzera si discute di almeno 12 tipologie di boschi, ciascuna con destinazione e cure diverse. Inoltre, non vengono presi in considerazione neppure i boschi degradati da restaurare.
    Le attività di carattere produttivo, che per la gestione a ceduo significa destinare la legna alla mera produzione energetica (un uso che dovrebbe diventare residuale, privilegiando altre fonti energetiche realmente sostenibili), possono essere applicate ovunque senza distinzione degli aspetti ecologici, floristici, selvicolturali ed evolutivi. 
  • Il decreto afferma che la conversione a ceduo delle fustaie è sempre vietata; poi però contraddice l’affermazione aprendo a una pletora di eccezioni, nel caso in cui le Regioni decidano il contrario. Alla fine arriva a includere la conversione a ceduo di ogni tipo di utilizzazione forestale, purché si abbia rinnovazione. Praticamente si può ceduare tutto perché prima o poi, anche tra secoli, la rinnovazione delle condizioni iniziali è sempre ipotizzabile!
  • La legge equipara i terreni agricoli in cui non è stata più esercitata attività, e che sono in via di rinaturalizzazione spontanea, a “terreni forestali” che “hanno superato il turno” e quindi debbono essere gestiti attivamente a suon di motosega. Tutto questo anche se si tratta di boschi che si trovano nella fase di colonizzazione da parte di specie pioniere e che si avviano alla fase di maturità. La cosa è scientificamente infondata perché si estende il concetto di “turno” – che dev’essere applicato unicamente alle colture (ad es. ai cedui semplici o matricinati e alle fustaie coetanee che sono create e sostenute dall’uomo) – al bosco che invece cresce ed evolve autonomamente.
  • Vengono definiti “prodotti forestali non legnosi” anche i singoli alberi fuori dal bosco, che misteriosamente non sono ritenuti legnosi (eppure non sono di plastica) e poco importa che il più delle volte caratterizzano il paesaggio in maniera identitaria, come i cipressi o i tassi nei pressi delle abbazie, o le grandi querce isolate.  
  • Viene introdotto, mal interpretando il regolamento U.E. 1307/2013, il concetto di “bosco ceduo a rotazione rapida” (vale a dire sottoposto a tagli più ravvicinati nel tempo), mentre tale definizione andrebbe applicata solo ai terreni agrari con alberi piantati, suscettibili di reversibilità d’uso a fine ciclo. Il “miglioramento” delle condizioni del patrimonio forestale nazionale, per questa legge, consiste solo nelle varie modalità di taglio dello stesso.
  • Tutti i rimboschimenti, anche quelli “storici” eseguiti a fine Ottocento e che quindi fanno ormai parte del patrimonio paesaggistico tradizionale e che hanno maturato una loro configurazione ecologica, che il Testo Unico sostiene di voler preservare, vengono esclusi dalla categoria “bosco” e quindi possono essere eliminati. Parliamo di rimboschimenti effettuati con dispendio di denaro pubblico statale e lo stesso dicasi per quelli eseguiti con finanziamenti dell’Unione Europea.
  • I boschi vengono messi sullo stesso piano produttivo dei terreni agrari, come se fossero sistemi artificiali e non dotati di una propria capacità auto-organizzativa e di una propria ecologia complessa. Si considerano inoltre abbandonati i boschi cedui che non abbiano subito tagli per un periodo superiore alla metà del turno consuetudinario o le fustaie che non abbiano subito diradamenti negli ultimi venti anni. Pertanto, un bosco che per volere del suo legittimo proprietario evolve naturalmente verso forme più complesse e stabili, viene considerato abbandonato. Egualmente viene giudicato abbandonato dalla legge un terreno agricolo non coltivato negli ultimi tre anni. Tale è reputato anche un campo non arato da anni e riconquistato dalla vegetazione spontanea, in particolare forestale: i cosiddetti boschi di neoformazione.
  • Se il proprietario dei boschi abbandonati non provvede direttamente al taglio degli stessi, l’autorità pubblica provvede al recupero “produttivo” agendo in proprio o delegando gli interventi a soggetti terzi come, ad esempio, le cooperative giovanili. Questa disposizione rappresenta, di fatto, un esproprio immotivato nei confronti della natura e della volontà di quei cittadini che intendono conservare il proprio bosco per vederlo crescere, invecchiare, rinnovare spontaneamente e godere della sua bellezza in tutti gli aspetti. 
  • Secondo numerose Associazioni il Testo Unico viola gli artt. 9 e 117 della Costituzione perché ignorando l’aspetto ambientale del patrimonio boschivo, confligge con la tutela costituzionale dell’ambiente e dell’ecosistema. Violerebbe anche l’art. 41 della Costituzione perché l’iniziativa economica “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
  • Si introduce il termine “trasformazione” intesa come “ogni intervento che comporti l’eliminazione della vegetazione arborea e arbustiva”. Viene così liberalizzata, surrettiziamente, la possibilità di cambi di destinazione d’uso del suolo non consentiti dalla normativa vigente.  
  • L’eliminazione del bosco, inoltre, può essere “compensata”. Si fa presente che l’istituto della “compensazione” è utilizzato (ad es. nei pareri di Valutazione dell’Impatto Ambientale) solo quando un’opera risulti assolutamente necessaria, in assenza di alternative praticabili e nonostante l’adozione di tutte le mitigazioni possibili. Non è certo questo il caso della cancellazione di un bosco: trasferendo il concetto agli umani, potremmo dire che quando una persona muore in realtà si è “trasformata”. La legge prevede che la trasformazione del terreno boschivo può essere compensata con altre opere e servizi, inclusi anche con l’apertura di strade e opere simili che vanno a vantaggio delle aziende che operano i tagli. In definitiva, l’eliminazione di un bosco, magari di pregio, può essere compensata con un rimboschimento qualsiasi, anche fisicamente lontano, e non è tutto: la compensazione può risolversi addirittura in un contributo monetario da versare alla regione.  
  • Il decreto demanda alle regioni e alle province autonome la scelta dei soggetti a cui affidare la redazione e l’attuazione dei Piani di Gestione, purché dotati di “comprovata competenza professionale”. Il requisito richiesto per attestare tale competenza è talmente vago da lasciar ipotizzare seri rischi di discrezionalità e abuso: i laureati in Scienze Forestali, specialisti in questo settore, iscritti al proprio Ordine Professionale, potrebbero quindi essere ignorati e i compiti affidati a soggetti più vicini ai saperi dei taglialegna i quali, ottenuto un primo incarico, possono in seguito “comprovare” nel proprio curriculum la “competenza” e candidarsi ad assumere ulteriori incarichi. Stupisce, anche per questo, il sostegno dato a questo decreto dagli Ordini Professionali.
  • Il provvedimento pone ripetutamente l’accento sulla necessità della gestione del patrimonio forestale nazionale attraverso la selvicoltura. Di fatto, per contro, introduce delle scadenze temporali agli interventi che, paradossalmente, sono contrari sia ai criteri della selvicoltura correttamente eseguita sia di quella meramente produttivistica. Si impongono in definitiva limiti che contrastano con la necessità del selvicoltore di adattare le modalità di intervento a quelle che sono le caratteristiche proprie di ciascun popolamento forestale e del contesto in cui questo si è sviluppato. In sostanza, con questa legge la sola attività realmente praticabile su larga scala è la produzione di biomasse per scopi energetici, ossia il taglio del bosco per l’alimentazione delle centrali a biomasse forestali. 
  • Nel Testo Unico manca qualsiasi riferimento alla fauna, alle sue funzioni negli ecosistemi forestali, e alla sua protezione, agli arbusti, alle erbe, ai funghi, ai licheni, alle associazioni vegetali, al complesso della biodiversità, alle funzioni di regolazione, regimazione e qualità delle acque. È un testo affetto dal più incredibile riduzionismo e dalla noncuranza della complessità e stabilità dinamica degli ecosistemi.
Lo spazio e il tempo per le foreste resilienti

Lo spazio e il tempo per le foreste resilienti

Articolo pubblicato su L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 75 (2): 69-81, 2020 © 2020 Accademia Italiana di Scienze Forestali

di ALESSANDRO BOTTACCI

Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Professore a contratto di “Nature Conservation”, School of Biosciences & Veterinary Medicine, Plant  Diversity and Ecosystems Management unit, University of Camerino; via Pontoni, 5 – 62032 Camerino  (MC), Italy

Le foreste sono ormai universalmente considerate come sistemi complessi adattativi. La capacità adattativa di questi ecosistemi è direttamente proporzionale alla loro resistenza, resilienza e adattabilità/plasticità. Questi attributi sono, a loro volta, funzione del grado di biocomplessità (compositiva, strutturale e funzionale/relazionale) raggiunto dal sistema stesso. 

Perchè una foresta possa raggiungere un elevato livello di complessità è necessario che siano assicurati un adeguato spazio fisico tridimensionale e un intervallo di tempo molto lungo. 

Le foreste gestite sono spesso limitate nella superficie (a causa della frammentazione fisica o ecologica) e nell’altezza (a causa di tagli troppo precoci e intensi, che non permettono al piano delle chiome di occupare tutto il biospazio a disposizione); questo le rende più semplificate e quindi meno resilienti. Per quanto riguarda il tempo, frequentemente non si tiene conto della diversità tra tempo dell’Uomo e tempo delle foreste, tentando di accelerarne, in modo innaturale, la crescita e la successione delle fasi strutturali. La velocità è nemica della complessità, specialmente di quella relazionale, sulla quale si basa la capacità  delle foreste di rispondere ai disturbi esterni. 

Il cambiamento globale e le nuove sfide per il futuro del Pianeta richiedono un deciso cambiamento dei criteri e dei metodi di gestione forestale, considerando anche il grande valore degli ecosistemi lasciati alla libera  evoluzione naturale. 

Parole chiave: sistemi complessi adattativi; resilienza; biocomplessità forestale; foreste ad evoluzione naturale; spazio e tempo. 

Citazione: Bottacci A., 2020 – Lo spazio e il temo per le foreste resilienti. L’Italia Forestale e Montana, 75 (2): 69-81. https://doi.org/10.4129/ifm.2020.2.02 

INTRODUZIONE 

La foresta è universalmente considerata un sistema biologico complesso autopoietico adattativo (Ciancio e Nocentini, 1996; Puettmann et al., 2009; Mes sier e Puettmann, 2011; Nocentini, 2011), cioè un sistema capace di autogovernarsi nel tempo attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti e di  adattarsi alla variazione degli input ambientali esterni conservando la propria  funzionalità (Puettman, 2014).

Le foreste seguono un ordine interno naturale, che possiamo definire un  “ordine spontaneo” (Clauser, 2003), secondo il quale si accrescono e si sviluppano per stadi successivi, adattandosi all’ambiente nel quale si trovano. Si tratta  di sistemi interattivi e compositi, costituiti da molti elementi diversi interagenti  tra loro secondo i principi della teoria fisica della Criticità autorganizzata (Piovesan e Schirone, 1995). 

Esse seguono sempre il percorso a minor dispendio energetico complessivo,  passando da strutture più semplici a strutture più complesse, da uno stato metastabile a un altro, in conseguenza di processi innescati da eventi anche di  piccola entità. Questo non avviene in modo totalmente lineare e prevedibile, ma secondo cicli adattativi (crescita, conservazione, collasso e rilascio, riorganizzazione) su diverse scale spaziali e temporali secondo i processi tipici della  Panarchia (Gunderson e Holling, 2002; Allen et al., 2014). 

Non si raggiunge mai un vero e proprio equilibrio ma il sistema si muove sempre sul confine tra disordine (caos, χάος) e ordine (cosmos, κόσμος), per rimanendo nello stadio dinamico della complessità (Messier e Puettmann, 2011).  

La complessità diviene pertanto una condizione necessaria per limitare il rischio di cadere in quelle che Carpenter e Brock (2008) hanno definito “trappola della povertà”, quando il sistema è talmente semplificato da non avere nessuna possibilità di recuperare con le sue sole forze, e “trappola della rigidità”, quando il sistema è totalmente ordinato e diviene pertanto una struttura rigida e statica. In entrambe le condizioni il dinamismo del sistema si blocca. È quindi fondamentale che l’approccio alla gestione degli ecosistemi forestali si basi sui principi della teoria dei sistemi complessi, tenendo conto di tutte le  componenti – e non solo della componente arborea -, delle numerosissime interazioni esistenti tra queste e della capacità di rispondere ai disturbi esterni. Nella gestione forestale la semplificazione non è ammessa. Una visione riduzionistica concettuale è fuorviante e foriera di gravi errori (Ciancio e Nocentini, 1996; 2003; Simard e Durall, 2004). 

Possiamo considerare la complessità di un ecosistema forestale a tre livelli diversi ma necessariamente integrati tra loro: 

Complessità compositiva, legata soprattutto al numero di specie, animali e vegetali, presenti. Questa ricchezza è massima negli ecosistemi forestali intatti e  ne determina il grande valore ambientale (Watson et al., 2018); 

Complessità strutturale, legata alla conformazione fisica della foresta (tipo di  occupazione dello spazio, distribuzione dei volumi, rapporti allometrici delle  componenti, ecc.). La complessità strutturale influisce positivamente su vari  aspetti dell’ecosistema (biodiversità, resilienza, adattabilità, ecc.) (Franklin et  al., 2004; Stiers et al., 2018); 

Complessità relazionale/funzionale, legata alla rete di relazioni tra le varie componenti del sistema e tra di esse e l’ambiente nel quale sono inserite. Possiamo includere in questa complessità anche la varietà di nicchie ecologiche presenti (Sabatini et al., 2010). La complessità relazionale è talmente varia e piena di retroazioni da potersi considerare come la componente più difficilmente misurabile o valutabile di un ecosistema (Mayr, 1988). Essa  può essere anche espressa in termini di posizionamento dei vari componenti organici all’interno della complessa rete trofica. Questo posiziona mento non è casuale, ma segue un ordine preciso, misurato da quella che  viene definita coerenza trofica, che, a sua volta, rende le reti più stabili  (Johnson et al., 2014).  

A questo proposito è importante anche segnalare i fondamentali studi sulla rete di ectomicorrize che, nel suolo, collega gli apparati radicali di una foresta, fungendo da sistema di comunicazione e di scambio di carbonio e di altre sostanze nutritive (Clemmensen et al., 2013). 

Gli studi sulle foreste indisturbate (old growth forests) hanno permesso di comprendere, in modo più preciso e ampio, la biocomplessità naturale, i processi ad essa collegati, nonché i meccanismi che sottendono all’evoluzione dei  sistemi forestali (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Blasi et al., 2010; Stiers et al.,  2018). 

Uno dei risultati fondamentali di questi studi è aver compreso la stretta relazione tra biocomplessità e resistenza, resilienza e adattabilità degli ecosistemi  forestali. 

Aldilà delle molte definizioni esistenti, ai fini del presente lavoro ritengo che queste tre caratteristiche possano essere riassunte nel seguente modo:

Resistenza: è la capacità di un ecosistema di mantenere il proprio equilibrio strutturale e funzionale di fronte ad un disturbo esterno. 

Resilienza: è la capacità di recuperare il proprio equilibrio qualora questo venga alterato da un disturbo esterno o anche “la capacità di tollerare disturbi senza collassare in uno stato qualitativamente diverso” (Holling, 1973). 

Adattabilità/plasticità: è la capacità di modificare la propria struttura in conseguenza di un cambiamento ambientale permanente senza perdere la propria funzionalità. 

La stabilità di un ecosistema è strettamente legata alla sua capacità adattativa, a sua volta dipendente della sua biocomplessità (Colwell, 1998; Michener et  al., 2001; Bottacci, 2014; Bottacci, 2018a). Si deve assolutamente tenere conto di questo assunto quando si vogliano conservare e gestire foreste in modo da tutelarne l’evoluzione e la stabilità dinamica. 

Per favorire il raggiungimento e la conservazione di alti livelli di complessità degli ecosistemi forestali, dobbiamo considerare che essa è funzione di due fattori fondamentali: lo spazio ed il tempo (Clauser, 1991). Non tenendo conto di  questi due fattori, come avviene troppo spesso in una selvicoltura a preminente finalità economica, si rischia di alterare in modo sostanziale la foresta, inficiandone il futuro, al solo scopo di massimizzare un ricavo attuale, oltretutto relativamente basso in relazione ai costi ambientali alti, come avviene nel caso della  forma di governo a ceduo (Clauser, 1989).

LO SPAZIO 

Lo spazio è un parametro fondamentale per le foreste. Prima che l’azione  antropica riducesse in modo drastico la superficie forestale del nostro Pianeta,  le foreste occupavano quasi la metà delle terre emerse, formando, in molti casi, estensioni di milioni di ettari senza soluzione di continuità. Ancora oggi questa riduzione non si arresta, continuando ad interessare, in modo drammaticamente preoccupante, anche le foreste primarie intatte (Potapov et al., 2017). Lo spazio è indispensabile perché si possa sviluppare pienamente la complessità sotto forma di mosaico di fasi del ciclo strutturale (rinnovazione, affermazione, esclusione, maturazione, diversificazione, crollo, ecc.). In questo modo, su una adeguata estensione, la foresta può raggiungere e mantenere uno stato nel quale i disturbi, pur presenti, hanno un’influenza limitata sul cambiamento della struttura generale e, anzi, aiutano a mantenere lo stato di complessità. Solo con una adeguata superficie, al di sopra di quella che si può definire la “superficie minima vitale della foresta”, si può avere l’insieme di piccoli e continui cambiamenti che interessano i componenti di quella data fitocenosi e dei suoi vari strati, che costituisco l’articolato processo della fluttuazione,  ampliamente studiato da Faliński nella foresta primeva di Białowieża (Faliński,  1986; Faliński, 1988; Pedrotti, 2007).  

La ricerca dei valori di questo parametro è ancora relativamente scarsa, nonostante si tratti di un argomento molto stimolante e basilare per la conservazione e la gestione delle foreste. 

Harris (1984), nel suo fondamentale testo sulla frammentazione forestale, colloca tra 2 e 20 ha la soglia minima al di sotto della quale il sistema perde di efficienza. 

Uno dei principi fondamentali della Biologia della Conservazione, contenuto nel 3° postulato di Soulé (1986), è il rapporto tra le dimensioni di una comunità e la sua possibilità di sopravvivenza: riducendo la superficie di un popolamento – ed io direi ancora di più il volume da essa occupato – diminuisce la sua vitalità e resilienza (Bellarosa et al., 1991).  

Zacharias e Brandes (1989), citati in Bellarosa et al. (1991), hanno evidenziato una relazione lineare tra la superficie di boschetti isolati del Querco-Fagetea in  Germania e la frequenza delle specie più rare. Questi autori hanno rilevato che,  per avere la saturazione di tutte le specie, comprese le più rare, un popolamento doveva ricoprire una superficie continua non inferiore a 500 ha. 

La riduzione delle superfici forestali, oltretutto, innesca le tipiche problematiche della frammentazione degli habitat (Diamond, 1975; Crooks e Sanjayan,  2006). In caso di superfici ridotte, la percentuale di area marginale (più disturbata) aumenta, rispetto a quella occupata dalla core area, agendo negativamente  sulle varie complessità, specialmente sulla complessità relazionale. 

Per una corretta valutazione dell’influenza dello spazio sulla stabilità degli ecosistemi forestali è fondamentale tenere conto che lo sviluppo strutturale delle foreste non è solo quello bidimensionale della superficie, ma quello tridimensionale del volume. Le foreste, rispetto agli altri ecosistemi terrestri naturali, tendono ad occupare molto più spazio anche in senso verticale, sia verso  l’alto, con le chiome che possono arrivare fino ad oltre cento metri, che nel  sottosuolo, dove le radici si possono approfondire di molti metri (ad es. fino a  7 m di profondità per le radici strutturali delle foreste tropicali) e rappresentare una notevole frazione della biomassa totale (circa il 20%) (Brunner et al., 2004;  Crown, 2005; Galvagni et al., 2006; Lasserre et al., 2006). 

Per questo possiamo affermare che le foreste sono soprattutto strutture verticali. 

A questo proposito forniscono un’utile informazione gli studi sulle strutture forestali basati su un approccio allometrico, nei quali si mostra che  l’occupazione dello spazio tridimensionale non è casuale ma segue un model lo basato sulla legge di potenza, che sottende un comportamento frattale. L’aumento dell’altezza del popolamento (nel caso specifico dell’altezza tipica degli alberi più alti), determina un aumento proporzionale del volume della  foresta per unità di superficie. Al fine di massimizzare l’energia solare utilizzata, le foglie devono riempire quanto più possibile questo volume e lo fanno seguendo proprio una strutturazione frattale sia orizzontale che verticale  (West et al., 2009; Enquist et al., 2009; Simini et al., 2010; Anfodillo et al., 2013;  Sellan et al., 2017). In conseguenza di ciò la produttività di una foresta è funzione anche dello spazio verticale occupato. 

Lo sviluppo della foresta nello spazio verticale, che possiamo anche defi nire “spessore ecologico” o “biospazio”, ha anche un valore ecologico. Esso determina gradienti di microclima che vengono occupati da specie e da comunità di specie differenti, contribuendo così ad aumentare la biocomplessità del sistema (Ishii et al., 2004; Nadkarni, 2010). Già molti anni fa Mac Arthur e  Mac Arthur (1961) avevano evidenziato una relazione positiva tra altezza del  piano delle chiome e ricchezza di specie di uccelli, attribuendola alla presenza di una maggiore disponibilità di nicchie ecologiche. Più recentemente Roll et al. (2015) hanno confermato questa relazione per tutti i vertebrati ed in parti colare per gli anfibi. 

Cazzolla et al. (2017) hanno trovato una correlazione significativa tra la ricchezza di specie di piante vascolari e l’altezza media del piano delle chiome (considerato come indicatore del volume) sia a livello globale che macro climatico. 

L’intervento umano altera questa stratificazione verticale di habitat e riduce la biodiversità del popolamento, soprattutto diminuendo l’altezza del piano delle chiome e semplificandone la struttura (Brokaw e Lent, 1999). Questo suggerisce l’opportunità di una maggiore attenzione al biospazio negli studi ecologici e nella pianificazione e gestione dei siti naturali. Le foreste intatte, infatti, mostrano come un ampio spessore ecologico (biospazio) favorisca la diversità verticale e contribuisca alla biocomplessità totale dell’ecosistema e, di conseguenza , alla sua funzionalità.

IL TEMPO 

Il tempo è stato definito da Clauser (1991) come la quarta dimensione del bosco ed è una dimensione troppo spesso sottovalutata. 

Un approccio semplicistico alle foreste tende a mettere in correlazione il tempo solo con l’incremento di volume degli alberi, dando addirittura un significato colturale di maturità alla culminazione dell’incremento stesso, nelle sue  varie forme (corrente, medio, percentuale), culminazione che invece avviene sempre ad un’età del bosco molto bassa. 

Occorre perciò chiarire che il tempo delle foreste non è il tempo dell’Uomo. Si tratta  di due ordini di grandezza diversi. Considerare i tempi della foresta con il riferimento temporale dell’Uomo è uno degli errori fondamentali che hanno  commesso e commettono molti forestali. 

La lentezza – relativamente ai parametri umani – è la legge per la foresta (Wohlleben, 2016) ed è fondamentale tenerne conto. 

Addirittura è stato evidenziato che proprio le piante ad accrescimento più lento sono quelle destinate a vivere più a lungo (Piovesan et al., 2019a; Piovesan  et al., 2019b) 

Le foreste hanno bisogno di tempo per poter evolvere passando da una fase strutturale all’altra (Leibundgut, 1978), fino allo stadio più evoluto possibile in quel luogo e in quel momento. 

Raggiunto questo stadio le variazioni strutturali sono ancora più lente e indotte da disturbi naturali a bassa intensità (crollo di alberi o gruppi di alberi) o a grande intensità (tempesta di vento, incendio naturale, attacco parassita rio, frana, valanga, ecc.). In entrambi i casi, comunque, con tempi di ritorno,  generalmente, molto lunghi. Questi disturbi sono importanti per la rinnovazione dell’ecosistema e per il mantenimento di una parte della sua complessità  (Yamamoto, 2000). 

Oltretutto la foresta non segue il ciclo vitale dei suoi componenti principali: gli alberi. Questi nascono, crescono, invecchiano e muoiono, rimanendo soggetti alle leggi del tempo, la foresta è invece soggetta “a una agitazione eterna”  (Stevens, 1990 in Motta, 2018). 

Il tempo sottende anche alla biocomplessità strutturale di una foresta. I parametri di altezza e volume sono evidentemente legati al tempo, ma anche lo sviluppo degli apparati radicali o la maturazione sessuale dei singoli componenti. La strutturazione e l’occupazione del biospazio (verticale, orizzontale, sopra e dentro al suolo) sono, come già ricordato, processi fondamentali che la foresta conduce secondo il modello della criticità autorganizzata. Questi processi organizzativi svolgono una funzione sintropica, cioè di bilanciamento della entropia (Schirone, in stampa). Come nel caso dell’entropia (secondo principio della termodinamica), anche la sintropia è funzione del tempo: col trascorrere del tempo, infatti, l’ecosistema aumenta la propria organizzazione funzionale e  strutturale, tendendo spontaneamente verso una condizione metastabile, vicina al punto critico (Solé et al., 2002; Solé e Bascompte, 2006).

Il tempo influisce anche su una componente fondamentale dell’ecosistema forestale: il suolo. Il suolo è il frutto di interazioni tra componente organica, componente inorganica e clima, che a loro volta sono funzione del tempo. Un  suolo forestale, per raggiungere stadi evoluti, richiede molti anni (talvolta secoli). Recenti studi hanno mostrato l’importanza, per la funzionalità e per la produttività degli ecosistemi forestali, della complessa rete di simbiosi che si formano nel suolo tra gli apici radicali delle piante arboree e le ectomicorrize (ECM) (Simard, 2009; 2018; Steidinger et al., 2019). Lo sviluppo di questa rete è legato alla presenza di alberi vetusti (detti alberi madre) e di un suolo evoluto, fattori questi che sono entrambi funzione del tempo e del non disturbo antropico. Un altro importante parametro dell’ecosistema forestale legato all’età del bosco, e quindi al fattore tempo, è la presenza del legno morto (Travaglini et al., 2012). È ormai universalmente riconosciuto il ruolo della necromassa per la conservazione della biodiversità (WWF Switzerland, 2004; Marchetti e Lombardi, 2006). Lasciare alla foresta il tempo per raggiungere le fasi strutturali più avanzate è fondamentale perché si accumuli in modo naturale una massa di legno morto capace di creare nicchie ecologiche tali da incrementare la biocomplessità e, in particolare, la rete trofica. 

CONCLUSIONI 

Da quanto detto appare evidente che vi sia un contrasto stridente tra la fondamentale importanza di concedere spazio e tempo agli ecosistemi forestali e le  azioni, ancora troppo diffuse, di una “selvicoltura attiva” che prescinde spesso dalla conservazione del capitale produttivo e si concentra principalmente, se non esclusivamente, sul prodotto ritraibile in tempi brevi e sulle più ampie superfici possibili (Bottacci, 2018b), prescindendo spesso dall’attuale conoscenza  ecologica e conservazionistica (Chiarucci e Piovesan, 2018). 

Quasi sempre si continua a considerare il bosco non come un sistema complesso autopoietico, ma come un semplice insieme di alberi da utilizzare, insieme incapace di sopravvivere senza l’intervento dell’uomo, del quale non si considerano né le esigenze di spazio né quelle di tempo. 

Come afferma giustamente Pedrotti (2007), il processo di sinantropizzazione delle foreste produce cambiamenti negativi, che portano alla degenerazione (impoverimento senza compromissione della fitocenosi originaria) e anche alla  regressione (forma più grave dove le fitocenosi originarie sono sostituite da fitocenosi meno complesse e a fitomassa minore). 

Olaczek (1974), già molti anni fa, considerava, tra le forme di degenerazione degli ecosistemi forestali, il ringiovanimento (juvenalization), cioè il mantenimento delle fitocenosi agli stadi iniziali a causa dei tagli periodici, che limitavano a  pochi decenni il tempo a disposizione. 

I tagli sono disturbi innaturali che, se si presentano con frequenze accelerate e su superfici ampie, possono innescare questi fenomeni di regressione, costringendo l’ecosistema forestale a permanere nei suoi stadi iniziali, più semplificati e meno stabili. 

La biocomplessità è alterata da tagli intensi e ripetuti a breve distanza (con  cambiamenti repentini nella struttura e composizione del sistema). È noto che negli ecosistemi forestali naturali o con basso disturbo antropico, la biocomplessità è maggiore anche a causa della presenza di molte specie rare e minacciate, quasi del tutto assenti in quelli gestiti (Christensen e Emborg, 1996). 

Anche tenendo conto del ruolo prioritario delle foreste nell’attenuazione del global change, è fondamentale cambiare decisamente i principi di fondo della gestione, tenendo decisamente più in considerazione i parametri che abbiamo discusso nel presente lavoro: lo spazio e il tempo. 

Una selvicoltura per le foreste del futuro dovrà innanzi tutto partire da un assunto, che forse a molti forestali apparirà “eretico”: partendo dal principio che, in generale, gli interventi di taglio rappresentano un disturbo innaturale  per le foreste e che, d’altro canto, l’uomo ha la necessità di avere a disposizione i prodotti legnosi che le foreste forniscono, la corretta selvicoltura dovrà operare in modo da ottenere quanto serve all’uomo, riducendo al minimo il disturbo all’ecosistema forestale, contenendolo cioè entro i limiti della sua capacità resiliente e dando alle foreste lo spazio e il tempo di cui hanno bisogno. 

Per ottenere questo risultato sarà fondamentale, prima di tutto, preservare la  continuità ecologica della foresta; continuità sia in senso spaziale (evitando la frammentazione, fisica ed ecologica, dei popolamenti), sia in senso temporale  (evitando repentini e frequenti cambi strutturali del popolamento stesso). 

Fornendo agli ecosistemi forestali un adeguato spazio (almeno uguale o superiore alla superficie minima vitale) e un tempo indefinito (prescindendo  quindi dalla definizione di turni), si potrà attuare anche una gestione che si può  definire delle alte provvigioni, ottenendo foreste ricche di biomassa. In esse si  potrà ottenere una ripresa importante, pur mantenendo molto basso il tasso di  utilizzazione (parametro che, in qualche modo, può essere indicativo dell’entità  del disturbo arrecato con i prelievi). 

La continuità ecologica e l’intervento antropico nullo o di bassa intensità favoriranno la costituzione di popolamenti sempre più resilienti e quindi, secondo la definizione di selvicoltura data sopra, anche più capaci di supportare e  sopportare una gestione con finalità economiche. 

Come mostrato, lo spazio ed il tempo influiscono positivamente sulla bio complessità delle foreste; questa, a sua volta, è la base della resilienza che le rende stabili (Rist e Moen, 2013). Per cui la moderna gestione forestale non potrà più prescindere da questi due parametri. Di fronte alla riduzione continua delle superfici forestali della Terra (18 milioni di km2 di superficie forestale persi negli  ultimi 8.000 anni) (FAO, 2018), alla loro pericolosa semplificazione e alla minaccia incombente dei cambiamenti climatici, diventa indispensabile liberarsi dalla  visione antropocentrica (pericolosa eredità dell’Illuminismo), che attribuisce all’Uomo una capacità di indirizzo superiore anche a quella della Natura stessa, e imboccare la via di una decisa azione di “conservazione del processo naturale”.

In considerazione del loro grande valore, è ineluttabile fare una scelta radicale di rispetto per gli ecosistemi naturali indisturbati (tra i quali, in primo luogo, quelli forestali) (Watson et al., 2018), riservando loro la metà della Terra,  come proposto da Wilson (2016), facendo così in modo che non vi siano limitazioni di spazio e di tempo all’espressione delle loro potenzialità. 

INCUBO DI MEZZA ESTATE – Il sogno del barbagianni

INCUBO DI MEZZA ESTATE – Il sogno del barbagianni

Un racconto di Fabio Clauser

Ai primi di agosto il barbagianni di Pian del Tovo ha avuto un terribile incubo.  Racconto qui il sogno e le vicende che lo inquadrano: rappresentano, mi pare,  una situazione virtualmente non molto diversa dalla attuale inquietante realtà  forestale italiana. 

*** 

Viola Erba Diversetti voleva studiare la vegetazione di una grande radura nel  bel mezzo dell’abetina di Montebello: un bel prato pascolato da animali domestici e selvatici. Per arrivarci camminava tra gli abeti con lo sguardo rivolto sempre a terra lamentando tra sé la scarsa presenza di erbe e cespugli. 

Improvvisamente apparve al suo sguardo indagatore il fiorire abbondante  della Luzzola e della Asperula. Se ne rallegrò, ma un attimo dopo si rese conto  di essere entrata in un altro tipo di bosco. Sapeva infatti che quelle erbe erano  tipiche della faggeta: aveva sbagliato sentiero. 

Fu la sua fortuna perché stava avviandosi ad un pericoloso dirupo. Tornò sui  suoi passi. Ritrovata la retta via, raggiunse la grande radura. Camminava leggera. Pensava ai mazzetti di Asperula che tutti gli anni aveva portato al nonno che  la essiccava per ricavarne una grappa profumata, dal bel colore verde brillante.  La conservava assieme a quella di genziana nell’armadietto dei medicinali. *** 

Lo stesso giorno Foresto Boschi Chiari stava percorrendo un rimboschi mento di pino nero d’Austria di poco più di 60 anni, situato sulle pendici assolate  di Montebrullo. Lo aveva coraggiosamente diradato qualche anno prima con il  proposito di favorirne la crescita e contemporaneamente di avviare la penetra zione delle latifoglie. 

Lo scandalo della specie aliena doveva essere eliminato il più presto possibile. Era arrivato il momento di vedere come stavano le cose. Andava guardando  sempre in alto per controllare lo sviluppo delle chiome: che ancora non si toc cassero. Non era facile il camminare: c’era sì tanta più erba, ma a tratti si era  sviluppato un fitto intreccio di pruni spinosi e di rovi insidiosi. Tanto che ad un  certo punto, inciampando nel tralcio robusto di un rovo, Foresto cadde rovino samente a terra. Si rialzò imprecando con parole non riferibili. Non era quella la  biodiversità che si era aspettato. 

Con la faccia tutta insanguinata per le punture degli spini e per i graffi  profondi dei rovi, giurò che si sarebbe vendicato appena possibile con il fuoco prescritto, la cura da lui preferita per prevenire gli incedi. Semplice: se il sottobosco si bruciava prima, l’incendio non si sarebbe sviluppato dopo! Ma se con  il vento passava da chioma a chioma? Foresto ebbe un’idea a dir poco geniale: il  distanziamento sociale! Ne avrebbe parlato con il Professore. 

*** 

Per strana sorte e rara coincidenza, Viola e Foresto pochi giorni dopo si trovarono ad un convegno promosso da una OFG (Organizzazione Filo Governativa) su “La degradante vecchiaia dei nostri boschi”. Nella locandina si auspicava  un urgente soccorso al loro abbandono, alla loro trascurata ed infelice vecchiaia. 

Il sottotitolo diceva: “Attiviamoci per attivare una gestione attiva sostenibile”. Foresto propose di intensificare i diradamenti e i tagli di rinnovazione di ogni  tipo, accompagnando i diradamenti con l’impiego sistematico del fuoco prescritto. Viola, vista la rigogliosa biodiversità della radura, propose di diradare bene  l’abetina circostante in modo che anch’essa ne potesse godere. Le due proposte furono bene accolte e approvate con grande maggioranza. Fu espressa perplessità soltanto da parte di qualche vecchio associato, vale a  dire del tempo in cui l’Associazione non era ancora filogovernativa. Non tornava  il discorso che si dovesse tagliare più di quanto già si stava facendo. Ma poiché  la tesi era sostenuta da illustri accademici e da autorevolissimi burocrati, i pochi  dissidenti ritennero amaramente di non essere più all’altezza o forse alla  profondità abissale dei tempi. La mozione finale auspicò una gestione attiva  ispirata ai sani principi di selvicoltura tanto bene espressi da Viola e Foresto: da  applicare obbligatoriamente su scala nazionale. A chiusura dei lavori tutti si alzarono in piedi per cantare l’inno ufficiale dei taglialegna: 

I nostri boschi vogliam salvare. 

Abbandonati e vecchi 

non li possiam lasciare. 

Ai nostri boschi dobbiam badare. 

Molto di più dobbiam tagliare. 

Con motoseghe e processori 

dai gran motori. 

Tagliam, tagliam di più 

ancor di più tagliam, tagliam. 

Per quanto impervi i territori, 

con grandi ruspe e scavatori 

apriam le piste. 

Cose mai viste! 

Coi soldi facili delle biomasse, 

tutto più semplice fa il mio governo. 

E sostenibile sarà in eterno. 

Taagliam tagliam tagliam, 

Di più ancor tagliam.

Per quanto virtuali, il frastuono del coro stonato e il rumore assordante di tante  motoseghe svegliarono il barbagianni con qualche anticipo sull’apparire delle  stelle: non fece gran caso a quel che aveva sognato, ma lo mise di pessimo umore. 

Attribuì l’incubo al non aver bene digerito la vecchia pantegana predata la  notte precedente. Gli venne tuttavia spontaneo domandarsi: “Le nuove generazioni sarebbero state davvero gratificate dai taglialegna?”. Così avevano solenne mente affermato al convegno, ma il barbagianni non ne era per niente convinto. 

A suo parere, era più probabile che nel prossimo futuro i giovani maledices sero i loro vecchi per quel che avevano combinato, foreste mal gestite comprese: boschi ancor più poveri, meno produttivi e meno protettivi. 

“Le generazioni future si rassegneranno e cercheranno”, pensò, “come sem pre hanno fatto, di riparare alle malefatte delle generazioni passate – guerre, in quinamento ambientale, effetto serra, debiti astronomici, eccetera. E, si spera,  anche alla mala gestione del territorio forestale”. 

Dopo queste sagge considerazioni, il barbagianni, finalmente del tutto sveglio, si mise in volo alla ricerca di qualche topolino più facile da digerire. 

*** 

Vetusto Selvatici era amico del barbagianni. Si può dire fin da quando era  nato: lo aveva trovato a terra malconcio dopo il primo tentativo di volo, lo aveva  raccolto, portato a casa e curato. Il pulcino era guarito e gli svolazzava per stanze  e corridoio, quasi si fosse addomesticato. Poi, incoraggiato da Vetusto, se ne  andò in foresta, ma i due rimasero sempre in contatto. 

“Non devi prendertela con tanta filosofia”, disse Vetusto al barbagianni, “non  era un incubo, ma una premonizione: è anche affar tuo. Di pantegane ne hai  mangiate tante, ma che io sappia, di incubi così inquietanti non ne hai mai avuti.  Guarda che il Governo se la sta prendendo davvero con i boschi, considerati  vecchi già a cinquanta anni. Il castagno ‘bugio’ che ti ospita, di anni chissà quanti  ne ha. Probabilmente sarà uno dei primi alberi a dover essere abbattuto. E tu  dove andrai ad abitare? Con i tempi che corrono sai bene quanto sia difficile  trovare un altro alloggio”. 

“Tu mi vuoi spaventare” disse il barbagianni. Ma la notte successiva, mentre  andava a caccia, si mise a guardare in giro per trovare soluzioni alternative alla  sua bella casa. 

Dopo molte inutili ricerche sentì parlare di certi GUFI, un’Associazione ambientalista che cerca di opporsi a quella sciagurata nuova selvicoltura di Stato.  Trattandosi di uomini e non di gufi veri non si fidava tanto, ma lo considerava  pur sempre un lodevole tentativo. “Se non ci riescono”, pensò infine, “le mie ali  in qualche notte di viaggio mi porteranno in un Paese più civile dove si trovino  ancora boschi veri e case sicure, dove non sia nemmeno immaginabile avere incubi  tanto inquietanti”. 

 

Strategia Forestale Nazionale: cosa non va, e una proposta diversa

Strategia Forestale Nazionale: cosa non va, e una proposta diversa

È stata presentata la bozza di nuova Strategia Forestale Nazionale (SFN) per i prossimi 20 anni, su cui si è appena conclusa la consultazione pubblica. Il GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, insieme a USB – Unione Sindacati di Base e alle associazioni Grig -Gruppo Intervento Giuridico, ISDE Italia – Medici per l’ambiente, Italia Nostra Toscana, Italia Nostra Abruzzo, Italia Nostra Friuli Venezia Giulia,  Italia Nostra Marche, Italia Nostra ABC Alleanza Bene Comune– La Rete,  ALTURA – Associazione per La Tutela degli Uccelli Rapaci e dei loro habitat, CODACONS, Atto Primo: salute, ambiente e cultura, Comitato Tutela Alberi Bologna e Provincia, European Consumers, Forum Ambiente e Salute Lecce, Lipu Grosseto, Lupus in Fabula, Liberi Pensatori a Difesa della Natura, STAI-Stop Taglio Alberi Italia – Comitato Coordinamento Nazionale, CISDAM (Centro Italiano Studi e Documentazione per gli Abeti Mediterranei), Ecoistituto Abruzzo, Mila Donnambiente, Le Majellane e Centro Parchi Internazionale, esprimono una forte delusione per i contenuti e gli obiettivi del documento. Le associazioni firmatarie, bocciando l’impianto della Strategia nel suo complesso, hanno mandato al Ministero le seguenti osservazioni.

– Nella Strategia prevale un indirizzo economico di sfruttamento estrattivo delle risorse (in particolare per la fornitura di biomassa per il settore energetico), trattando le foreste come infrastrutture produttive. La SFN, al di là di qualche frase fatta sulla protezione dell’ambiente, fa propri gli assunti del TUFF – Testo Unico Forestale: vede nell’espandersi della superficie dei boschi italiani un problema e spinge per una maggiore “manutenzione” degli stessi in un’ottica di gestione attiva. Una gestione ad alto impatto ambientale già ora ampiamente praticata, le cui conseguenze sono la riduzione della biodiversità e un maggiore rischio idrogeologico. L’assimilazione della Gestione Forestale Sostenibile con la Gestione Attiva nella Strategia è impropria e viola la normativa internazionale, e non viene bilanciata da norme a salvaguardia dell’ambiente.

– L’approccio ecologico dichiarato è solo di facciata, non c’è la ricerca di un equilibrio fra produzione e tutela delle foreste.

– L’effettiva partecipazione è impedita in quanto la proposta di SFN non indica in modo chiaro e trasparente i propri presupposti e le sue reali priorità. In particolare mancano dati certi sulla reale consistenza del patrimonio forestale nazionale, sull’entità delle utilizzazioni e sul loro andamento nell’ultimo decennio, senza i quali una programmazione forestale perde di senso.

– Il Green Deal Europeo viene ignorato, in quanto la SFN è stata proposta senza attendere le nuove strategie europee, quella sulla Biodiversità, nonché la nuova strategia forestale europea prevista per il 2020.

– Il quadro normativo di riferimento ignora la Legge sulle Norme in materia di domini collettivi e non è stata considerata nelle valutazioni di coerenza e coordinamento la strategia nazionale per le aree interne (SNAI).

– La Strategia non tiene in conto del ruolo fondamentale (nel contesto della crisi climatica): della silvicoltura intesa come ecologia applicata di ispirazione naturalistica e sistemica; del restauro forestale; di aree di monitoraggio permanenti; delle aree ad accrescimento naturale e indefinito; del ruolo delle comunità locali e della necessità di distinguere tra aree produttive ed aree conservative, tra ecoservizi ed ecobenefici. Gli ecobenefici dovrebbero essere tutelati slegandoli da questioni economiche.

– Appaiono travisate le competenze in materia di AIB (Anti Incendio Boschivo) ed il ruolo della Legge quadro in materia di incendi boschivi e non risulta al riguardo alcun coordinamento con i ministeri competenti e la Protezione Civile.

– Manca una reale analisi di copertura finanziaria.

Il documento appare quindi prematuro e la consultazione pubblica dovrà essere riproposta. I problemi del settore forestale sono conseguenza di anni di politiche sbagliate che hanno delegato alle Regioni la gestione del patrimonio boschivo: le leggi variano grandemente da Regione a Regione, con un caos normativo che si traduce in una mancanza di visione a lungo termine. È necessario armonizzare le normative e le strutture regionali fra loro secondo una logica unitaria, per uscire dall’anarchia nella quale versa il settore forestale e si devono riorganizzare i servizi e gli uffici regionali sul territorio secondo livelli standard omogenei.

La gestione del patrimonio forestale pubblico e dei boschi privati “abbandonati”, degli alvei dei fiumi, delle aree in dissesto idrogeologico e dell’antincendio boschivo deve essere affidata ad agenzie multiservizi regionali pubbliche, dotate di strutture tecniche adeguate, che devono operare attraverso una programmazione annuale. Alle stesse si potrebbe anche affidare il servizio di irrigazione agricola svolto attualmente dai consorzi regionali, con un contratto di servizio unitario a livello regionale attraverso la cessione dell’acqua agli agricoltori a un prezzo politico, differenziato sulla base degli effettivi consumi e della redditività delle colture. Solo queste entità pubbliche fornirebbero le necessarie garanzie sul corretto impiego delle risorse e beni pubblici e sulla gestione di boschi e terreni abbandonati nell’interesse esclusivo della collettività, al pari dell’acqua e degli altri beni comuni, nelle quali ricollocare e riorganizzare il personale delle soppresse comunità montane, dei consorzi di bonifica, e di quello impiegato per questi servizi presso le strutture regionali e provinciali, nelle quali assumere e far lavorare stabilmente centinaia di persone in ogni regione, soprattutto delle aree interne, dove maggiore è l’abbandono del territorio e la disoccupazione.

L’Italia non si può permettere di perdere altri 20 anni per porre rimedio ad una situazione che continua a peggiorare sempre di più: l’incremento continuo di incendi, frane e alluvioni che interessano il territorio sono una prova evidente dei cambiamenti climatici in atto e richiedono l’adozione di scelte coraggiose e non più procrastinabili. Scelte che considerino i benefici ecosistemici e mirino alla conservazione del patrimonio boschivo e non a incentivarne lo sfruttamento. La pubblica amministrazione deve ritornare alla sua funzione istituzionale originaria, che non è certo quella produttiva finalizzata a massimizzare i ricavi immediati, svendendo il valore del patrimonio forestale pubblico fin qui accumulato.

Osservazioni alla bozza preliminare della Strategia Forestale Nazionale

Osservazioni alla bozza preliminare della Strategia Forestale Nazionale

Hanno aderito alle presenti osservazioni e considerazioni generali del GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane le associazioni: Unione Sindacale di Base – USB Nazionale;  Grig -Gruppo Intervento Giuridico; ISDE Italia – Medici per l’ambiente; Italia Nostra Toscana; Italia Nostra Abruzzo; Italia Nostra Friuli Venezia Giulia;  Italia Nostra Marche; Italia Nostra ABC Alleanza Bene Comune– La Rete;  ALTURA – Associazione per La Tutela degli Uccelli Rapaci e dei loro habitat; Codacons; Atto Primo: salute, ambiente e cultura; Comitato Tutela Alberi Bologna e Provincia; European Consumers; Forum Ambiente e Salute Lecce; Lipu Grosseto; Lupus in Fabula; Liberi Pensatori a Difesa della Natura; STAI-Stop Taglio Alberi Italia – Comitato Coordinamento Nazionale,; CISDAM (Centro Italiano Studi e Documentazione per gli Abeti Mediterranei); Ecoistituto Abruzzo; Mila Donnambiente; Le Majellane; Centro Parchi Internazionale.

  1. Prevale un indirizzo economico di sfruttamento estrattivo delle risorse primarie (particolarmente sensibile alla fornitura di biomassa per il settore energetico e di scarti per l’industria di derivati del legno), intendendo i sistemi forestali come infrastrutture produttive da mettere in rete per incrementare la produttività e la contabilizzazione di ricchezze pubbliche e collettive tramite la terziarizzazione del settore.

  2.  L’approccio ecologico dichiarato in realtà è riduzionista ed utilitarista, omette un’analisi sistemica naturalistica e rinuncia ad una visione sintropica secondo un inquadramento spazio temporale dei fenomeni, la cui realtà non è stata oggettivizzata in un contesto adeguatamente rappresentato, ma solo immaginata.

  3.  L’assimilazione della Gestione Forestale Sostenibile con la Gestione Attiva è impropria, viola la normativa internazionale. Essa è inoltre imprudente non essendo stata contemperata con l’introduzione di criteri di precauzione e di adeguate norme di salvaguardia che, specie nella prima fase, evitino applicazioni abnormi in danno dell’ambiente e degli ecosistemi con esposizione a rischio delle funzioni più nobili svolte dai sistemi forestali.

  4.  La effettiva partecipazione è impedita in quanto la proposta di SFN non indica in modo chiaro, trasparente e accessibile i presupposti e le reali priorità della medesima. In particolare mancano:
    a) dati certi di riferimento sulla reale consistenza del patrimonio forestale nazionale e sull’entità delle utilizzazioni e  sul loro andamento  nell’ultimo decennio;
    b) criteri distintivi tra sistemi artificiali e naturali ed i relativi fattori limitanti;
    c) metodologie e modelli di analisi  su cui valutare le ipotesi evolutive dei sistemi forestali;
    d) criteri e modalità qualitative e quantitative su cui bilanciare la composizione tra interessi contrapposti: di natura produttiva (estrattiva ovvero di sfruttamento delle risorse primarie) e di conservazione e tutela (fondamentali e garantiti dalla Costituzione e da normativa europea e internazionale);
    e) un ordine delle priorità di intervento tra le azioni e le modalità di ripartizione delle risorse in caso di carenza finanziaria;
    f) indicatori e  modalità di monitoraggio e valutazione per la verificare dell’andamento delle azioni e del raggiungimento degli obiettivi prefissati;
    g) apporti attribuibili a ciascun dicastero di un coordinamento preliminare in vista del concerto con il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e il Ministro dello Sviluppo Economico e dell’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano

  5.  Il Green Deal Europeo (GDE) è nella sostanza ignorato, la SFN è stata proposta senza  attendere le nuove strategie europee ivi preannunciate ed in particolare:
    a) la nuova strategia europea sulla Biodiversità, pubblicata in data 20 maggio 2020 che ha individuato gli obiettivi di ridurre l’impiego delle biomasse e di ampliare le aree protette;
    b) la nuova strategia forestale europea, prevista per il 2020; tutta la proposta di SFN è sviluppata sulla base della vecchia strategia forestale europea con evidente inefficienza e duplicazione di costi.

  6. Il quadro normativo di riferimento e le azioni ignorano la Legge n. 168 del 20 novembre 2017 “ Norme in materia di domini collettivi”.

  7.  La strategia nazionale per le aree interne (SNAI) non è considerata nelle valutazioni di coerenza e cordinamento.

  8.  Le Azioni tralasciano di evidenziare e valorizzare il ruolo fondamentale nel contesto attuale di crisi climatica:
    a) della silvicoltura intesa come ecologia applicata di ispirazione naturalistica e sistemica;
    b) del restauro forestale
    c) di aree di monitoraggio permanenti e costanti (rappresentative della diversità degli ecosistemi forestali e dei rispettivi stadi evolutivi per natura, origine e cause di disturbo, compresi quelli di neoformazione nelle aree incolte e abbandonate);
    d) di aree ad accrescimento naturale e indefinito;
    e) della necessità di distinguere tra aree produttive ed aree conservative, tra ecoservizi ed ecobenefici (non passibili di effettiva valutazione economica equivalente in quanto diretta emanazione biologica condizionante la vita sul pianeta Terra: assorbimento CO2, depurazione aria e acqua, mitigazione climatica, prevenzione dissesto idrogeologico, biodiversità e ciclo nutrienti). Gli ecobenefici dovrebbero pertanto essere:
    – destinatari della massima possibile protezione e tutela, di aiuti e incentivazione ai soggetti che ne curano la conservazione e rinnovazione;
    – sottratti alla disponibilità economica e finanziaria;
    –  inquadrati in una programmazione secondo una pianificazione per bacini idrografici (zonizzata e con riserva della metà dello spazio) su cui sviluppare gli ulteriori livelli; 
    f) del ruolo nel presidio del territorio della dimensione mesolocale, delle comunità intermedie naturali capaci di autorganizzazione dei domini collettivi e degli usi civici, specie nell’ambito agrosilvopastorale delle aree interne.
    g) Quanto precede dovrebbe essere inserito tra le priorità più urgenti da realizzare mediante azioni e sottoazioni specifiche e strumentali con accesso preferenziale alle fonti finanziarie.

  9. Appaiono travisate le competenze in materia di AIB ed il ruolo della Legge n. 353 del 30 novembre 2000,  Legge quadro in materia di incendi boschivi; non risulta alcun coordinamento con il Ministero degli Interni, il Ministero della Difesa e la Protezione Civile nella predisposizione della relativa azione specifica.

  10. Manca una reale analisi di copertura finanziaria (forse per la omessa sottoposizione della proposta ai competenti uffici di programmazione e pianificazione), le azioni sono pertanto un mero elenco irrealistico che mal cela istanze assistenzialistiche del settore industriale e la relativa  questua di Aiuti di Stato con sottovalutazione dei bisogni derivanti dalle priorità di natura conservazionistica.

  11. La proposta di SFN appare nella migliore delle ipotesi prematura,  la partecipazione mediante osservazioni dovrà essere rinnovata, per renderla effettiva e possibile, all’esito del concerto con il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e il Ministro dello Sviluppo Economico e dell’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, allorchè, si auspica, saranno state risolte le problematiche osservate.

CONSIDERAZIONI SUL DOCUMENTO “STRATEGIA FORESTALE NAZIONALE”

Documento superficiale, generico, inconcludente, a tratti contraddittorio, che contiene una elencazione, nella forma di buoni propositi, di tutti gli aspetti e delle tematiche di interesse del settore, per le quali vengono indicate le possibili azioni di miglioramento, avendo come riferimento a sostegno delle argomentazioni sviluppate, gli assunti del nuovo TUF. Non vengono individuati gli elementi concreti, lo stato di fatto in cui versa il settore forestale nazionale oggetto dell’analisi, quali sono i fattori che ne limitano lo sviluppo, le criticità e le minacce che lo insidiano, con i relativi livelli ponderali e i “possibili obiettivi” da raggiungere.

In allegato si riporta una scheda contenente un primo elenco delle osservazioni e delle contraddizioni più evidenti riscontrate.

Nel testo del documento presentato, vengono richiamati come elementi di riferimento ai fini della definizione della nuova S.F.N. leggi nazionali, regolamenti e accordi internazionali. Si riporta, come fattore di criticità, una sorta di protagonismo attivo che sarebbe manifestato dalle foreste nell’espandersi sul territorio abbandonato. Ciò è in linea con la narrazione diffusa in ogni occasione sui media dai principali portatori d’interesse del settore sull’argomento, secondo cui se nel nostro Paese manca la manutenzione del territorio e aumenta il dissesto, se i terreni abbandonati vengono colonizzati dal bosco e gli incendi boschivi imperversano, la causa viene derubricata e associata al processo ineluttabile ormai secolare di abbandono delle aree interne e all’invadenza del bosco non gestito.

D’altronde, la bozza di documento per l’elaborazione della nuova Strategia Forestale Nazionale della SFN, prodotta con il metodo dell’analisi SWAT, con queste premesse e in assenza di un esame approfondito e completo dei fattori limitanti interni al sistema, non poteva avere esito diverso.

Evidentemente, la soluzione dei problemi del settore forestale del nostro paese, non può essere data dalla semplice eliminazione dei boschi di neoformazione o dei rimboschimenti e rimessa a coltura del terreno con risorse pubbliche e con il ricavato della vendita del legname prodotto. Né tantomeno è una soluzione la semplice prospettazione acritica di tutte le iniziative e miglioramenti che teoricamente si potrebbero realizzare.  Occorre, in merito, l’analisi e la rimozione delle cause socio economiche ancora in atto che non solo non hanno contrastato il processo di abbandono dei territori marginali e montani, ma anzi l’hanno aggravato ulteriormente, e questo è un tema molto più serio e difficile da affrontare. 

In realtà, il vero fattore di criticità del settore forestale in Italia, è costituito dalle politiche e dalla gestione adottate dal sistema Paese negli ultimi 50 anni, appannaggio praticamente esclusivo delle Regioni dagli inizi degli anni settanta del secolo scorso, con le competenze statali dirette residuali, di controllo e coordinamento nel campo produttivo, pressoché nulle, in capo ad un dipartimento del MIPAAF. Nell’ultimo governo tale materia era addirittura stata collocata presso la Direzione Turismo del Ministero, a riprova della sua scarsa importanza, mentre, per la restante parte, competenze sono ripartite fra Ministero dell’Ambiente (natura, ambiente, dissesto idrogeologico) e MIBACT (paesaggio).

Di certo, questa grave lacuna nell’analisi, non può essere imputata ad un’improvvisa amnesia che ha pervaso le menti degli estensori del documento, ma è una patologia persistente, dal momento che si ritrova anche nel nuovo Testo Unico Forestale.  Tale lacuna peraltro è di origine non “recente”, se si considera che anche la precedente SFN che risale all’anno 2000, non conteneva traccia alcuna delle predette criticità, a riprova del fatto che i problemi del settore sono di lunga durata, si sono incancreniti nel tempo e hanno origine nel fatto che il “sistema forestale nazionale” è pubblico per intero. Se queste criticità effettive non vengono in alcuna maniera rilevate è perché i tavoli che hanno partorito sia la bozza del nuovo SFN che quella del Testo Unico Forestale, sono organizzati e composti sempre dallo Stato e dalle Regioni, con i principali partner o stakeholder chiamati alla concertazione, legati in maniera più o meno diretta agli attori che governano il settore, attraverso consulenze, commesse, affidamento di studi e indagini, nomine, partecipazione a commissioni, ecc.. o, come nel caso delle organizzazioni di categoria, per legittimi interessi lobbystici (trattamenti di favore per il consumo delle biomasse, nel settore di stufe, caldaie e impianti di medie e grandi dimensioni, riduzione di vincoli per il taglio dei boschi, gestione diretta per conto della proprietà pubblica dei demani regionali o per conto delle Regioni di attività istituzionali, ecc.).

Ma entriamo nel merito della questione: ogni regione ha una sua legge forestale, che stabilisce turni e periodi di taglio dei boschi, modalità e regole di gestione, dispone di un proprio servizio forestale interno che sovrintende alle autorizzazioni, elabora in autonomia un proprio piano forestale regionale e misure di finanziamento e miglioramento del settore forestale attraverso il PSR;  organizza e gestisce altresì in esclusiva la lotta attiva agli incendi boschivi, le attività vivaistiche e di produzione certificata di seme e delle piantine. Le stesse Regioni normano e gestiscono il settore della protezione della natura, la rete naturalistica e di protezione ambientale europea (VIA, VINCA e VAS) nel territorio e la gestione della fauna selvatica, tutti aspetti che hanno forti correlazioni con le foreste.

Se ci soffermiamo al solo settore forestale, le regioni presentano caratteri e situazioni a dir poco disomogenee, a tratti schizofreniche al loro interno: se tralasciamo gli aspetti squisitamente selvicolturali (difformità fra turni per le stesse specie e tipi di bosco, rilascio di matricine, ecc.) di per sé per certi versi paradossali, in alcune Regioni si taglia solo se c’è un piano di gestione forestale approvato, in altre i piani di  gestione non ci sono proprio e si taglia senza remora alcuna (in Abruzzo ce ne sono solo 4 approvati su 325 comuni).

In alcune Regioni il servizio autorizzativo è gestito direttamente a livello provinciale, in altre il ruolo è affidato alle CM o alle UCM, in altre ancora il servizio è stato soppresso e affidato ad entità autonome fra loro, che si occupano contestualmente della monta bovina o delle domande di contributo per i seminativi. In alcune regioni il servizio forestale è costituito in gran parte da diverse decine di laureati in scienze forestali, in altre nell’intero organigramma regionale c’è un solo laureato in scienze forestali e le istruttorie per l’autorizzazione dei progetti di taglio vengono eseguite da geometri, periti agrari o agronomi che non hanno nessuna competenza in materia, con dirigenti laureati in economia e commercio. In alcune Regioni, fino a 10 ha per il ceduo e 5 ha per la fustaia, si possono fare tagli previa dichiarazione, senza un progetto, una direzione dei lavori e senza alcuna segnatura o “martellata” delle piante che cadono al taglio, mentre in altre a partire da 1 ha, c’è bisogno obbligatoriamente di un progetto firmato da un tecnico abilitato, che deve curare la direzione lavori e deve segnare preventivamente le piante o allegare il piè di lista di martellata al progetto, anche se poi a istruire il progetto è un geometra o un agronomo senza competenza alcuna del settore. I sopralluoghi in bosco per l’istruttoria dei progetti di taglio, sono quasi inesistenti, a causa della cronica penuria di risorse per il carburante o per mancanza o obsolescenza dei mezzi. I controlli durante e dopo la realizzazione degli interventi sono praticamente inesistenti. Non è nemmeno il caso di parlare della verifica delle produzioni effettivamente ricavate o dell’esito dei lavori, con i danni ai soprassuoli o alle piste causati dalle imprese di taglio, verifiche praticamente inesistenti.    Gli unici controlli sono quelli esercitati dai comandi dei Carabinieri forestali attraverso le attività di sorveglianza svolte sul territorio, i quali però quasi mai dispongono di copia dei progetti o delle comunicazioni di taglio presentati alle regioni e che quindi, ad eccezione di situazioni eclatanti, hanno scarsa incidenza.

In alcune regioni sono state costituite agenzie regionali che talvolta dispongono anche di diverse  migliaia di dipendenti, alle quali è affidata la gestione del patrimonio pubblico forestale, svolgono le attività di manutenzione del territorio direttamente, insieme alle attività di antincendio boschivo, per le quali magari hanno anche una dotazione di mezzi aerei antincendio, gestiscono la produzione certificata di seme e l’attività vivaistica, il tutto magari con un indice di boscosità del territorio ridotto, mentre altre regioni, con un indice di boscosità elevato, affidano in gestione il patrimonio forestale regionale alle Unioni dei Comuni o ai singoli Comuni che li affidano a consorzi o cooperative private del territorio. Altre regioni ancora affidano invece la gestione del demanio forestale ai Carabinieri, non hanno personale che svolge attività di manutenzione forestale, non producono piantine per i rimboschimenti, hanno i vivai regionali chiusi, a dispetto della stessa legge regionale che obbliga per i nuovi impianti di rimboschimento ad utilizzare solo materiale di provenienza regionale certificato dalla stessa regione, gestiscono le attività antincendio esclusivamente attraverso volontari e non hanno uno straccio di mezzo aereo antincendio. Sempre riguardo agli aspetti di antincendio boschivo, ci sono alcune regioni che per i sette anni dell’ultimo PSR hanno investito per la sola misura relativa alla prevenzione degli incendi boschivi la miseria di 3 milioni di euro per l’intero territorio, senza spenderne ad oggi nemmeno uno, mentre altre per la stessa misura ne hanno investiti quasi venti volte di più e li hanno anche in gran parte spesi.

La stessa pianificazione forestale regionale in alcune regioni ad oggi non è mai stata realizzata, preferendo, forse a motivo della maggiore discrezionalità che questa condizione consente, autorizzare volta per volta gli interventi a carico dei boschi. La pianificazione in generale nelle regioni suscita allergia: si pensi alla pianificazione e programmazione annuale delle attività di manutenzione e prevenzione delle alluvioni e del dissesto idrogeologico in capo alle regioni, che il governo ha dovuto commissariare a causa della cronica incapacità delle stesse ad assolvere per tempo ai loro obblighi. Tanto per cambiare, il Commissario individuato dal governo è lo stesso presidente della regione chiamato a risolvere le inadempienze prodotte dalla regione da lui stesso amministrata.

Come si è già detto, di questa situazione e di questi problemi, nella bozza della nuova Strategia Forestale Nazionale, come anche nel Testo Unico Forestale non c’è traccia; anzi, nella norma introdotta di recente l’intero sistema di programmazione e pianificazione forestale resta uguale a quello preesistente, dove è previsto che le Regioni “..adottano Programmi forestali regionali. .. possono predisporrepiani forestali di indirizzo territoriale, finalizzati all’individuazione, al mantenimento e alla valorizzazione delle risorse silvo-pastorali e al coordinamento delle attività necessarie alla loro tutela e gestione attiva, nonché al coordinamento degli strumenti di pianificazione forestale”. Praticamente, a fronte di obblighi e regole stringenti per i proprietari di boschi rispetto alla gestione della proprietà, le Regioni “possono predisporre..”, non hanno obblighi, anche se detengono il potere di “sostituzione diretta o di affidamento della gestione forestaledei privati, e di “conferimento delle superfici forestali ad altri soggetti qualificati.

Fra le storture e le criticità ulteriori, generate dalle “politiche di settore” fin qui adottate, sono da aggiungere: la situazione in cui versa il sistema delle imprese di utilizzazione forestale, la cronica mancanza di informazioni e di dati affidabili sulle reali caratteristiche e performance del settore e della filiera, la persistente e generalizzata crisi occupazionale delle aree interne e, da ultimo, la condizione del laureato in scienze forestali.

Nella gran parte delle regioni, forse con la sola esclusione di quelle dell’arco alpino, le imprese forestali sono caratterizzate da una sostanziale ridotta dimensione aziendale, operano in un sistema economico strutturalmente marginale, caratterizzato da scarsa formazione professionale, cronica carenza di manodopera qualificata nazionale, in larga parte rimpiazzata da operai extracomunitari, e si trovano a competere in un mercato che si regge in larga parte sugli interventi finanziati con risorse pubbliche, appannaggio preferenziale del sistema delle cooperative e dei consorzi privati che fungono da intermediari a titolo oneroso, nell’affidamento dei lavori alle imprese associate.

Al contempo, le attività selvicolturali e di cura del bosco non sono riconosciute fra le categorie di opere pubbliche previste dal sistema di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori pubblici predisposto dalle camere di Commercio, che in questo caso prevede come sola categorie di opere, quella relativa alle “opere di ingegneria naturalistica” (OG13). A causa di ciò si assiste al paradosso per cui, solo alcune delle ditte che partecipano alle gare per i lavori forestali svolgono propriamente tale attività, rientrano nella “classificazione ATECO 2007” e nel contempo sono iscritte alla camera di commercio nella sezione “Silvicoltura e utilizzazioni aree forestali”, la gran parte di ditte che si occupano di altro, penalizzando fortemente le prime.

Questa situazione, di per sé critica, e della quale non c’è traccia nella bozza della nuova SFN, per le scelte previste dal nuovo TUF, che ha inserito come “titolo preferenziale ai fini della concessione in gestione … la partecipazione di imprese… aventi centro aziendale entro un raggio di 70 chilometri dalla superficie forestale oggetto di concessione” e il fatto che “le cooperative forestali e i loro consorzi sono equiparati agli imprenditori agricoli” , è destinata a peggiorare ulteriormente.

La stragrande maggioranza delle regioni non dispongono né tanto meno rilevano i dati sulle ditte che operano sul territorio, sui cantieri che vengono aperti, sui prezzi di mercato, sugli operai impiegati, sulla dimensione delle aziende, non esistono statistiche regionali su infortuni e morti, sul materiale legnoso realmente utilizzato e sul tipo di assortimenti lavorati, sulla domanda di materiale legnoso in quantità e qualità. È tutto un gran buco nero.

Un caso a parte è costituito dai laureati in scienze forestali, che a causa del sempre più basso livello di investimenti nel settore forestale pubblico e delle politiche regionali di deregulation della procedure autorizzative e della progettazione, vedono sempre più ridursi gli spazi esclusivi e le prerogative professionali nella progettazione e direzione lavori degli interventi di manutenzione e gestione di boschi, derubricati a semplici pratiche amministrative routinarie, a tutto vantaggio delle ditte boschive, degli agrotecnici e degli stessi consorzi di cooperative. Il tutto nella più assoluta indifferenza e miopia dei vertici degli ordini professionali di categoria.

A nostro avviso è indispensabile e non più procrastinabile armonizzare le normative e le strutture regionali fra loro, secondo una logica unitaria per uscire dalla più assoluta anarchia nella quale il settore versa.  Riteniamo altresì che, contestualmente, si debbano riorganizzare i servizi e gli uffici pubblici regionali del settore forestale sul territorio, che devono essere affidati a dirigenti e tecnici qualificati, sulla base di livelli omogenei e garantiti di gestione. La gestione del patrimonio forestale pubblico e dei boschi privati abbandonati di ogni tipo, beni collettivi di primaria rilevanza per la collettività, degli alvei dei fiumi, delle aree in frana e di tutti gli ambienti e aree sensibili ai fini della mitigazione del dissesto idrogeologico, delle piene dei corsi d’acqua e del contrasto agli incendi boschivi deve essere affidata ad agenzie multiservizi regionali pubbliche, dotate di strutture tecniche adeguate, che devono operare attraverso una programmazione annuale stabilita dalle Regioni.  A tali Agenzie devono essere affidati in gestione i demani silvopastorali e i vivai forestali regionali, nonchè compiti di provvedere alla manutenzione forestale e agli interventi nelle aree protette regionali, di porre in essere le attività operative antincendio di competenza delle Regioni e, ove ne ricorrano le condizioni, di gestire il patrimonio forestale costituito dai boschi privati abbandonati. Queste agenzie potrebbero provvedere alla manutenzione del verde lungo la viabilità provinciale, allo spazzamento della neve l’inverno, manutenere o realizzare le sistemazioni idraulico forestali, gestire il servizio di irrigazione agricola svolto attualmente dalla rete dei consorzi di irrigazione regionali con un contratto di servizio unitario a livello regionale che preveda la cessione dell’acqua agli agricoltori, a un prezzo politico, differenziato sulla base degli effettivi consumi e della redditività delle colture.

Solo queste entità pubbliche fornirebbero le necessarie garanzie sul corretto impiego delle risorse e beni pubblici e sulla gestione di boschi e terreni abbandonati nell’interesse esclusivo della collettività, nelle quali ricollocare e riorganizzare il personale delle soppresse comunità montane e dei consorzi di bonifica, al pari di quello attualmente impiegato per i servizi citati presso le strutture regionali e provinciali, ma nelle quali anche assumere e far lavorare stabilmente diverse centinaia di persone in ogni regione.

In questo contesto è indispensabile che la pubblica amministrazione, regioni e governo ritornino alla loro funzione istituzionale originaria, che non è quella produttiva finalizzata a massimizzare i ricavi immediati, magari svendendo il valore del patrimonio forestale fin qui accumulato e investito dallo Stato per migliorare la qualità del patrimonio forestale pubblico e nazionale, anche attraverso i finanziamenti erogati nei decenni.

La strategia forestale nazionale deve essere incentrata sulla massimizzazione delle diverse funzioni pubbliche assicurate dai boschi.