Il caso della Pineta Dannunziana e le aree protette

Il caso della Pineta Dannunziana e le aree protette

di Giovanni Damiani


Gentili Renzo Motta, Davide Ascoli, Marco Marchetti e Giorgio Vacchiano,

faccio riferimento a quanto pubblicato a Vs firma sulla Rivista SISEF il 04/08/2021 dal titolo Prevenzione antincendio e la conservazione dell’ambiente: il caso della Pineta Dannunziana di Pescara.

L’articolo ha suscitato diffuso stupore per il contenuto di affermazioni assolutamente non veritiere su cui sono impiantate conclusioni altrettanto non accettabili. Esse sono riprese e rimbalzate evidentemente dalle posizioni assunte dal Presidente dell’Ordine Provinciale dei dottori Agronomi e dei dottori Forestali, dr. Matteo Colarossi, autentiche “rivelazioni” inedite che sono poste come basi alla richiesta di togliere lo status di “Riserva Naturale “alla Pineta per applicarvi la selvicoltura a scopo di prevenzione AIB.   

Queste in sintesi le palesi notizie false che anche Voi, evidentemente male informati e senza operare verifiche, incredibilmente rilanciate.

NOTIZIE INFONDATE SULLA GENESI DELLA PINETA

È stato sostenuto che “La pineta, localizzata all’interno della città di Pescara, è l’eredità di un rimboschimento fatto dal Marchese D’Avalos nel ‘500. “  Si tiene a riferire che questa affermazione emerge per la prima volta in un’intervista resa alla RAI – TG3 regionale il 7 maggio 2021 dal dr Colarossi : “La pineta è coltivata dal 1500” dice Colarossi “e non esisteva al tempo dei romani. Non si tratta di foresta vergine“ [1]

Dal momento che tale affermazione contrasta con quanto finora emerso da tutti gli studi storici, dalle ricerche archivistiche e le conseguenti valutazioni logico-deduttive, da più parti c’è stata la richiesta all’Ordine Professionale presieduto dal dr.  Colarossi di fornire gli elementi documentali posti alla base della rivelazione.    Tali richieste sono state pubbliche, sono tutt’ora reiterate anche con insistenza, ma sono rimaste, ad oggi, senza risposta. Ma il Presidente Provinciale dell’Ordine ha cambiato successivamente versione e ha sostenuto in sintesi che la Pineta “c’era all’epoca dei romani e anzi è lì prima della comparsa dell’uomo…”  ma è stata tagliata, ha riconfermato essere stata successivamente ripiantata dal Marchese D’Avalos nel 1500, ma tagliata di nuovo e… quello che vediamo oggi sarebbe opera dell’impianto artificiale fatto dal Corpo Forestale dai primi del secolo scorso addirittura fino negli anni ’80. Tuttavia anche queste sono tutte notizie nuovissime, sfuggite anche agli studiosi più attenti e a tutti i ricercatori e archivisti, notizie che cambiano la storia e non solo del territorio abruzzese … ma si continua a non rivelare quali siano le fonti archivistiche o bibliografiche di tanta rivoluzionaria novità. E anche in questo caso vi sono state richieste reiterate e pubbliche di spiegazioni, citando il contrasto con le numerose fonti documentali esistenti, con le cartografie storiche che riportano la “Silva Lentisci” talvolta chiamata “Selva dei Chiappini” e con fatti oggettivi sulla storia dei D’Avalos che erano Marchesi di Pescara e non avrebbero potuto impiantare pinete a Pino d’Aleppo su quasi l’intera costa adriatica, in aree vastissime al di fuori delle loro limite proprietà. La fonte più antica dell’esistenza della foresta risale in realtà al 1114 ad opera del grande geografo arabo Eldrisi (o Al- Idrisi) incaricato di redigere cartografie da Re Ruggero II di Palermo, che riporta che da Campomarino ad Ancona, per circa 300 miglia di costa adriatica: “in queste solitudini vive gente che s’annida nelle foreste e vi ha luoghi di caccia e in questi deserti va in cerca di miele”. In archivio di Stato si trovano documenti circa l’entità dei tagli effettuati storicamente su tale foresta ed anche le date ed entità e specie utilizzate nei rimboschimenti, sempre parziali, effettuati nel tempo. Esistono anche studi storici sulla Pineta effettuati all’inizio del 1800 e parlano ancora i toponimi “Montesilvano”, “Silvi” … Una fotografia d’epoca dannunziana datata 1927, inoltre, mostra dei tronchi di Pino d’Aleppo di dimensioni imponenti che sicuramente non potevano essere stati piantati da poco tempo.  Prendo atto che qualche dubbio è venuto anche a Voi, se alle posizioni del Dr Colarossi avete aggiunto “in massima parte” frutto di rimboschimento …

In definitiva le notizie – peraltro contraddittorie – sull’origine non naturale della Pineta di Pescara rivelate dal dr Colarossi restano, ad oggi, totalmente infondate e l’area va considerata un relitto, prezioso, di un’antichissima foresta che copriva la quasi totalità del litorale adriatico. Relitto sicuramente non qualificabile come “foresta vergine” ma sicuramente molto particolare perché le condizioni geologiche -idriche (con riferimento alla falda ivi assai superficiale che crea sacche limitate di umidità frammiste a mosaico in diverse  aree xeriche)  dànno  luogo a un corrispondente mosaico di vegetazione xerica associata al Pino d’Aleppo o addirittura a flora dunale su residui di dune fossili, accanto a vegetazione tipica di zone umide, risultandone una straordinaria biodiversità.

SE IL Dr COLAROSSI, appoggiato dal CONAF e ripreso dalla SISEF, AVESSERO RAGIONE SULL’ORIGINE ARTIFICIALE DELLA PINETA DANNUNZIANA?

È oramai chiaro che la richiesta di dequalificazione della PINETA dallo status di Riserva Naturale perché la stessa sarebbe di recente impianto artificiale è una grave sciocchezza.  Ma se, per assurdo, effettivamente la Pineta fosse artificiale, avremmo grandissimi e validissimi MOTIVI IN PIÙ più per mantenerla RISERVA NATURALE. Anzi sarebbe un obbligo. Infatti la straordinaria biodiversità presente, le specie arboree, arbustive ed erbacee collocate al posto giusto rispetto alle condizioni e alla natura del suolo, alla distanza dal piano della falda, la distribuzione spaziale delle stesse, la disetaneità, insomma le tantissime specie “giuste” messe al posto “giusto”, renderebbero questo ecosistema una delle più mirabili produzioni intellettuali dell’Uomo. Rappresenterebbe probabilmente una realizzazione del più elevato sapere botanico-forestale e delle discipline delle scienze naturali prodotte in Italia, meritevole di ATTENZIONE E VANTO NONCHÉ DI TUTELA AGGIUNTIVA ALLE MOTIVAZIONI NATURALISTICHE e non la squalifica che chiede l’Ordine Professionale.

NOTIZIE FALSE SUL PRESUNTO IMPEDIMENTO DEL PIANO DI ASSETTO NATURALISTICO AD EFFETTUARE INTERVENTI AIB

Nell’articolo a Vs firma è detto: “Prima dell’istituzione della Riserva venivano regolarmente effettuate operazioni colturali come i diradamenti forestali, lo sfalcio delle invasive erbacee ed arbustive e la rimozione della necromassa, proprio per ridurre il pericolo di incendi tenendo conto della particolare localizzazione del bosco. Con l’istituzione della Riserva, tuttavia, è stato adottato un Piano di assetto naturalistico che ha imposto di non effettuare interventi colturali ed assecondare lo sviluppo della vegetazione secondo la sua dinamica naturale.

Non è vero che siano mai esistite nella Pineta di Pescara le citate “operazioni colturali”, diradamenti ecc… in funzione AIB e che poi queste sarebbero cessate perché impedite dalle norme di tutela. 

La Pineta è stata acquistata dal Comune di Pescara, dai discendenti dei Marchesi D’Avalos nel 1975. Una nutrita commissione multidisciplinare istituita da esperti in varie discipline e da amministratori comunali indicò una porzione di essa (comparto n. 5) meritevole di tutela integrale per le preziosità botaniche e per la pregevole composizione ecosistemica, che ne portò alla recinzione e alla chiusura alla frequentazione pubblica, destinandola a frequentazione a scopi didattico-scientifico controllata ai fini della conservazione.   Proprio quel comparto 5 è quello preso di mira dagli incendiari: lì sono stati messi gli inneschi.  La Riserva è stata istituita nel 2000 ed il Piano di Assetto Naturalistico (di seguito PAN) è stato approvato nel corrente 2021, con circa 20 anni di ritardo rispetto al provvedimento di protezione.  Pertanto è falso che sia stato il PAN ad “imporre di non effettuare interventi colturali” ecc: quell’area era a tutela integrale continuativamente da 46 anni mentre la Riserva esiste sulla carta da 20 e il PAN è adottato da pochi mesi.   È falso pertanto che la tutela abbia favorito il propagarsi dell’incendio, mentre è vero il contrario: è l’assenza di tutela, prevista nel PAN e ancora di più nel Piano Comunale di Protezione Civile totalmente inapplicato a dover essere chiamato in causa.  La Riserva a gestione comunale ha ricevuto per venti anni fondi dalla Regione per la sua gestione ma ciò non ostante non ha mai avuto un direttore, personale dedicato, alcuna vigilanza, neppure quando i bollettini della Protezione Civile indicavano – come nel caso in questione – alto rischio d’incendio; è largamente sprovvista di prese idriche antiincendio per la maggior parte della sua estensione e persino lungo il perimetro d’interfaccia fra abitazioni e bosco, ove è presente una sola manichetta antincendio di realizzazione privata, sita in ambito privato dell’Istituto delle Suore e con possibile raggio d’azione di pochi metri entro la Pineta. È falso anche che interventi silvoculturali erano effettuati e sarebbero cessati con il PAN.  Riporto a riprova, di seguito, quanto stabilito dal PAN stesso: Pag. 46

Problematiche relative al comparto 5

Il comparto 5 presenta caratteristiche peculiari che lo differenziano sostanzialmente dagli altri settori della Riserva Dannunziana; infatti la chiusura al pubblico (seppure il comparto risulti frequentato abusivamente da alcune persone, che ne hanno causato lo stato di degrado e di rischio in cui attualmente si trova), ha permesso di preservare lo sviluppo di alcune specie vegetali e di migliorare le caratteristiche chimico-fisiche del suolo.      Si propone che il PAN preveda per questo comparto una destinazione di conservazione con finalità scientifiche e didattiche e si limiti la frequentazione antropica a visite guidate e controllate.

È il nucleo meglio strutturato e con caratteri di maggiore naturalità di tutta la Pineta. Esso ricorda una componente del modello dell’antico mosaico forestale, nel quale la successione di dossi dunali e depressioni interdunali davano origine ad una serie di tessere vegetazionali in cui gli elementi portanti erano rappresentati dalla macchia mediterranea e dal bosco igrofilo. Tale sistema è stato, nel tempo, cancellato quasi del tutto, in quanto i diversi elementi sono compenetrati e resi poco riconoscibili dai reiterati interventi antropici.

Il comparto è stato da molto tempo chiuso al pubblico, anche se, purtroppo, è stato sempre frequentato abusivamente ed è cosparso di rifiuti. Gli impatti antropici, quindi, anche qui sono stati pesanti ed hanno condizionato la sua funzionalità ecologica.

Nella porzione più meridionale del comparto l’antica presenza di un vivaio, dismesso da molto tempo, ha favorito l’affermazione di numerose specie esotiche invasive (Ligustrum lucidum, Phoenix canariensis, Acer negundo, Cortaderia selloana), sfuggite a coltura, che andrebbero estirpate.

La vegetazione del comparto, rappresentata da un bosco a dominanza di Olmo campestre, Pino d’Aleppo e Roverella, è in evoluzione verso condizioni di maggiore maturità ed equilibrio. Per tale motivo, e per favorire il dinamismo, si ritiene inopportuno intervenire nella compagine forestale, anche se essa presenta, in alcuni stands, segni di degrado.

“Per questo comparto si propongono, pertanto, solo interventi di ripristino e razionalizzazione dei sentieri, sia per finalità scientifiche, legate allo studio della flora, della fauna, della vegetazione e del suo dinamismo, che didattiche, queste ultime da perseguire anche con una idonea etichettatura delle specie più significative e con un cartello che illustri le caratteristiche del bosco.”

ERBACCE O BIODIVERSITÀ VEGETALE?

Riguardo alla rimozione delle specie erbacee c’è da dire che la Pineta di Pescara è probabilmente una delle aree più studiate l’Italia. Studi pubblicati su riviste scientifiche, condotti da insigni botanici, biologi e naturalisti sono stati condotti nei decenni.  Sul Pinus helepensis è stata condotta anche la caratterizzazione del DNA ribosomale, il cui pattern è stato confrontato con quello dei pini della stessa specie italiani e della costa est dell’Adriatico. La Pineta include 345 specie vegetali (cosa notevole per un’area di modeste dimensioni, stimabili in effettivi 37 ettari), di cui 26 rare, 4 endemiche (Salix Apennina; Verbascum niveum subsp. Garganicum; Centaurea nigrescens subsp neapolitana, l’orchidea Ophrys promontorii) e due esclusive per l’Abruzzo.  Nulla e nessuno ha impedito lo sfalcio delle erbacee invasive che, anzi, il PAN prevede di eradicare in maniera selettiva, mirata e scientificamente fondata ma questo non è stato fatto per incuria benché se ne parli da anni.  Si tiene qui a sottolineare che la “pulizia” del sottobosco se effettuata come si vorrebbe con sfalci generalizzati, senza tener conto delle preziosità botaniche, costituirebbe un delitto contro la biodiversità!  Un ecosistema del genere, peraltro relittuale e rifugiale per molte specie, non può essere trattato come un giardinetto pubblico né tantomeno come un lotto di bosco coltivato con criteri silvocolturali.

DIRADAMENTI E FASCE TAGLIAFUOCO AVREBBERO FERMATO LE FIAMME?

Nell’articolo SISEF viene lamentata la “mancanza previsionale di opere antincendio quali piste, fasce tagliafuoco e ripulitura del sottobosco a prevenzione sia della pineta ma soprattutto della città…” e di “opere selvicolturali preventive atte a scongiurare che il fuoco possa passare da radente a quello di chioma”.

L’incendio del primo di Agosto è avvenuto col corollario di un lungo periodo di siccità con temperature elevatissime, di domenica, con una temperatura di 40°C e con un vento caldo fortissimo, tanto che il Sindaco che evidentemente non ha dimestichezza con le misure fisiche, ha dichiarato essere di “150 km/h”, tanto per dare l’idea della sensazione percepita. Le fiamme si sono propagate liberamente e senza contrasto di sorta per oltre un’ora (!) da quando tempestivamente cittadini residenti hanno dato l’allarme a Comune, VVFF, Carabinieri Forestali, Protezione Civile, FFSS, ANAS.  A fronte di  una sola unità di VVFF finalmente arrivata[1], i cittadini residenti senza alcuna esperienza e senza dispositivi di protezione individuale, fronteggiavano le fiamme con tubi di irrigazione dei giardini e con tappeti inzuppati di acqua usati come batti-fuoco. I mezzi aerei sono arrivati, finalmente, dopo oltre 4 ore. L’incendio ha preso vigore, tra l’altro, entro un attiguo grande impianto di autodemolizione in cui si sono verificati scoppi dei serbatoi di carburante e delle bombole del gas GpL delle autovetture ed ha trovato ulteriore alimento nei rifiuti infiammabili mai rimossi (la cui presenza è stigmatizzata persino nel PAN che ne indica la rimozione) nell’area a maggiore protezione -sulla carta – : numerosi materassi, bottiglie di plastica, gomme d’auto, sedie e tavolini di plastica, cartoni.

L’aria surriscaldata provocava violenti turbini ascensionali che hanno sollevato fino all’altezza di 25 metri, tizzoni ardenti che, con la componente del vento laterale, hanno scavalcato palazzi di 4 o 5 piani, alcune file di abitazioni, strade, ricadendo a 250-300 metri di distanza in mare e lungo l’arenile ove hanno incendiato ombrelloni e strutture balneari notoriamente prive sia di arbusti che di erbe secche in soprassuolo arenoso.  L’incendio ha viaggiato quindi anche largamente al livello delle chiome. In quelle condizioni le operazioni silvo-culturali preventive citate dal dr Colarossi e prese come “caso Pescara” nell’articolo a Vs firma:

  1. sarebbero state impossibili a realizzarsi perché per impedire quanto è successo sarebbero occorse fasce tagliafuoco larghe 200 – 250 m, che avrebbero richiesto di lasciare in Pineta meno di 10 esemplari di Pino d’Aleppo;
  2. avrebbero richiesto l’eliminazione della biodiversità erbacea ed arbustiva della macchia mediterranea (Cisti, Mirto, Lentisco, Smilace, ecc..) distruggendo un patrimonio naturale unico, identitario;
  3. in ogni caso, mentre avrebbe distrutto l’ecosistema boschivo, non avrebbero potuto fermare le fiamme per il complesso delle condizioni in cui la cattiveria di delinquenti le hanno innescate.

Ne deriva che quando c’è intenzione di dolo e organizzazione del crimine, i piani antincendio basati sugli interventi a carico della foresta (giusti o sbagliati che siano) servono a ben poco.

La protezione AIB deve seguire, soprattutto per situazioni come il “caso della Pineta di Pescara” altre e diverse strategie da quelle indicate semplicisticamente dal dr Colarossi (anche al netto delle notizie false che ha reiterato) ed essere basata su altri criteri: sorveglianza, avvistamento precoce, intervento immediato a terra con personale addestrato ed opportunamente equipaggiato, informazione e indicazioni comportamentali alla popolazione nelle zone d’interfaccia, numerose ed accessibili prese d’acqua, cose tutte previste e non attuate. 

In definitiva, se esiste un “Caso Pineta di Pescara” esso si compone di tre fattispecie concrete. La prima è data dalle esternazioni stravaganti dell’Ordine Provinciale degli Agronomi e Forestali; la seconda è che queste vengano sposate acriticamente e rilanciate da esponenti nazionali e della SISEF in articoli pubblicati, in RAI3 Scienza; la terza è il non considerare “cosucce” come la biodiversità e il necessario approccio multidisciplinare a situazioni complesse e meritevoli di conservazione.

Infine: invito a riflettere sulle possibili conseguenze connesse con la richiesta di squalifica della Pineta di Pescara dallo status di Riserva Naturale. Se l’intento dei criminali che hanno appiccato i 7 (certi, ma forse furono 13) inneschi era quello di eliminare i vincoli esistenti su quelle aree, passerebbe il messaggio che ovunque si voglia eliminare l’esistenza di un’area naturale protetta si può tentare di conseguire il risultato incendiandola. E questo precedente non è ammissibile, oltre ad essere vietato dall’art. 10 della legge 353/2000 che vieta per 15 anni il cambio di destinazione d’uso delle aree boschive che hanno subito un incendio.

Cordiali saluti

dr Giovanni Damiani

NOTE

[1] Nella medesima intervista affermava, a sostegno del previsto abbattimento di alberi adulti (Quercus pubescens e Pinus halepensis di notevoli dimensioni) per la realizzazione di una strada che possiede a pochi metri un tracciato alternativo che non richiede abbattimenti, che “La ripiantagione, in questo caso, di 173 alberi viene condivisa”.Non è vero che le piante piccole stoccano meno CO2 di quelle adulte”. Le piante piccole in fase di crescita tolgono più CO2 e l’ossigeno (!) e quindi è benefico l’effetto.  Evidentemente viene confuso il “tasso di crescita” che misura l’incremento di biomassa nel tempo (Crop Growth Rate, C.G.R., g m-2d-1) con i valori assoluti di fissazione del carbonio nella biomassa (Absolute Growth Rate – AGR.   Sul tema “dell’assorbimento dell’ossigeno” non ci sono commenti da fare: è talmente clamoroso da doverlo ritenere una svista involontaria, un errore marchiano che tuttavia è stato lanciato via etere senza essere stato mai corretto.  

[2] Ritardo comprensibile perché erano in atto contemporaneamente 11 altri incendi boschivi importanti:  nella pineta di Vallevò a Punta Cavalluccio, andata tutta distrutta in territorio di Rocca San Giovanni, nella Riserva Naturale dell’Acquabella a Ortona cuore della Costa dei Trabocchi, a Farindola nel Parco Nazionale  del Gran Sasso-Monti della Laga, a Penne, a Bolognano, a Caramanico Terme, a S.Valentino in Abruzzo Citeriore e a Bolognano  (quattro località, queste,  nel Parco Nazionale della Majella-Morrone), a Città S.Angelo, a Montorio a Vomano, a Sant’Omero, a Mosciano S. Angelo).Inoltre, la Regione Abruzzo proprio quest’anno ha ridotto di 180 mila € lo stanziamento in convenzione al VVFF, rimasti unico fragile Soggetto chiamato ad intervenire dopo lo scioglimento del Corpo Forestale dello Stato che aveva storicamente avuto delega a tutte le operazioni AIB in Abruzzo.    

Come proteggere il verde urbano

Come proteggere il verde urbano

Nel 2016, è stato pubblicato1 il primo corposo studio scientifico globale condotto  su 245 città e metropoli (che ospitano complessivamente un quarto della  popolazione a livello mondiale) da cui risulta che nel corso del secolo corrente la  popolazione urbana del Pianeta aumenterà di 2 miliardi di abitanti e che tra i  fattori di pressione ambientali principali e pericolosi sono stati individuati il PM2,5  (polveri molto sottili, del diametro di 2,5 micron) , attualmente responsabile di 3,2  milioni di decessi prematuri all’anno destinati a divenire 6,2 milioni se non si  adottano provvedimenti di contenimento e le ondate di calore estivo attualmente  responsabili di 12.000 decessi prematuri/anno e di sofferenza per milioni di  persone. Ai ritmi attuali dei cambiamenti climatici che producono aumento  d’intensità e di frequenza delle ondate di calore estivo urbano, i modelli  previsionali stimano la possibilità di arrivare, nel vicino 2050, a 260.000 decessi  anno da stress termico.  

Premessa: perché occuparsi del verde nelle città è divenuto urgente  e molto importante? 

Le 245 città sono state studiate attraverso sistemi satellitari (geospatial  information on forest and land cover), le centraline automatiche per il rilevamento  in continuo dell’inquinamento atmosferico e delle temperature e con tutti i dati di  contorno disponibili. Lo studio ha mostrato che le alberature cittadine  attualmente esistenti (current stock of street trees) producono in maniera  significativa i seguenti benefici alla popolazione: 

– bellezza estetica (paesaggio) 

– aumento del valore economico delle abitazioni 

– difesa del suolo 

– governo delle piogge intense 

– riduzione del rumore 

– sequestro del carbonio per la mitigazione del clima 

– spazi per la ricreazione 

– benessere per la salute fisica e mentale 

– abbattimento del PM 2,5 

– contenimento delle ondate di calore. 

Tra le conclusioni ai fini della difesa della salute, si individuano come prioritarie  le azioni di mantenimento dell’attuale stock di alberi, l’incremento della  dotazione arborea, la necessità di finanziamenti adeguati per il verde  pubblico (attualmente generalmente bassi), finalizzati a due principali obiettivi:  abbattimento dell’inquinamento atmosferico con particolare riguardo al PM2,5 e  l’abbassamento delle temperature estive in ambiente urbano.

La pianificazione del sistema del verde urbano. 

In questa materia, probabilmente più che in altre in ragione della complessità dell’ambiente  antropico e delle esigenze fisiologiche delle piante, è richiesta interdisciplinarietà: le  competenze necessarie afferiscono praticamente a quasi tutte le scienze e quindi includono  quelle dei forestali, agronomi, biologi, naturalisti, architetti, medici, chimici, fisici, storici del  paesaggio, ingegneri, urbanisti, geologi…ed altre ancora. 

Indispensabile, quindi, appare la costituzione, a livello comunale, di consulte o comitati con  buona presenza scientifica multidisciplinare, comprendendo le competenze presenti nel terzo  settore. Tali organismi sono preziosi non solo per conseguire la migliore progettazione ma anche  in fase di gestione e per la verifica, attraverso indicatori ed indici, dei risultati conseguiti nel  tempo, e quindi per valutare l’efficacia del Piano per il Verde, per individuare le eventuali criticità  e introdurre correttivi e miglioramenti continui che si rendessero necessari.  

Indispensabile è anche l’informazione corretta al cittadino e il suo coinvolgimento pieno ed  effettivo nella pianificazione, progettazione e gestione del verde; la partecipazione del pubblico  dovrebbe essere di livello e di intensità ben superiore rispetto a quanto si fa normalmente (e il  più delle volte riduttivamente) nelle ordinarie procedure di Valutazione Ambientale Strategica  (VAS) comunque obbligatoria per legge per i piani e i programmi. Il cittadino, pienamente  coinvolto e adeguatamente informato, deve essere messo in condizione di diventare il più  possibile rispettoso e anche custode attivo del patrimonio verde e, sulla base di un’adeguata  “educazione” acquisita, di poter collaborare alla riuscita della pianificazione ecologica ed  ecosistemica del verde pubblico, anche orientandosi di conseguenza nelle aree private di propria  pertinenza, che spesso per estensione forniscono un contributo significativo al patrimonio  arboreo delle città. 

La normativa nazionale di base che disciplina il verde urbano, vecchia di oltre 50 anni, è  assolutamente inadeguata alle esigenze correnti e avulsa dalla realtà attuale dello stato delle  conoscenze in materia di ecologia, di biodiversità, di clima e di ambiente. Si tratta del Decreto  Interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 che reca “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza,  di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali  e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da  osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli  esistenti…”. Esso disciplina esclusivamente aspetti quantitativi del verde pubblico e fissa come  soglie minime per abitante, 18 mq complessivi per spazi pubblici o riservati alle attività collettive,  così ripartiti: 4,5 mq per scuole e asili, 2 mq per strutture religiose, culturali, sanitarie e per  pubblici servizi, 9 mq per spazi pubblici attrezzati a parco, per il gioco e lo sport e 2,5 mq di aree  di parcheggi. Questi standard urbanistici, tuttora vigenti, includono cose assai diverse nella  categoria del “verde” e pongono sullo stesso piano una pista asfaltata per il pattinaggio e la  superficie complessiva di uno stadio o palazzetto dello sport, con un’area con prati e piantumata  con alberi per cui è possibile pervenire, al limite, ad una pianificazione che, pur rispettando i  limiti minimi fissati dalla legge, può risultare pressoché priva di verde pubblico effettivo,  minimamente degno di questo nome.  

L’ISPRA nel 2010 ha pubblicato un interessante documento di 68 pagine, dal titolo: “Verso una  Ecosistemica delle Aree Verdi Urbane e periurbane. Analisi e proposte”che ha colmato il vuoto 

istituzionale esistito fino ad allora sull’argomento. Il documento è scaricabile dal sito  istituzionale dell’Istituto2.  

La Legge 14 gennaio 2013 n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, torna  sull’argomento e, tra le altre cose, all’art. 3 prevede l’istituzione presso il Ministero  dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare di un Comitato per lo sviluppo del verde  pubblico. Tra i molteplici compiti attribuiti al Comitato troviamo il monitoraggio sull’attuazione  della legge 29 gennaio 1992, n. 113 (obbligo di piantare un albero per ogni bambino nato), la  promozione di attività degli enti locali interessati al fine di individuare i percorsi progettuali e  le opere necessarie a garantire l’attuazione delle disposizioni, l’elaborazione di una proposta  di Piano nazionale per fissare i criteri e linee guida per la realizzazione di aree verdi permanenti  intorno alle maggiori conurbazioni e di filari alberati lungo le strade, adeguamento dell’edilizia e delle infrastrutture pubbliche e scolastiche che garantisca la riqualificazione degli edifici…  anche attraverso il rinverdimento delle pareti e dei lastrici solari, la creazione di giardini e orti  e il miglioramento degli spazi. All’art. 4 della predetta legge 10 poi è stabilito che il Comitato  segnala “I comuni che risultino inadempienti rispetto alle norme di cui al decreto ministeriale n.  1444 del 1968”. Per quanto riguarda i criteri di pianificazione e di progettazione del verde  pubblico, ribadendo gli standard inadeguati e riduttivi della vecchia legge del 1968, questa più  recente normativa delega al Comitato la redazione di linee guida regolatorie. 

Le “Linee guida per il governo sostenibile del verde urbano”– elaborate dal Comitato per lo  sviluppo del verde pubblico – sono state pubblicate dal Ministero dell’Ambiente, del Territorio e  del Mare nel 2017 (acquisibile dal sito istituzionale del Ministero) e constano di 60 pagine e 7  capitoli che racchiudono: conoscenza, pianificazione strategica, progettazione, piano di  monitoraggio e gestione, indicatori per il governo, formazione degli addetti, comunicazione promozione e partecipazione del pubblico.  

Tuttavia a fronte di un lavoro complesso e accurato a cui hanno partecipato l’ANCI, il CONAF,  l’ISPRA e l’associazione dei Direttori Tecnici dei Pubblici Giardini, va rilevato che (si riporta  esattamente come è scritto nello stesso documento): “le Linee Guida non sono prescrittive, ma  rappresentano solo uno strumento di consultazione e informazione per tutti i comuni italiani,  grandi e piccoli, utili per procedere correttamente e proficuamente nelle attività di pianificazione  e di gestione del verde urbano”.  

Lo Stato, in pratica, non ha adottato ad oggi, con provvedimenti cogenti (tramite decreto o  legge) le linee guida che così rappresentano un mero “suggerimento”, peraltro assai poco  conosciuto. Per coprire la lacuna legislativa sono stati adottati nel tempo a livello locale, diversi  strumenti comunali di programmazione quali il regolamento del verde pubblico e/o privato, il  censimento-anagrafe del verde, la carta del verde urbano, il piano del verde, il piano  regolatore del verde urbano. L’ultimo di tali strumenti – il Piano Regolatore del Verde Urbano a suo tempo avviato dal comune di Viterbo in collaborazione con l’università della Tuscia, è  quello che dal punto di vista dell’efficacia metodologica offre maggiori possibilità di una gestione  adeguata e sostenibile dal punto di vista ecologico, economico, sociale e culturale. Un tale  Piano, in generale, consente al Comune di decidere, in maniera partecipata, la qualità, la  quantità, la composizione, la distribuzione delle specie arboree, arbustive, di liane ed erbacee  da introdurre negli spazi destinati a Parco, giardino pubblico, aree di pertinenza degli edifici  pubblici, filari, prati, aiuole, rotatorie, spartitraffico e, ove esistano, la disciplina della  vegetazione delle sponde dei corsi d’acqua.  

Il Piano Regolatore del Verde Urbano può assorbire e integrare tutti gli altri strumenti sopra  citati adottati dai Comuni: può includere il censimento da riportare nella “carta di rilievo del  verde urbano” preferibilmente realizzata di fine dettaglio e con georeferenziazione su data base, e la “carta del verde urbano”, strumento di indirizzo utile a sensibilizzare e impegnare i  vari attori sociali per la tutela di un bene comune. Utile, unitamente alla sempre necessaria  partecipazione dei cittadini nelle consulte per il verde, anche il coordinamento interno tra uffici  comunali sul medesimo argomento. A tal riguardo si segnala l’attivazione avvenuta diversi anni  fa presso il comune di San Benedetto del Tronto della Conferenza dei Servizi Permanente sul  verde urbano”, composta da tutti i servizi ed uffici che in vario modo svolgono attività che  interessano il verde pubblico o possono incidere su di esso. Il tema del verde urbano non è  quindi da considerare riduttivamente un “settore di intervento” fra i tanti presenti in città: deve  essere inquadrato con ottica di sistema e permeare tutta la programmazione comunale ad ogni  livello: urbanistico, della mobilità ecc. ed essere integrato negli strumenti urbanistici (PRG in  primis) e nell’attività delle Commissioni Edilizie. Solo dando al Piano del verde la dignità  istituzionale e la cogenza amministrativa di un Piano Regolatore Generale è possibile, infatti,  pianificare efficacemente in una visione di medio-lungo periodo il verde urbano ,evitando che  esso sia costituito da ciò che risulta dal diritto ad edificare, con aree frammentate e collocate in  posizioni non ottimali. 

I contenuti minimi del Piano Regolatore Comunale del Verde Urbano consistono nel Quadro  conoscitivo (censimento quali/quantitativo e distribuzione della vegetazione esistente), un  Piano di Indirizzo e Norme Tecniche di Attuazione che includano anche gli interventi manutentivi  e gestionali. Il suo sviluppo applicativo può essere fatto per piani annuali (generalmente  chiamati Progetto del Verde) che possono riguardare anche aree limitate e non l’intero  complesso del verde comunale, analogamente a quanto avviene con i Piani Particolareggiati. Le  linee guida per una gestione sostenibile del verde urbano redatte dal Comitato per lo sviluppo  del verde pubblico, indicano inoltre che nel Piano del Verde dovranno essere poi chiaramente  esplicitati i meccanismi di attuazione e di monitoraggio degli obiettivi prefissati e man mano  raggiunti, tra cui: 

– la relazione, in un’ottica di pianificazione integrata e multi-obiettivo, con altri  strumenti e piani urbani di settore (Piano dei Servizi, Piano del traffico, Piano Urbano  Generale dei servizi nel sottosuolo, etc.);  

– le indicazioni programmatiche per il piano triennale delle opere pubbliche; i progetti operativi e le soluzioni progettuali da realizzare nel breve-medio termine con  le risorse finanziare individuate; 

– gli indicatori di monitoraggio.  

– Nel momento in cui il PdV affronta le problematiche relative alla previsione di nuove  aree, non può prescindere dal definire i cosiddetti “indicatori di rigenerazione urbana”:  questi consentono, ad es., di verificare i valori degli interventi rispetto alla  permeabilità del suolo e alla presenza della vegetazione, sviluppando sistemi che siano  in grado di mitigare gli eventi meteorici intensi legati ai cambiamenti climatici (rain  garden, dry garden, verde tecnologico); più in generale vanno identificati gli indicatori  per monitorare lo sviluppo del piano ed il raggiungimento degli obiettivi prefissati; i meccanismi di finanziamento e di reperimento risorse per la realizzazione delle  soluzioni progettuali individuate (eventuali espropri, etc.); 

– il piano di informazione-comunicazione per il coinvolgimento, la partecipazione e la  sensibilizzazione. 

Anche la Strategia nazionale per il verde pubblicata a Maggio 2018 individua nel Piano  comunale del verde lo strumento chiave per città più resilienti. 

Le piante nell’ambiente urbano.

Alberi, arbusti ed erbe esistevano ben prima della comparsa del genere Homo nel Pianeta e loro  fisiologia, autoecologia e il loro aspetto odierno è frutto della selezione operata dalla natura in  alcune centinaia di milioni di anni. Tuttavia in un ambiente così particolare quale quello urbano,  queste entità sono soggette a molteplici fattori di stress che non avevano mai subìto in natura  nella loro storia evolutiva; ne deriva che per un approccio appropriato al verde urbano, è  necessario assumere un punto di vista olistico e programmare un’adeguata pianificazione  urbanistica locale e una gestione che tengano conto delle esigenze delle piante e dei problemi  di convivenza con l’uomo e le sue attività, inclusi gli aspetti che possono rappresentare, in casi  particolari, perfino un fattore di rischio o di pericolo.  

Le piante in città, in qualsiasi forma o disposizione, sono una componente di grandissima  importanza per l’umanità perché svolgono funzioni estetico-paesaggistiche, identitarie,  ricreative, ecologiche e sanitarie: i cosiddetti “servizi ecosistemici” in quanto promuovono la  salute e il benessere dei cittadini.  

Le funzioni “ambientali” del verde pubblico e privato sono vastissime, e vanno considerate  nell’immediato e a lungo termine anche perché i tempi di maturazione e di vita delle piante sono  diversi da quelli degli umani e generalmente assai più lunghi. La progettazione e il  mantenimento, pertanto, richiedono un largo concorso di esperienze, di osservazioni  specialistiche e storiche, conoscenza del territorio e di abilità e, in definitiva, sempre nell’ottica  dell’interdisciplinarietà e partecipazione dei cittadini informati per una gestione ecosistemica.  

Va chiarito che il verde urbano propriamente detto include diverse tipologie: le alberate, i parchi,  i giardini pubblici e il verde periurbano, che hanno caratteristiche molto diverse fra loro e queste  condizionano la progettazione degli impianti e le loro finalità. A riguardo occorre tenere  presente che gli alberi sono in relazione comunicativa in primis col mondo degli insetti, ma  anche con la fauna superiore, essendosi sincronizzati nel corso della co-evoluzione naturale per  l’impollinazione attraverso attrazione attuata con l’emissione nell’aria di sostanze chimiche che  noi percepiamo generalmente come “profumi di essenze”, per la propagazione dei semi, per la  lotta ai parassiti; in aggiunta comunicano e intrattengono interscambi simbiotici anche con gli  organismi presenti nel suolo (batteri, funghi microscopici e macroscopici, invertebrati);  comunicano altresì fra loro anche sotto terra, attraverso le radici che si intrecciano  reciprocamente formando anastomosi, sia con individui vicini della stessa specie che fra specie  diverse con cui amano costituire “associazioni vegetali” la cui rete di relazioni produce reciproco  vantaggio. La rete di relazioni infra- e inter-vegetazionale, complessa e invisibile che si instaura  e con le altre forme di vita è decisiva per il reciproco sostegno trofico, per la riproduzione, per  la difesa dagli attacchi da parassiti, per la stabilità meccanica. Il finissimo micelio fungino in  rapporto con le radici (simbiosi micorrizica), inoltre, fornisce all’albero sostanze nutrienti e ha la  capacità di sollevare l’acqua da decine di metri di profondità fino agli strati di suolo più  superficiali, mantenendone l’umidificazione a beneficio proprio e dell’albero oltre che delle  forme di vita legate al suolo. Esso svolge anche un’azione protettiva nei confronti delle piante  con cui è in rapporto, dal momento che l’acqua che trasferisce capillarmente viene filtrata da  eventuali contaminanti di origine naturale o antropica. Le condizioni di impianto migliori dal  punto di vista ecologico possono essere riprodotte per i parchi e per il verde periurbano ove è  possibile favorire le associazioni vegetali tipiche fra alberi, arbusti, essenze erbacee e liane come  l’edera. Più delicata è la situazione dei giardini pubblici soggetti a maggiore pressione antropica  e a calpestio e compattazione del suolo mentre quando si vanno a realizzare le alberate dei viali  diviene importante più che mai il “sesto d’impianto” (vale a dire la distanza fra alberi e arbusti)

e l’area libera di pertinenza che deve garantire gli scambi gassosi e la relazione comunicativa fra  gli alberi.  

Nell’architettura moderna sono degni di nota interventi di “verde verticale” sulle pareti degli  edifici, munite di vasconi (grandi fioriere integrate nel costruito), di “tetti verdi” e giardini pensili.  In tali circostanze occorre tenere presente la tipologia dei vegetali da impiantare considerando  il loro sviluppo dimensionale, l’isolamento delle piante, la necessità di fornitura di acqua e  nutrienti che la pianta non è in grado di procurarsi da sola, l’esposizione alla luce e ai venti e  tutti i possibili effetti collaterali anche negativi che un simile impianto può comportare. Ad  esempio si è verificato che pareti verdi intensamente vegetate abbiano provocato, in cortili  scarsamente ventilati, moria per asfissia di piccoli animali per la stratificazione a terra  dell’anidride carbonica esalata dai vegetali di notte quando, cessata la fotosintesi, era attiva  unicamente la respirazione.  

Infine vanno considerati i casi, non diffusamente estesi ma pure importanti, di specie esotiche  come espressione artistica o didattica di giardini e orti botanici (questi ultimi di grande valore  sia storico-culturale che scientifico, per la tutela ex-situ della biodiversità vegetale).  

I fattori di stress delle piante in città.  

In natura e nel corso della loro evoluzione, gli alberi raramente sono vissuti come singoli individui isolati, ma hanno dato luogo a formazioni forestali, ad associazioni vegetali e a rapporti  simbiotici con il mondo animale e con i viventi del suolo, microscopici o visibili a occhio nudo. Il  bosco è un ecosistema ossia un sistema complesso autosufficiente dominato da alberi, la cui  componente biotica è costituita da piante di varie specie, età e dimensioni e da animali, funghi,  batteri ed altri organismi con interrelazioni integrate fra loro e con l’ambiente chimico-fisico. Il  bosco non ha bisogno dell’uomo per perpetuarsi, ha vissuto benissimo per oltre 300 milioni di  anni in assenza degli umani mentre, al contrario, è la vita dell’uomo ad aver bisogno del bosco e del mondo vegetale. La nostra dipendenza dalle piante è assoluta e continua e non solo per gli  alimenti e altre utilità che direttamente o indirettamente producono: basta smettere di  respirare per qualche minuto per rendersene conto. Da tenere presente che l’ossigeno in forma  molecolare presente nell’atmosfera che respiriamo, è prodotto unicamente dalla fotosintesi  clorofilliana; nei tempi remoti non era presente sulla Terra e solo la comparsa dei vegetali che  lo hanno prodotto come loro “rifiuto” ha consentito lo sviluppo della vita superiore e la nostra  di umani. Dobbiamo tutto alle piante, minuto per minuto.  

Per questo semplice motivo il bosco è soggetto di diritti, di cui sono titolari anche gli alberi come  singoli individui che lo costituiscono. L’analisi del DNA degli alberi mostra che ogni individuo è  diverso dagli altri della stessa specie e, come nell’uomo, è possibile verificare i rapporti di  parentela fra loro. In natura nei boschi l’unione fa la forza: le piante più esterne alla formazione,  che possiamo chiamare “piante di frontiera” perché più esposte ai venti, alle bufere, alle  valanghe, agli aerosol marini, all’inquinamento atmosferico, agli attacchi di parassiti, con la loro  presenza e resilienza (capacità di resistere alle perturbazioni ambientali e alle avversità), proteggono lo stato di salute del resto della comunità forestale. Tranne eccezioni gli alberi in  genere non amano stare soli, anche se individui isolati mostrano una straordinaria capacità di  adattamento. In città, invece, soprattutto lungo le strade, se ci pensiamo bene tutti alberi sono  nelle stesse condizioni di quelli di frontiera e in aggiunta esposti senza protezione a innumerevoli 

fattori di stress sconosciuti alla natura e mai incontrati nel corso dell’evoluzione naturale come  quelli prodotti dall’uomo nelle aree densamente popolate. Il fatto di trovarsi in un contesto – quello urbano- così particolare e artificiale non deve farci dimenticare comunque i diritti e le  esigenze minime degli alberi ma, al contrario, ci obbliga anche soltanto dal punto di vista  utilitaristico, a considerare la necessità di ridurre al massimo i fattori di stress e il benessere delle  piante per una convivenza pacifica tanto utile quanto necessaria. I principali fattori di stress sono  di seguito elencati.  

– Sito d’impianto inadeguato: si impiantano alberi senza badare (cosa peraltro facilissima)  allo sviluppo che l’organismo vegetale avrà man mano che cresce. Così dopo qualche  tempo vediamo marciappiedi occlusi, impraticabili, fastidio agli edifici per la eccessiva  vicinanza agli stessi, rischio di interruzioni per le linee aeree elettriche o telefoniche,  oppure sollevamento del manto stradale operato dalle radici troppo superficiali  (fenomeno, questo, indotto soprattutto quando si mettono a dimora alberi di  dimensioni abbastanza grandi, necessariamente “zollate”, in vaso, prive delle radici “a  fittone”, vale a dire verticali che arrivano a profondità elevate aumentando la stabilità  dell’organismo).  

– Specie arboree inadatte: Si piantano alberi e arbusti, orientando le scelte secondo il  capriccio dell’uomo, accordando preferenze il più delle volte a specie e varietà  provenienti da climi completamente diversi dal nostro, pertanto con esigenze diverse e  per questo soggetti a parassitosi, indebolimento e, in generale, a problemi fitosanitari.  Spesso individui di queste specie, deportati dai loro luoghi d’origine spontanea e  inadatte al clima in cui sono collocati, non vivono ma sopravvivono anche miseramente.  Ho potuto constatare, ad esempio, una Sequoia gigantea (Sequoiadendron giganteum),  una cupressacea che in Sierra Nevada e in California raggiunge i 95 m di altezza e 9 m di  diametro al colletto (ma ne esiste un esemplare col diametro incredibile di 32 metri),  che piantata negli anni ’50 in un giardino nei pressi di Latina, al di fuori del suo ambiente  naturale d’origine è rimasto un alberello di modestissime dimensioni che non cresce e  non muore . Altre specie estranee al nostro clima e all’ecologia degli ambienti del nostro  continente possono diventare, al contrario, infestanti e non controllabili. 

– Terreno inadatto: il suolo non è solo il sito di ancoraggio delle piante ma anche la matrice  in cui si svolgono i processi biologici di scambi e di trasformazione di materia  (acquisizione di acqua e di nutrienti, respirazione delle cellule radicali) e di energia  appartenenti alla normale fisiologia delle piante. La qualità del suolo, la sua fertilità, se  scadenti, sono fattori possono danneggiare le piante e il successo degli impianti di nuove  alberature. Va anche detto che la scelta delle essenze da impiantare deve essere  comunque orientata anche rispetto alle condizioni pedologiche del luogo inteso come  microhabitat: in suoli con elevato grado di umidità naturale andranno preferite, ad  esempio, le Salicacee (Pioppi e Salici) oppure Ontani o i Frassini, mentre su suoli  tendenzialmente aridi specie diverse adatte a quelle condizioni puntuali. In ogni caso il  suolo dev’essere fertile, con una buona dotazione di carbonio organico e  biologicamente vivo: con le radici degli alberi entrano in rapporto diversi simbionti, a  partire dalle estese formazioni delle ife microscopiche dei funghi per finire ai lombrichi  e al resto della fauna invertebrata del suolo con particolare riguardo agli artropodi, il 

gruppo animale più numeroso appartenente alla comunità, a sua volta vastissima, degli  invertebrati.  

– Inquinanti atmosferici. Sono soprattutto i gas di scarico residui delle combustioni (che  avvengono in maniera diffusa nei motori e nelle caldaie per il riscaldamento), e  annoverano principalmente ossidi di Azoto (NOx) , ossido di Carbonio (CO), e in minima  parte gli ossidi di Zolfo (anidride solforosa e solforica, diminuite nel tempo rispetto agli  anni ’60 per i provvedimenti di limitazione delle impurità di zolfo contenute nei  combustibili), idrocarburi. Esistono poi altri inquinanti emessi in misura minore ma tutti  pericolosi per la salute umana come le polveri e Composti Organici Volatili (COV) che  alimentano fenomeni fotochimici che portano alla formazione di ozono troposferico (O3) di formazione secondaria sotto l’azione della radiazione solare. I gas inquinanti vengono  abbattuti in maniera significativa dalle piante e dal suolo fertile (inclusi i prati, con le  loro componenti microbiche naturali), specie se umido. L’ossido di carbonio, ad  esempio, viene abbattuto rapidamente dal suolo ove una dozzina di specie di funghi  microscopici comuni in ogni terreno fertile, lo assorbono e se ne nutrono. Se però  quegli inquinanti si trovano nell’ambiente in concentrazioni elevate, in sinergia con altri  contaminanti e in condizioni climatiche sfavorevoli, si può arrivare a superare i limiti di  tolleranza anche per le piante (che annoverano specie più resistenti e specie assai  sensibili), che così si ammalano e arrivano a perire. Particolarmente nociva è anche  l’eccessiva acidificazione dell’aria originata dai gas inquinanti che si combinano con  l’acqua dell’umidità atmosferica. Il complesso suolo-vegetazione in definitiva, è un  efficiente sistema di depurazione naturale dell’aria ma con dei limiti; come si diceva  nella Scuola Salernitana di antica memoria, “contra vim mortis non est medicamen in  hortis..”: contro la forza della morte non v’è rimedio nell’orto. 

– Inquinamento atmosferico da materiale particolato. Il materiale particolato (particelle  che inquinano l’aria, denominate PM10 perchè del diametro medio di 10 Micron, vale a  dire 10 millesimi di millimetro, e PM 2,5 e inferiori), viene trattenuto dal fogliame e  fissato nel suolo fertile, specie se umido. Fra tutti gli inquinanti, queste particelle sono  riconosciute come la principale causa di tumore e di morte per l’uomo: in letteratura è  riportato che in Italia si stimano 91.000 morti prematuri per inquinamento atmosferico  in un anno, e 66.630 sono dovuti al PM2,5, 21.040 al biossido di azoto (NO2) e 3.380  all’ozono (O3). Gli alberi abbattono il particolato intrappolandolo nella micro-peluria  delle foglie o appiccicandolo su quelle, se resinose. Uno studio condotto a Londra  quantificando la polvere depositata sui mobili all’interno delle case lungo strade, con  assenza di alberi e poi sulle stesse alberate con betulle, ha mostrato che l’alberatura  stradale ne abbatteva il 50%. Tuttavia concentrazioni elevate di PM 2,5 alla fine  danneggiano eccessivamente anche le foglie quando vanno a collocarsi diffusamente  all’interno degli stomi (minuscole aperture composte da due cellule, piccole “bocche”  invisibili a occhio nudo, disseminate sulla superficie delle foglie) che così sono impediti  a regolare, grazie alla loro sensibilità, la propria apertura e chiusura per consentire i  necessari scambi controllati di acqua e di gas tra pianta e atmosfera. La pianta così va in  sofferenza. 

– Inquinamento da metalli pesanti. I metalli pesanti tossici (fra cui Piombo, Mercurio,  Cadmio, Zinco, Rame, Stagno, Nichel e, recentemente, anche Platino, Palladio e Rodio e  altri metalli rari, derivanti dalla degradazione delle moderne marmitte catalitiche) 

presenti nell’aria o nei suoli inquinati, possono essere assorbiti dalle piante e fissate nel  proprio tessuto vivente. Talvolta queste sostanze vengono bloccate e trattenute  all’esterno delle radici, oppure incapsulate in vacuoli cellulari che ne neutralizzano la  tossicità rendendoli non biodisponibili oppure assorbite e distribuite nei tessuti  dell’intero organismo. Le piante appartenenti a specie comuni come i pioppi e i salici, in  aree con presenza di contaminanti di origine naturale (ad es. mercurio nel Monte  Amiata, arsenico e idrocarburi nella Majella) hanno acquisito nel corso dell’evoluzione  naturale anche strategie efficaci per difendersi dalla tossicità di queste sostanze  rendendole sequestrate e isolate a livello biologico al loro interno, tanto che molte di  esse vengono oramai utilizzate come assorbitrici di inquinamento per la bonifica di suoli  nei siti contaminati (Fitorimedio). Anche in questo caso però se si superano determinati  limiti la pianta può andare in sofferenza ma, per fortuna, tali limiti sono veramente assai  elevati. 

– Inquinamento da Idrocarburi. Possono essere idrocarburi incombusti (sgocciolamento  di olio lubrificante e particelle di grasso dai veicoli, oppure inquinanti dell’aria derivanti  dallo scarico dei motori a due tempi dei motocicli che ne emettono in quantitativi  elevatissimi) o residui di combustione, in forma di aerosol particolato o sostanze  gassose. Per gli umani molte di queste specie chimiche sono cancerogene (in particolare  lo sono i policiclici aromatici, il benzene, il toluene e lo xilene) ma le piante e il suolo  fertile hanno capacità di depurazione assai elevate; molti inquinanti di questo tipo  vengono demoliti e metabolizzati dal suolo e dalle piante, quindi ridotti in definitiva  all’innocuità. L’attività microbica del suolo accelera la velocità di biodegradazione anche  delle sostanze aromatiche come i fenoli, molecole piuttosto stabili nel tempo e quindi  resistenti alla degradazione.  

– Rumore e vibrazioni Le piante, attraverso il fogliame, attutiscono l’inquinamento  acustico fungendo da vera e propria barriera fonoassorbente vivente. Tuttavia questi  fattori fisici eccessivi e prolungati, possono provocare anche stress, indebolendole in  diversa misura. È nota, infatti, la sensibilità dei vegetali anche alle vibrazioni con  determinate frequenze: quando ad esempio le cellule di una foglia percepiscono i suoni  provocati dalla mandibola di un bruco che incomincia a masticarle, reagiscono  emettendo segnali interni che stimolano l’emissione di cere e di prodotti chimici  repellenti per gli insetti in tutta la pianta e lo stesso fanno quelle vicine. In città le  vibrazioni del suolo prodotte da metropolitana e dai mezzi pesanti, stimolano le piante  ad allungare le radici e a radicarsi più fortemente, fatto positivo perché ne aumenta la  resistenza ai venti molto forti e diminuisce il rischio di schianto. In definitiva le cellule  vegetali “sentono” i segnali acustici, vibrazionali e chimici rendendosi conto  dell’esistenza di pericoli nell’ambiente e reagiscono con proprie strategie di difesa  “avvertendo” anche le consorelle vicine.  

– Inquinamento luminoso. Ê un importante fattore di stress per gli alberi. In inverno,  quando le foglie sono oramai cadute, è facile vedere, ad esempio nei pioppi, che i rami  nei pressi dei lampioni a luce abbastanza forte portano ancora tutte le foglie mentre il  resto dell’albero è spoglio così come tutti quelli, della stessa specie, dell’intorno. Ciò  avviene perché è stato alterato il “fotoperiodo”, l’orologio interno delle piante che si  basa sulla “misurazione” percettiva della durata delle ore di luce rispetto a quella delle  ore di buio e che regola le fasi biologiche annuali del vegetale. 

– Potature mal fatte. L’albero auto-regola la propria forma e postura, per ottenere la  migliore stabilità, capacità di catturare la luce, resistere a venti e alle correnti d’aria del  luogo esatto ove si trovano, per la migliore ricerca dell’acqua e dei nutrienti. I rami sono  disposti nello spazio in maniera da limitare al massimo l’ombra fra di loro e le foglie si  dispiegano perché tutte possano catturare quanta più luce possibile; se osserviamo un  abete, ad esempio, vediamo che le foglioline più in alto sono orientate tutte  verticalmente per lasciar filtrare la luce verso quelle sottostanti e man mano che si  procede verso il basso le stesse sono sempre più orizzontali ed espongono la maggiore  superficie possibile. Le foglie dei pioppi, poi, sono particolari con il loro picciòlo allungato  e stretto lateralmente; così possono oscillare vistosamente con vento anche  debolissimo e lasciare passare luce alle foglie sottostanti, assicurando all’albero  l’energia per la crescita rapida e l’evapotraspirazione che in questa specie sono  fenomeni molto elevati. Potature mal fatte – spesso vere e proprie capitozzature – alterano l’equilibrio posturale spontaneo, rendono instabili gli alberi e, attraverso le  “ferite” da taglio, espongono alla penetrazione nell’albero di microfunghi, batteri, virus  che creano deformazioni, calli mostruosi, carie interna, attacchi del tronco da parte di  funghi saprobici. Praticamente mai, tranne rarissime eccezioni, i tagli da potatura degli  alberi in città vengono protetti con appositi “medicamenti” (in forma di speciali vernici isolanti e non tossiche, peraltro assai poco costose) per scongiurare infezioni che  generano parassitosi e conseguenti cadute di rami e che spesso sono letali per l’albero  con schianti pericolosi per la sicurezza dei cittadini. Le capitozzature producono il  disseccamento delle radici a fittone che sono quelle verticali profonde che più assicurano la stabilità dell’albero. Anche il taglio di rami principali portano al  disseccamento delle corrispettive radici a cui erano fisiologicamente connessi, col  risultato di favorire l’instabilità degli alberi. Altro fattore di instabilità deriva dalle  potature che rendono gli alberi sottili e “filanti”, tutti sviluppati in altezza, con ciò  sottoposti ad un braccio di leva che ne facilita la caduta sotto la spinta del vento.  

– Spazio insufficiente per lo sviluppo delle radici. L’attenzione a creare le condizioni per il  miglior sviluppo delle radici è generalmente bassa o nulla. Eppure da questo dipende  gran parte della salute della pianta e, soprattutto, la sicurezza che l’albero non cadrà su  persone o sulle automobili allo spirare di venti di forte intensità. Al di là della pratica di  reciderle perché magari sollevano pavimentazioni o il manto stradale o per interrare  cavi e tubazioni, occorre considerare che le radici devono potersi sviluppare in maniera  adeguata ed armonica anche per svolgere la funzione di solido sostegno. L’apparato  radicale, dotato di finissima sensibilità, è per gli alberi un importante “centro di  comando” della fisiologia dell’intero organismo, di “comunicazione” col biota  circostante e dal suo sviluppo dipendono il loro stato di salute e la longevità.  

– Atti sconsiderati attuati dall’uomo. Gli alberi in città sono soggetti anche ad attacchi  prodotti dall’uomo, per accidente, per ignoranza o deliberatamente. Si pensi agli insulti  prodotti ai tronchi con all’infissione di chiodi o, peggio, con cercini di metallo, con cappi  di cavi d’acciaio che stringono sempre di più con l’accrescimento e provocano calli  mostruosi e che possono portare la pianta alla morte, letteralmente “per impiccagione”.  Si pensi ancora a chi, dopo aver lavato le vetrine dei negozi o i pavimenti, butta acqua  sporca con detergenti chimici entro le aiuole, avvelenando le radici. Capita anche di  vedere automobili parcheggiate in parte sopra il terreno attorno all’albero o sull’aiola, 

compattandolo, impedendo così l’assorbimento dell’acqua piovana e la respirazione  radicale. Frequenti sono pure le potature abusive fatte in proprio da privati o sollecitate  al Comune, al solo scopo reale di far vedere da tutte le angolazioni e da più lontano  possibile le insegne e le vetrine dei negozi, ed esistono persino avvelenamenti deliberati  di alberi per gli stessi motivi. Questi comportamenti vanno stigmatizzati, sanzionati e  combattuti soprattutto con la cultura e la conoscenza e rimpiazzando sempre e  rapidamente l’albero soppresso. Va detto, di converso, che esistono anche casi opposti,  virtuosi: persone che adottano un’aiuola, un piccolo spazio verde pubblico, che curano  l’albero di fronte alla propria casa o luogo di lavoro, che offrono all’albero sul suolo  pubblico il soccorso con un po di acqua nei periodi di massima siccità.  

I benefici degli alberi in città (servizi ecosistemici resi all’uomo) 

Premesso che gli alberi sono da rispettare in sé, al di là delle considerazioni utilitaristiche, in  quanto organismi complessi, dotati di fortissima autosufficienza, pilastri della biodiversità e degli  ecosistemi naturali, titolari di diritti, elementi fondamentali degli equilibri ecologici locali e  globali, non possiamo non considerare e apprezzare anche i “servizi ecologici” resi da queste  creature anche alla comunità umana. Tali servizi riguardano il sistema albero-ambiente (sia  aereo che in riferimento al suolo fertile) e possono essere così schematicamente riassunti. 

Produzione di ossigeno, fatto noto a tutti ma non altrettanto noto è che, dal momento che la  diffusione di questo gas nell’atmosfera è un fenomeno piuttosto lento, più si è vicini agli alberi  e maggiore è l’ossigenazione benefica localmente presente.  

Assorbimento dell’anidride carbonica : gli alberi, e il mondo vegetale, sono grandi regolatori del  clima globale in quanto contengono il riscaldamento del Pianeta entro limiti ottimali per la vita  e per l’uomo. Non c’è altro sistema o rimedio per sottrarre rapidamente l’anidride carbonica,  principale gas serra, presente attualmente in eccesso nell’atmosfera. La lotta ai cambiamenti  climatici vede negli alberi i principali alleati dell’umanità. 

Regolazione del microclima locale attraverso l’umidificazione dell’aria: in estate nell’aridità  spinta delle città, l’evapotraspirazione delle piante produce notevole miglioramento del  microclima e quindi benessere. 

Contenimento dell’“isola di calore” urbana: le piante non si limitano a produrre ombra e a  riflettere ed assorbire radiazione solare, ma attraverso l’evapotraspirazione, abbassano  sensibilmente la temperatura del luogo in cui si trovano. Creano frescura, comportandosi  come vere e proprie pompe di calore, autentici condizionatori della temperatura dell’aria 

ambiente. Il passaggio di stato dell’acqua da liquida a vapore, infatti, sottrae energia (e quindi  calore) dall’ambiente circostante, raffreddandolo. E fanno questo servizio termodinamico  gratuitamente e in autonomia. Sono pertanto una risposta alla mitigazione e all’adattamento  nei confronti soprattutto delle ondate di calore estive sempre più frequenti soprattutto in città  ove di parla di “isole di calore” esasperate a causa dei mutamenti climatici e dell’intorno  occupato da edificato e asfalto che si riscaldano notevolmente; le ondate di caldo torrido  responsabili, secondo le statistiche, di innumerevoli decessi prematuri soprattutto tra le persone 

anziane. Oggi i decessi prematuri dovuti a questa causa sono stimati, nel mondo, in 12000  all’anno, destinati a divenire 260000 al 2030. 

Miglioramento dell’equilibrio idrogeologico: Le superfici attrezzate a scopo di drenaggio  divengono anche spazi urbani di qualità, verdi, habitat naturali, che contribuiscono a connettere  in rete parchi, giardini, quartieri e possono essere realizzati anche in forma di stagni di bellezza  naturaliformi, utili tra l’altro alla riproduzione di varie specie animali come gli anfibi. Gli  interventi denominati Green Streets consistono nel graduare dolcemente le pendenze di strade,  piazzali e marciapiedi per convogliare le acque piovane verso aiuole o aree fertili ove possono  essere assorbite nel suolo. Si alleggerisce, in questo modo, l’immissione delle acque nel sistema  fognario e si evita che le portate idriche di supero che non possono essere accettate dagli  impianti di depurazione che hanno necessariamente capienza limitata, vengano sversate  direttamente nelle acque superficiali. Queste aree assorbenti rendono assai gradevole il clima  e la bellezza della città e dei quartieri e ne migliorano l’aspetto con una grande varietà di piante che possono contare su maggiori riserve idriche sotterranee di cui alimentarsi. La ricarica delle  falde contribuisce anche all’equilibrio idrogeologico dell’ambiente urbano e alla sopravvivenza  o alla rinascita di sorgentelle locali che spesso alimentano antiche fontane oramai non più  utilizzate a seguito dell’arrivo dei moderni acquedotti o addirittura andate in asciutta, ma che  hanno un valore storico, demo-antropologico e urbanistico e talvolta monumentale. Va pertanto  abbandonata la pratica di isolare gli alberi imprigionandoli in spazi angusti con muretti o  addirittura con inutili vasconi di cemento. 

Detossificazione dell’aria: i cosiddetti “ossidi di azoto”, gas tossici derivanti dalle combustioni,  che chimicamente in realtà andrebbero chiamate “anidridi”, sono molecole avide di acqua con  la quale reagiscono prontamente formano i rispettivi acidi. In condizioni normali i due gas,  l’azoto e l’ossigeno molecolari, componenti normali dell’atmosfera in cui siamo immersi (circa il  78% per l’azoto e 21% per l’ossigeno) non reagiscono fra loro. Per potersi legare e formare le  anidridi occorre che l’aria sia portata a temperature assai elevate che aumenti l’agitazione delle  molecole, un “impazzimento” che produce e urti “efficaci”, oppure che vi sia una compressione  elevatissima che costringa le molecole unirsi per forza. La prima cosa avviene con le  combustioni, ma il motore a combustione interna è lo strumento più efficace perché svolge  entrambe le funzioni: riscaldamento con lo scoppio e simultanea compressione. Gli acidi Nitroso  e Nitrico) derivanti da quelle anidridi gassose reagendo, sempre con rapidità, con i minerali del  suolo e con le superfici lapidee formando nitriti e nitrati, molecole assai solubili, che sono  nutrienti-fertilizzanti per i vegetali. Il sistema suolo-piante, quindi aiutano a rimuovere dall’aria  questi pericolosi inquinanti di cui alla fine i vegetali si nutrono. Le piante assorbono un una  quantità di inquinanti atmosferici oltre ai composti dell’Azoto: esperimenti condotti a New York,  per esempio, hanno stimato che nel 1994 gli alberi della città hanno rimosso circa 1800  tonnellate di inquinanti atmosferici, con un valore in termini di risparmio per la società di 9,5  milioni di dollari. Uno studio condotto su un’area verde a Milano ha mostrato che una superficie  boscata al 30% apportava un sequestro annuo di un quarto degli inquinanti rispetto a pari  superfici prive di alberi. Si ribadisce comunque che questi sono ancora dati parziali e  sottostimati: abbattitori infatti sono anche semplici prati erbosi, arbusti, filari di siepi e il suolo  fertile. Ovviamente anche per questo aspetto gli eccessi sono da evitare perché nuocciono  anche alle piante soprattutto per l’acidificazione delle foglie per le deposizioni dall’aria. In città  l’alternativa all’impiego delle piante nella detossificazione dell’aria siamo noi umani; infatti  ciascuno espone mediamente circa 140 metriquadri di superficie polmonare umida agli  inquinanti atmosferici: inaliamo anidridi trattenendone i rispettivi acidi nel nostro organismo, e 

assorbiamo polveri e particolato, il già descritto PM . A chi obietta sulla necessità di operare  forestazione urbana andrebbe chiesto se la detossificazione dell’aria convenga farla fare ai  vegetali con il loro suolo..oppure alle decine di ettari di superficie polmonare umida dei cittadini  che non possono fare a meno di respirare.  

Contenimento dell’inquinamento da rumore: il fogliame spezza e ammortizza le onde  acustiche, attenuandole. Opportune alberature stradali con specie sempreverdi possono  mitigare il disturbo da inquinamento acustico sia se provocato da fonti dirette che da onde  acustiche riflesse tra le pareti dei palazzi e che si propagano rimbalzando fino ai piani superiori.  Ove necessario e con spazi disponibili con gli alberi in più filari è possibile creare vere e proprie  barriere fonassorbenti vegetali, magari in aggiunta o in alternativa ai classici pannelli. Con la  bellezza di barriere vegetate è infatti possibile anche mascherare e rendere completamente  invisibili i pannelli fonoassorbenti classici, lungo strade e ferrovie, ed evitare che in quelli  trasparenti vadano a collidere gli uccelli in volo. Lo stesso vale per impedire il proliferare  eccessivo dei cartelloni pubblicitari e le scritte imbrattanti sui muraglioni, veri e propri detrattori  ambientali, apportatori di confusione di messaggi e bruttezza percepita. Importante a questo  scopo è l’impiego delle liane in città, ovvero di rampicanti sempreverdi come, ad es. l’edera, per  ottenere bellezza mascherando muraglioni e la riduzione dell’inquinamento acustico.  

Bioindicazione delle qualità dell’aria: il metodo più semplice per valutare la qualità dell’aria ,  puntualmente in un determinato posto, è quello di osservare sui tronchi degli alberi la presenza,  l’estensione e l’abbondanza di specie di licheni epifitici (vale a dire che crescono sui tronchi delle  piante). I licheni reagiscono al complesso degli inquinanti atmosferici e la loro estrema sensibilità  li rende estremamente fragili anche perché la loro vita dipende esclusivamente dalla qualità  dell’aria. In presenza di inquinamento atmosferico le specie più sensibili presto scompaiono e  le altre, più resistenti, riducono il proprio tasso di crescita e poi col crescere dell’inquinamento  riducono le dimensioni del loro tallo. La valutazione grossolana e speditiva – ma significativa della qualità dell’aria in un’area ristrettissima o puntualmente in una strada o in un giardino può  essere fatta osservando le diverse macchie di colore e le diverse forme licheniche e contandole,  su una superficie fissa, senza ripetizioni. Dove vediamo tronchi incrostati da numerose specie  di licheni e presenti in macchie di estensione considerevole, l’aria è di migliore qualità; poche  specie e di ridotte dimensioni indicano aria con un po di inquinamento, mentre la presenza una  sola specie indica aria inquinata e infine l’assenza completa di licheni, chiamata “deserto  lichenico”, indica aria molto inquinata. Anche gli apici vegetativi primaverili delle piante sono  indicatori di qualità dell’aria: tanto più sono verdi e sani e tanto più vuol dire che l’aria è poco o  nulla affetta da inquinamento. Se consideriamo il costo molto elevato delle centraline  automatiche per il monitoraggio chimico della qualità dell’aria (di acquisto, di installazione, di  manutenzione e di gestione ordinaria che richiede personale addetto quotidianamente e analisi  di laboratorio) che impone uno scarso numero di punti di rilevamento nelle città, risulta subito  evidente che l’utilizzo dell’osservazione degli alberi con la propria dotazione spontanea naturale  di licheni per gli stessi fini ha un valore anche economico e sociale elevatissimo. Ha anche un  valore “democratico”, perché consente a chiunque di poter valutare, grossolanamente ma in  maniera attendibile, lo stato di qualità media dell’aria che respira. A Berna da decenni gli alberi  di città, per i licheni che ospitano, fanno parte ufficialmente, assieme alle centraline di analisi  automatiche, del sistema di controllo e valutazione dell’inquinamento atmosferico urbano. Chiaramente la valutazione dell’inquinamento atmosferico basata sui licheni può essere 

effettuata anche in maniera scientifica e specialistica, ma occorre che il metodo standardizzato  sia applicato da personale specializzato (o che intende specializzarsi) nel riconoscimento delle  specie licheniche.3 

Conservazione della biodiversità: Gli alberi ospitano svariate specie di animali, dando loro  rifugio, cibo, luogo di nidificazione. Nelle cortecce distaccate si realizzano nicchie che offrono l  “la casa” a pipistrelli e riparo a numerose specie d’insetti. Nei tronchi morti_in piedi i picchi  prediligono scavare i loro nidi e sui pini vivono coleotteri predatori di insetti e di acari nocivi.  Varie, anche se difficilmente visibili, sono le specie di mammiferi (scoiattoli, ricci, ma non solo)  che utilizzano gli alberi per rifugio anche scavando tane fra le radici e/o alimentazione,  arricchendo così la fauna delle nostre città.  

Contrasto all’alienazione: La monotonia, la spersonalizzazione che l’edificato spesso induce tra  i cittadini (soprattutto se brutto o banale), può essere contrastata dagli alberi soprattutto se  autoctoni. Ci sono ambienti cittadini identici a sé stessi che potrebbero essere in qualsiasi altro  posto lontano, a qualsiasi e latitudine; gli alberi possono ridare identità geografica a posti simili:  in una pianura planiziale, ad es., la presenza di vegetazione tipica spontanea, vale a dire quella  che si sarebbe insediata spontaneamente in quel luogo se non ci fosse stato l’uomo, ha una  funzione identitaria, positiva, aiutando il cittadino a conoscere e apprezzare il luogo in cui vive.  

Spazi attrezzati per lo sport: le attività sportive, sia semplicemente salutistiche che di livello  agonistico, possono trovare negli spazi verdi tal quale o appositamente attrezzati le loro  straordinarie palestre naturali all’aperto, di gran lunga più gradevoli e salutari di quelle chiuse  tra quattro mura, strutture che comunque restano indispensabili nei periodi di maltempo o  quando occorrano attrezzature particolari. Campi da tennis, da pallavolo, da pallacanestro,  piscine all’aperto, piste per marciare, soprattutto se facilmente raggiungibili nel breve tempo di  15 minuti a piedi, appartengono al sistema urbano del verde anche se andrebbero conteggiati  in maniera distinta rispetto alla dotazione “verde/pro capite” in quanto comunque attrezzature  sportive.  

Benessere psico-fisico: Il bosco e gli alberi, con la loro bellezza e con i loro profumi, assicurano  benessere fisico e psichico all’uomo: il contatto regolare col bosco soprattutto se non alterato  dall’uomo, con i parchi urbani alberati e con i camminamenti lungo i filari, aumentano la  resistenza alle malattie, accelerano i processi di guarigione, attivano il benessere psicofisico e  favoriscono la nascita di nuovi neuroni nei cervelli anziani che riacquistano comportamenti  giovanili contrastando diverse patologie degenerative. 

Promozione del paesaggio: la presenza degli alberi costituisce una rivoluzione nella bellezza  complessiva dei luoghi; anche quelli più scialbi, urbanisticamente non attraenti o addirittura  banali, assumono nuova bellezza e divengono attraenti se corredati di una buona dotazione  arborea, con presenza equilibrata di sempreverdi e caducifoglie, con aiuole di suolo fertile, con  arbusti ed erbe con fiori e colori della natura, in definitiva grazie alla biodiversità. Divengono  

3Il metodo per valutare la qualità dell’aria attraverso l’osservazione e la misura della presenza,  estensione su una superficie e frequenza dei licheni si chiama IBL (Indice di Biodiversità lichenica),  pubblicato dall’ISPRA e scaricabile gratuitamente digitando :  

http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/manuali-e-linee-guida/i-b-l-indice-di-biodiversita lichenica.

interessanti i mutamenti di aspetto e di colori al volgere delle stagioni, i profumi, la presenza di  uccelli, la percezione del vento fra le foglie.  

Valorizzazione dei Beni storici, artistici, culturali: anche i beni storici, culturali, monumentali,  artistici se visti nel loro contesto naturale-ambientale di corredo verde nel quale erano stati  concepiti, assumono valore percettivo e maggiore significato e godimento. Un’area archeologica  di epoca italica o romana, un tempio greco o una villa del Palladio, non possono essere godute  nella loro pienezza se circondati di alberi di Eucaliptus originario dell’Australia e della  Tasmania…o da Ailanthus della Cina. Di contro molte delle ville storiche devono la loro bellezza  anche alla piantumazione di specie esotiche che nel tempo sono diventate parte integrante di  quel paesaggio (si pensi ad esempio agli alberi monumentali presenti in svariate città e non di  rado risultato di piantumazioni del passato). In questi casi occorre svolgere una indagine storica  –archivistica e fare ricorso a foto d’epoca o a dipinti, ove possibile. 

Funzione sociale, aggregativa: Isole di alberi in città, anche piccole, magari corredate di  panchine e con prato e giochi per bambini, con un’area recintata di dimensioni adeguate per lo  sgambettamento dei cani, divengono attrattive di persone favorendo la socialità, la conoscenza  tra persone, la responsabilizzazione verso la custodia e la pulizia degli spazi comuni. Esperienze  fatte in grandi città come Parigi, di orti-giardini urbani, hanno mostrato che le aree verdi e orti  accuditi direttamente dai cittadini divengono veri e propri centri sociali, luoghi di aggregazione  di persone di tutte le età, di riduzione dei conflitti e promuovono solidarietà e maggiore  sicurezza. Occorre tuttavia agire con cautela. Per quanto riguarda gli orti urbani, dal momento  che i prodotti sono destinati all’alimentazione umana, occorre prestare attenzione al possibile  inquinamento del suolo nel luogo d’impianto e alle deposizioni di contaminanti che possono  pervenire sulle coltivazioni dall’atmosfera. Per valutare l’idoneità di un suolo alla coltivazione  di alimenti, oltre all’ispezione visiva dell’intorno e del luogo specifico per controllarne l’assenza  di rifiuti e di colorazioni anormali, si può verificare la presenza di invertebrati (lombrichi,  artropodi ) che abbondano in suoli sani (sono indicatori biologici di qualità); in caso di dubbio si  può prelevare un campione composito (vale a dire ottenuto mescolando fra loro piccoli sub campioni di terra prelevati in un ideale reticolo) da sottoporre ad analisi in un laboratorio  chimico specializzato. Per le deposizioni atmosferiche occorre valutare la presenza di arterie  stradali e di altre fonti di inquinamento atmosferico industriale nelle vicinanze che possano  interessare gli orti. Si consideri infine anche la possibilità di realizzare giardini chiusi in serra, con  strutture che possono essere artistiche, con vetrate di bellezza e frutteti sociali. 

Sviluppo della didattica naturalistica e della cultura storico-sociale ed ambientale della città e  del suo territorio: è dimostrato come la didattica svolta in parte all’aperto, concretamente  legata alla conoscenza del territorio utilizzando l’ambiente come laboratorio naturale, con le sue  evidenze e peculiarità , sia estremamente proficua nella formazione del cittadino e delle classi  dirigenti e in definitiva per il raggiungimento della sostenibilità e del vivere civile. La didattica  svolta nel verde, diffusa in Svizzera e nella Scandinavia e sempre più adottata in varie parti del  mondo, ha mostrato vantaggi significativi anche sotto il profilo dell’apprendimento scolastico  generale. 

Benessere, svago ed educazione per i bambini. E’ questo un tema di grande importanza. Le  aree verdi concepite anche a questo scopo devono essere realizzate vicino agli asili, alle scuole  materne ed elementari o all’abitato comunque raggiungibili di norma al massimo nel tempo di  15 minuti circa camminando a piedi. Tali aree possono essere corredate da un piccolo stagno 

pieno di vita o munite di una mini-fattoria degli animali ove è possibile osservare oche, galline,  altri animali domestici da accudire. Questa funzione specifica rivolta ai bambini, può essere  svolta più agevolmente nei vivai, allo scopo opportunamente dotati di attrezzature con animali  domestici. Sono attrattive anche serre attrezzate come “casa delle farfalle” o anche la creazione  di piccoli giardini di specie aromatiche che possono contribuire non solo all’educazione  ambientale ma anche alla biodiversità. 

Le piante nell’ambiente umano: quali criteri per una progettazione  ecologica del verde urbano? 

1) La scelta delle specie da impiantare è molto importante. Occorre dare innanzitutto  preferenza alle specie appartenenti alla flora spontanea potenziale locale che, tra l’altro,  comprende molte entità di particolare bellezza e definibili, in termini forestali, “nobili”  e identitarie. La flora locale è anche quella “più conosciuta” dalla fauna locale ed è la più  adatta ad ospitarla avendo vissuto lunghissimi tempi di relazioni e di co-evoluzione e di  adattamento con vantaggi reciproci. Va applicato il concetto di “restauro ambientale”  imitando i criteri adottati nel restauro di un bene culturale che richiede tipicamente la  comprensione dell’oggetto, la sua conoscenza di dettaglio e della veduta d’insieme che  regoleranno la progettazione delle tecniche risanatorie. Allo stesso modo la  progettazione del verde urbano e periurbano non può essere fatto astrattamente “su  una tela bianca” ma deve seguire criteri ecologici aderenti alla vocazione naturale  spontanea dei luoghi. Adottare criteri diversi comporta non solo la realizzazione di “falsi  culturali” (e colturali) ma anche indebolimento dell’intero impianto che, se inadatto, alla  fine rischia di essere fortemente danneggiato o eliminato, nel tempo, dalle pressioni  selettive della natura o delle attività umane. 

2) Oltre all’individuazione delle “specie giuste”, la preferenza va rivolta per quanto  possibile alle varietà locali di quelle specie, vale a dire agli ecotipi autoctoni. Si  definiscono così le piante indigene, presenti localmente da generazioni, se non da tempi  immemorabili, e che hanno caratteristiche genetiche che hanno consentito loro di  passare indenni il vaglio spietato della selezione naturale in sede locale. In quanto  sopravvissute, esse risultano essere le più adatte, le più vigorose e resistenti alle  avversità che possono presentarsi localmente e quindi necessitano di minori cure  colturali (meno o nulla fitofarmaci e altri interventi di sostegno). Non basta quindi aver  individuato le specie “giuste”, ma occorre rivolgersi anche ai tipi locali di quelle specie.  La pratica qui raccomandata non solo è vantaggiosa per il buon esito degli impianti di  alberi ma costituisce anche uno dei provvedimenti scientificamente corretti e necessari  per la salvaguardia, conservazione e promozione della biodiversità a livello genetico,  oggi messa in pericolo dal vivaismo utilitaristico commerciale che non tiene conto  dell’adattabilità delle piante ai luoghi in cui verranno insediate e non raccoglie per intero  la variabilità genetica esistente all’interno della stessa specie, rischiando di far perdere  molte di quelle caratteristiche che permettono l’adattabilità a mutate condizioni  ambientali. A titolo di esempio vi sono piante che emettono assieme a semi che  germinano normalmente, un certo quantitativo di semi “dormienti” per alcuni anni  prima di germogliare e questo garantisce la sopravvivenza della specie in caso di  calamità naturali come potenti gelate o attacchi generalizzati di parassiti; nei vivai  questi semi non germogliati assieme ai suoi consimili sono considerati sterili, vengono  buttati come rifiuto e con ciò si perde una caratteristica genetica acquisita con 

l’evoluzione per la sopravvivenza della specie. Si tratta, in definitiva, di salvaguardare e  valorizzare la ricchezza dei genotipi presenti nel territorio, anche all’interno delle stesse  specie. È accaduto che una potente gelata abbia seccato circa 40 anni fa quasi tutti gli  allori dell’Italia centrale-adriatica, mentre quelli “selvatici” presenti persino in montagna  o lungo alcuni corsi d’acqua non hanno avuto conseguenze di sorta. Osservandoli nel  tempo si è visto che quegli esemplari avevano anche foglie più profumate e, a differenza  di quelli di origine vivaistica, anche non attaccati dalle cocciniglie: ecco individuato un  ecotipo locale, il cui patrimonio genetico merita di essere conservato attraverso la  moltiplicazione di quelle piante e la loro diffusione. Ovviamente il ricorso alle specie  locali e agli ecotipi locali di quelle specie non dev’essere un dogma: possono essere  impiantate anche specie diverse purchè non infestanti (come ad es. la Ginkgo biloba o il  Cedro del Libano o la Magnolia), in ragione della loro bellezza di portamento o di colore  del fogliame, o per il profumo o per le spiccate funzioni ecosistemiche che possono  fornire (es. perché assorbono inquinanti atmosferici o come barriera contro  l’inquinamento da rumore o per i frutti appetiti dall’avifauna). L’importante è che la  matrice verde della città sia quella potenziale autoctona largamente preponderante e  che le specie alloctone siano l’eccezione consapevole.  

3) La scelta delle entità da impiantare deve essere attentamente valutata rispetto alle  esigenze della pianta e rispetto al suolo (in particolare natura sabbiosa-silicea o  argillosa, calcarea o vulcanica ecc.), al grado di umidità, permeabilità e rispetto alla  presenza di manufatti, abitazioni, strade e marciappiedi. Attenzione particolare va  posta nel garantire che l’albero abbia il suo spazio vitale una volta cresciuto e non  produca fastidi. Tali accortezze eviteranno che la pianta crescendo arrivi ad ostruire il  passaggio dei pedoni, rovini il manto stradale e le pavimentazioni con le proprie radici,  diano fastidio alle abitazioni così da richiedere potature anche estreme e, alla fine,  abbattimenti e sostituzioni.  

4) Va assunta la filosofia per cui ogni potatura è da intendersi come una sconfitta: se  necessaria vorrà dire che sono stati commessi errori all’origine nella scelta della pianta  e nel suo posizionamento il quel luogo. Potature sono possibili ma solo se leggere, di  forma oppure rivolte ai rami secchi che potrebbero cadere sotto la spinta del vento o  sotto il peso della neve. In ogni caso andranno effettuate da personale esperto,  opportunamente addestrato. 

5) La scelta delle specie di alberi e arbusti, ma anche di cespugli erbacei, specie rampicanti  (liane), terrà conto, altresì, del loro sviluppo, della bellezza e delle conoscenze attuali  circa la resistenza specifica delle piante agli stress ambientali e della loro capacità di  abbattere inquinanti atmosferici purificando l’aria e l’inquinamento da rumore. A tal  proposito va considerato che la pianta svolge queste funzioni tanto più quanto è in  buona salute e che questa dipende in gran parte anche dalla naturalità del suo apparato  radicale nella profondità del suolo e nel terreno: pertanto nella scelta della specie più  idonea, oltre all’attenzione alla parte aerea, (tronco, rami e foglie), va considerata anche  quella sotterranea e l’immediato intorno del suolo di pertinenza per il libero ed esteso  sviluppo dell’apparato radicale. Indispensabile è quindi anche la preparazione del  terreno nel luogo d’impianto, che va fatta in profondità e lasciare terreno libero da  asfalto o cemento in cui possano insediarsi fittamente le densissime reti di ife fungine  che, in simbiosi con le radici, svolgono la funzione di sollevare l’acqua dagli strati  profondi verso l’alto, assicurano il miglior reperimento di nutrienti anche a distanza,  rilasciano ormoni della fertilità e vitamine, mentre proteggono l’albero filtrando gli  inquinanti (metalli pesanti, radionuclidi , sostanze organo-clorurate) presenti nel suolo 

e nell’acqua. Le ife fungine, inoltre, mettono in comunicazione fra loro gli alberi a livello  sotterraneo, portando informazioni utili a difendersi dai parassiti o per coordinare la  cosiddetta “pasciona”, vale a dire periodiche fruttificazioni abbondanti coordinate e  simultanee. Vanno pertanto perseguiti, per quanto possibile, raggruppamenti di alberi  o di arbusti delle specie preferibilmente tipiche locali, sia in “corridoi” con impianti sotto  forma di filari per connettere fra loro varie aree verdi e sia con l’importante realizzazione  di “isole verdi”, vale a dire raggruppamenti di alberi da impiantare ove c’è spazio  disponibile preferibilmente con arbusti normalmente ad esse associati (es. a livello  litoraneo, Pino con Mirto e con edera rampicante). Lo stare insieme ed essere connesse  in relazione fra loro, aiuta la salute delle piante ed è ancora più desiderabile per la  riproduzione sessuata delle specie dioiche (vale a dire a sessi separati)mentre porta  vantaggi a tutte le biocenosi. Soprattutto per la conservazione della biodiversità andrà  privilegiata una mescolanza di specie fra loro compatibili (associazioni vegetali note,  sempre dando priorità al modello vegetazionale tipico locale, evitando interventi di  forestazione monospecifici e per quanto possibile la coetaneità) e di varie dimensioni:  ciò oltre a contribuire a creare un habitat più vario per la fauna consente una maggiore  stabilita e resistenza della comunità vegetale (e una maggiore biodiversità vegetale). La  varietà di specie può facilitare anche la colonizzazione da parte di organismi del suolo  (batteri, funghi, invertebrati), essenziali per mantenere nel tempo i nuovi impianti.  

6) Un giusto equilibrio tra piante decidue (caducifoglie) e piante sempreverdi, tra conifere  e angiosperme (piante con fiore e frutto) va tenuto in considerazione per finalità  estetiche e per i servizi ecosistemici in ambiente urbano. Ad es. per costruire barriere  contro il rumore ci si rivolgerà alle sempreverdi e lo stesso vale per i muri con liane per  attutire le onde acustiche riflesse.  

7) Non secondaria è la scelta di essenze vegetali che profumano l’aria. I panorami vegetali  percepiti con la vista sono notoriamente benefici per la salute fisica e psicologica umana.  Non adeguatamente considerata, invece, è l’importanza degli odori delle piante,  percepiti anche col più potente dei nostri sensi –l’olfatto- sottoforma di profumi di  essenze che sono dovuti a molecole volatili che percepiamo anche se presenti in tracce  nell’aria-ambiente. È accertato da numerosi studi che i profumi di origine vegetale  influenzano in modo profondo il nostro benessere e condizionano marcatamente il  “profilo dell’umore”: riducono stati di confusione, tristezza, terrore, senso di colpa,  stanchezza, vigore-iperattività. La presenza di formazioni boschive, in aggiunta, stimola  la formazione e l’azione delle cellule NK (Natural Killer), così chiamate perché producono  proteine anticancro: le persone che trascorrono anche solo due ore in mezzo agli alberi,  godendone vista, profumi, meglio ancora se in panorama sonoro naturale in cui possono  udire esclusivamente il canto degli uccelli, delle cicale e lo “stormire” del vento nelle  fronde, mantengono questa benefica protezione all’incirca per un mese. È accertato,  altresì, che la presenza delle piante in luoghi di cura accelera la guarigione dei pazienti,  di gran lunga rispetto a quelli che sono degenti in ambienti che ne sono privi. Anche  nella formazione psicofisica le piante dànno vantaggi straordinari tanto che in molte  nazioni industrializzate si organizzano diffusamente scuole residenziali nei boschi. In  Giappone il sistema sanitario utilizza lo shirin – yoku, (letteralmente “bagni di alberi”)  per terapie fatte passeggiando per circa almeno 2 km in mezzo ai boschi o nei parchi  alberati di cui le metropoli di quel Paese sono dotate. Tale terapia che potremmo  definire “arborea” è riconosciuta ufficialmente tra i livelli assistenziali dal sistema  sanitario nazionale giapponese. Recentemente, infine, si sta diffondendo l’utilizzo di 

specie aromatiche (lavanda, timo, peperoncino, etc.), soprattutto per costituire siepi  ornamentali o di delimitazione (ad esempio aree cani). 

8) Per la sicurezza dei cittadini, da perseguire evitando cadute di alberi o di rami, sono  richieste diagnosi precoci sulla staticità degli alberi, che solo in prima approssimazione  va effettuata con ispezione visiva. Per avere certezza sulla pericolosità dell’albero  occorrono infatti diagnosi effettuate con adeguati strumenti e da personale esperto e  qualificato. Occorre, in ogni caso, vigilare e nei casi critici assicurare un’eventuale  adeguata manutenzione, scientificamente corretta e non basata sulle mutilazioni  affidate all’opera delle motoseghe ( es. imbracature con tiranti, pali di sostegno, terapie  adeguate). Anche i criteri di sicurezza devono essere tenuti presenti fin dal momento  della scelta delle specie e delle varietà dell’impianto, dal momento che talune specie  sono naturalmente più soggette di altre a patologie, a schianti, ad auto-potatura dei  rami operata dalla neve, e alla fine a cadute. Lo stato di salute delle piante ne aumenta  la stabilità e staticità. Va comunque detto che un livello di sicurezza assoluto non è mai  perseguibile, in questo come in altri campi (es. nei trasporti, nel lavoro e persino in casa) e l’enfatizzazione giornalistica e l’accanimento di qualche persona in caso di caduta di  rami o alberi devono essere culturalmente contrastati e ricondotti alla ragione; non si  vede mai, infatti, in caso immensamente più frequente, anzi quotidiano, di incidente  automobilistico, reclamare l’eliminazione delle automobili dalle città. Questo è ancora  più valido nell’era in cui siamo entrati, di eventi eccezionali ricorrenti a breve termine,  dovuti ai cambiamenti climatici: tifoni, venti che hanno raggiunto nel 2018 i 200 km/h  nel nord-est del nostro Paese. 

9) Vanno evitate fermamente specie arboree, arbustive ed erbacee invasive, infestanti,  estranee al nostro ambiente come, ad es. l’Ailanto e la canna della pampas (Cortaderia  selloana- graminacea che sta infestando la Riserva Naturale Pineta Dannunziana a  Pescara), anche per evitare il propagarsi di fitopatologie e parassitosi. 

10) Data l’impermeabilizzazione del suolo tipico dell’ambiente urbano, cosiddetta  “tecnocrosta” che impedisce all’acqua piovana di infiltrarsi nel suolo e di ricaricare le  falde idriche sotterranee, sicuramente in città, ove prevale l’aridità, si rendono  indispensabili, in taluni periodi, interventi di irrigazione di soccorso. 

11) Aree verdi per il drenaggio delle acque piovane: il deflusso delle precipitazioni piovose  urbane non adeguatamente gestito, può inquinare i corsi d’acqua o sovraccaricare il  sistema fognario provocando allagamenti e danni ingenti alla città e attivazione di  scolmatori di piena che necessariamente inquinano i corpi idrici ricettori . Programmi  avanzati (es. Green Streets in corso di realizzazione a Portland, popolosa città negli USA)  sono impiegati per il contenimento degli impatti di questo deflusso all’origine,  riproducendo alcune condizioni naturali attraverso l’uso di lembi di terra vegetata permeabili. In pratica si fanno diventare ovunque possibile le superfici libere, quelle  liberaste ex asfaltate delle strade e dei marciappiedi, spazi verdi lievemente sotto rilevati in cui convogliare diffusamente l’acqua piovana che così viene assorbita dal  terreno, filtrando anche le sostanze inquinanti (rain gardens). Le piante rallentano, con  il loro fogliame scolante, la caduta dell’acqua sul suolo e aiutano a farla penetrare nel  terreno con le radici. L’acqua piovana, anziché essere trattata come una specie di rifiuto  da convogliare in un tubo e avviare a uno scarico, diventa così una risorsa che ricarica la  falda e rinverdisce l’intero territorio. 

12) Attorno alla base dei tronchi deve essere lasciato un adeguato e significativo  quantitativo di suolo libero, fertile, sopra cui radunare le foglie cadute e altra  necromassa vegetale per pacciamatura, perché possano autocompostarsi e ridare 

nutrimento e fertilità alla pianta e al suolo e ove questo non è possibile, almeno adottare  nell’intorno pavimentazione drenante, inerbita calpestabile e/o rodabile.  

Indicazioni utili sono contenute nelle Linee guida di forestazione urbana sostenibile redatte per  Roma Capitale a cura di ISPRA (scaricabili dal sito istituzionale). 

Un caso particolare: la vegetazione prossima all’acqua 

La vegetazione dei fiumi, torrenti, piccoli corsi d’acqua, laghi, stagni, è assai particolare e  specifica quindi richiede, inevitabilmente, criteri e attenzione particolari. La presenza dell’acqua,  infatti, è il principale fattore di selezione da tenere presente perché solo talune piante si sono  evolute acquisendo la capacità di tenere le radici immerse senza che marciscano. La  distribuzione delle piante in presenza di un fiume, torrente o ruscello, varia se ci spostiamo lungo  una linea (transetto) trasversale alla direzione del flusso dell’acqua allontanandoci da essa.  Dentro l’acqua andranno specie erbacee (idrofite come Apium, il sedano d’acqua), piante  immerse a foglie galleggianti (pleustofite) come il Ceratofillo (Ceratophyllum demersum), il  Ranuncolo(Ranunculus) la lenticchia d’acqua nelle zone a corrente debole o assente (Lemna  minor e Lemna gibba ecc…). Nella zona di transizione tra acqua e terra c’è poi la vegetazione  delle elofite, termine con cui vengono chiamate le piante erbacee che hanno le radici e i rizomi  infissi nel fango, la parte basale del fusto immersa nell’acqua e il resto della pianta svettante in  ambiente aereo come la comune cannuccia d’acqua (Phragmites australis). Questa pianta  erbacea (come altre consorelle quali la Tifa detta anche “mazzasorda” e che comunemente si  rinviene spontanea con due specie: Typha latifolia e Typha angustifolia) è assai flessibile  resistentissima alla trazione, ben ancorata con radici e rizomi (che ossigenano i limi in  profondità) e in grado di resistere alle piene. Allontanandoci pochissimo dall’acqua, sulle  sponde, si insediano principalmente le Salicaceae, (Pioppi e Salici) prima in forma arbustiva e  poi appena dietro a queste, in formazioni arboree che possono raggiungere dimensioni assai  ragguardevoli. Spesso di trova l’Ontano nero (Alnus glutinosa) e il Sambuco (Sambucus nigra). Le Salicaceae sono piante a rapido accrescimento, dai rami assai fortemente flessibili ma  resistentissimi alla trazione, con radici assai fortemente ancorate nel terreno e capaci di  mantenerle ossigenate, caratteristiche che forniscono la capacità di resistere, come avviene per  le elofite, alla violenza delle piene che spezzerebbero o estirperebbero qualsiasi altra pianta a  legno duro e non flessibile. Il loro legno è molto tenero e leggero. Allontanandosi ancora di più  dall’acqua lungo la linea trasversale al flusso delle corrente, troviamo via via alberi con legno più  duro: frassini, olmi e poi ancora, più lontano e in condizioni più asciutte sui rilevati dei terrazzi  fluviali, carpini , querce e altri diversi alberi a legno duro, non più così flessibile e quindi incline  a spezzarsi ma che vivono oramai lontano dai livelli raggiungibili dalle piene, e non sono  minacciate da queste. 

La vegetazione fluviale è un elemento tipico e caratterizzante del paesaggio. Senza di essa con  le sue stupefacenti caratteristiche di adattamento all’essere perennemente in ammollo e a  sopravvivere alla violenza delle piene periodiche alle quali nessun altro tipo di vegetazione può  resistere, tutti i nostri corsi d’acqua apparirebbero spogli, desertificati come i canali di Marte.  Con la sua presenza invece, la vegetazione stabilizza le sponde, frena l’impeto della corrente,  mitiga le piene trattenendo l’acqua a monte e consentendone l’infiltrazione nelle falde, con la sua lettiera funge da filtro tra terra e acqua, impedendone l’intorbidamento e la contaminazione  da inquinamento diffuso. In pratica nel corso dell’evoluzione naturale, il fiume ha costituito un  severo fattore di selezione della vegetazione …e la vegetazione fluviale selezionata così come la  conosciamo, ha costituito fattore ecologico che ha condizionato l’ambiente fluviale nelle sue  caratteristiche funzionali , estetiche e paesaggistiche. L’ecotono acqua-terra, vale a dire la zona 

di transizione fra i due ecosistemi, è la più ricca in assoluto di biodiversità: ospita o dà rifugio a  un numero vastissimo di insetti, a oltre la metà degli uccelli italiani, alla totalità degli anfibi e  buona parte degli animali selvatici. Alcuni scienziati hanno definito questo nastro come  “supermarket of biodiversity”. Va pure tenuto presente che questa vegetazione è essenziale per  l’ecologia dell’ambiente acquatico e per il suo potere autodepurativo naturale: fornisce ombra  all’ambiente acquatico evitandone, anche con l’evapotraspirazione, il riscaldamento, fornisce  apporti trofici alla vita acquatica sottoforma di foglie morte e di necromassa vegetale in genere che cadono nella corrente. Nell’ecologia del paesaggio (Landscape ecology), infine, i corsi  d’acqua sono i principali corridoi ecologici esistenti in natura: dentro di essi, accanto ad essi sulle  sponde, sopra di essi per gli uccelli migratori, sono vere autostrade della natura ed elementi di  orientamento e di riferimento geografico per la fauna. Per questo motivo il corso d’acqua  dev’essere vegetato, senza barriere o interruzioni lungo il continuum dell’asta fluviale e  accessibile anche trasversalmente, per consentire alla fauna la transizione acqua/terra. La sua  vegetazione dev’essere quanto più possibile continua e di adeguato spessore che per i fiumi non  dovrebbe essere inferiore a 30 metri. 

Nella progettazione del verde in prossimità di un corso d’acqua, pertanto, occorre rivolgersi più  che mai alla vegetazione riparia spontanea potenziale del luogo e dispiegare il progetto lungo  un transetto trasversale al corso d’acqua, valutando l’allontanamento dalla stessa. Si tratta in  definitiva, di compiere un processo di vera e propria rinaturalizzazione, su basi scientifiche, pena  clamorosi fallimenti e perdita di funzioni ecologiche essenziali. La vegetazione riparia è  compatibile con percorsi ciclo-pedonali o attrezzati per lo sport, purchè prossimi all’acqua ma  non immediatamente a ridosso della stessa.  

L’importanza dei vivai pubblici 

Il vivaio pubblico (regionale, forestale o comunale) è uno strumento strategico decisivo per la  gestione ecosistemica del verde urbano secondo i criteri sopra indicati. Infatti nell’attuale  panorama del mercato delle piante, è difficile trovare disponibilità di molte specie e degli ecotipi locali “giusti” da impiantare, oltre ad avere i limiti severi della non attenzione alla biodiversità  genetica intraspecifica. Per quanto riguarda gli arbusti e le erbacee, inoltre, molte specie sono  e resteranno introvabili perchè neppure prese in considerazione per lo scarso o nullo valore  commerciale. Ne deriva che per un’adeguata gestione del verde urbano e periurbano molte  specie devono essere necessariamente coltivate in proprio, partendo dall’individuazione degli  ecotipi locali da riprodurre da seme o per clonazione vegetativa e con criteri scientifici (es.  raccolta dei semi composita, diffusa, in condizioni diversificate e mai unicamente da uno stesso  albero….). Ai fini della gestione ecosistemica del verde urbano i macro-obiettivi da assegnare a  un vivaio possono essere così riassunti: 

– Individuare flora spontanea locale e i modelli concettuali vegetazionali spontanei  presenti sul territorio; 

– Coltivare alberi e arbusti tipici del territorio, a partire da ecotipi locali, per destinarli al  verde pubblico e privato (salvaguardia della biodiversità tramite coltivazione ex situ) e  per la bellezza e il decoro urbano; 

– Individuare di aree da poter rinaturalizzare (compatibilmente con le necessità di  fruizione pubblica) e contribuire alla progettarne degli impianti; 

– Individuare i corridoi ecologici da salvaguardare, da ripristinare o da realizzare; – Ridiffondere in ogni modo, direttamente o indirettamente, le piantine prodotte; 

– Svolgere attività didattica sul verde in città; 

– Applicare, d’intesa con il Comune, la Legge 14 gennaio 2013, n. 10, recante “Norme per  lo sviluppo degli spazi verdi urbani” per quanto riguarda l’art. 1 (Svolgimento della festa  dell’Albero) e il complesso delle azioni di cui agli artt. 6 e 7). 

– Dare applicazione alla legge 29 gennaio 1992, n. 113 cosi’ come modificata dalla  precedente legge obbligo per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti di  porre a dimora un albero per ogni neonato o minore adottato). 

– Realizzare un orto botanico presso il vivaio, con relativo Centro Studi e Documentazione  e attività didattica. 

I vivai a gestione pubblica o affidati dall’Ente Pubblico a cooperative o Associazioni del Terzo  Settore, necessitano di un salto di qualità: divengano in definitiva, veri musei all’aperto,  biblioteche viventi, centro-studi e di monitoraggio, sedi di ricerca e centri di educazione  ambientale in rapporto con le scuole, Università e Istituti di Ricerca, custodi della  biodiversità e promotori della stessa attraverso la ri-diffusione delle specie vulnerabili e  rarefatte, rare o in via di estinzione, endemismi. Possono recuperare tradizioni legate  all’uso delle specie vegetali (alimentare, per mobili o suppellettili, attrezzi da lavoro,  produzione di fibre e di tessuti e da colorare con sistemi naturali ecc). I vivai sono uno  strumento operativo fondamentale per la conservazione, per la sostenibilità e per  l’elevazione culturale. 

Per concludere: alberi e clima globale 

Le preoccupazioni del mondo scientifico e di larghi settori della pubblica opinione e dei  governi per gli effetti dell’alterazione del clima globale sollecitano azioni immediate ed efficaci per la riduzione della concentrazione dei gas –serra in atmosfera, a partire  dall’anidride carbonica che è quello più abbondante. L’umanità è chiamata, con urgenza, a  rivedere tutto l’attuale modello energetico basato sui combustibili fossili, con cui abbiamo  portato la biosfera sull’orlo del disastro, e avviare una transizione energetica basata sulle  fonti rinnovabili non carboniose (e quindi ad abbandonare anche l’impiego massiccio delle  biomasse legnose per uso energetico) e rispettose dell’ambiente e del paesaggio. Oltre al  vasto tema del risparmio e dell’efficienza energetica, la via della produzione dell’idrogeno  “pulito” da fonte solare-fotovoltaica saggiamente pianificata, come vettore energetico,  appare quella più promettente. Nel frattempo occorre applicare strategie di adattamento  per contenere i danni da alluvioni, tifoni, valanghe, ondate di calore, incendi boschivi,  processi di desertificazione, aumento del livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai  (fenomeno che minaccia l’alimentazione di sorgenti, dei fiumi e degli acquedotti), che  oramai vanno verificandosi con frequenze ravvicinate. Tuttavia il contenimento drastico  delle emissioni di anidride carbonica da solo non è sufficiente: ad essere alterato è l’intero  ciclo del carbonio in quanto l’entità delle emissioni ha superato e continua a superare  largamente la possibilità di assorbimento operato dai boschi, dalle foreste e in generale dal  complesso degli alberi ed altri vegetali con i propri processi fotosintetici. Ne deriva che  occorre incrementare in ogni modo la superficie fotosintetica mondiale. L’umanità ha negli  alberi i più formidabili alleati – anzi, gli unici alleati – per contrastare i mutamenti climatici e  fissare a terra il carbonio che si trova in eccesso nell’atmosfera, nelle proprie strutture  (tronchi, rami, radici, foglie, lettiera), nei loro ecosistemi e in quelli correlati. Nella lettiera  di un bosco si fissa da quattro ad otto volte più carbonio di quanto avvenga nel biota legnoso.  Gli alberi possono farlo velocemente. Occorre pertanto rispettare il patrimonio arboreo  esistente e incrementarlo per quanto possibile, con decisione, con ostinazione, fino al 

dettaglio dei pochi metriquadri disponibili anche in città. Il Testo Unico Forestale  recentemente approvato, la proliferazione delle centrali elettriche a biomasse (trasformate  in necromasse) incentivate dai formidabili contributi statali e i tagli delle alberature operati  da moltissimi comuni italiani e dall’ANAS, con rinnovato vigore, sembrano andare in  direzione uguale ma… nel verso perfettamente contrario. È compito di coloro che hanno  capito, svolgere le pressioni necessarie per orientare le cose nel verso scientificamente  giusto per una società capace di futuro. Piantare alberi, piantare, piantare: è la parola  d’ordine che dovrebbe essere adottata e praticata ovunque.

1 Healthly Air, a global analysis of the role of urbani trees in addressing particulate matter pollution and  extreme heat – AA:VV: Nature Conservacy. Studio finanziato da China Global Coneseration Fund e  North America urban programs of nature conservacy), pagg. 1 – 130. (disponibile gratuitamente on line)

2(Chiesura, A. 2010. http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/verso-una-gestione ecosistemica-delle-aree-verdi)

Una cintura forestale periurbana per migliorare la qualità della vita in città

Una cintura forestale periurbana per migliorare la qualità della vita in città

Non basta una coscienza ambientale. Non c’è cambiamento senza conoscenza e senza conoscenza non si fanno scelte coraggiose

Daniele Zavalloni, Geografo, Segretario associazione GUFI

  1. La necessità di acqua e aria pulite

Il Guardian, in un editoriale della caporedattrice Katerina Viner[1] pubblicato in autunno del 2019, ha dichiarato che il temine “cambiamento climatico” non ha la forza per descrivere la drammaticità del momento: di fatto il termine non chiarisce le conseguenze delle scelte che l’umanità ha fatto nel passato. È più chiaro parlare di “collasso climatico” che, di fatto, è già in atto da molti anni. Quello che stiamo subendo è il nuovo clima con il quale dobbiamo convivere e bisogna procedere, nel poco tempo rimasto, a una drastica riduzione delle emissioni dei gas serra e all’estrazione dall’atmosfera di quanto vi è stato immesso in eccesso rispetto alle capacità portanti del Pianeta. Concordiamo pienamente con la scelta del Guardian! Non sappiamo cosa possa riservarci l’imminente futuro; anche se i segnali sono evidenti e inequivocabili.

Ma di là di ogni cambiamento climatico, l’uomo, ognuno di noi, ha due necessità alle quali non può rinunciare perché sono vitali e irrinunciabili: il bisogno di aria pulita e di acqua pulita. Questi due beni, tuttavia, sono sempre meno disponibili per le nostre città.

Gli unici esseri viventi che possono produrre aria pulita e acqua pulita in grande quantità, oltre ad assorbire rapidamente anidride carbonica, sono i vegetali, e questa produzione si manifesta in quantità decrescente a seconda che si considerino gli alberi, gli arbusti e le piante erbacee.

Questa funzione viene svolta in modo preponderante da una copertura forestale adeguatamente strutturata, che si connota funzionalmente/strutturalmente come “ecosistema[2]”, senza nulla togliere al ruolo che svolgono le alberature stradali o agli alberi dei parchi urbani, anch’essi importanti, ma che non costituiscono un ecosistema.

L’ecosistema in quanto tale non ha bisogno di nessuna manutenzione. Solo un rimboschimento – ecosistema artificiale di natura forestale – nella fase iniziale di impianto può avere necessità di manutenzione, in particolare quando piantiamo gli alberi provenienti da vivaio. Prelevare piante nate in vivaio è una soluzione che di solito si adotta per accelerare i “tempi” di formazione di un ecosistema forestale, anche se molte volte è solo un’illusione; di fatto, se avessimo tempo di aspettare, il bosco arriverebbe da solo.

Sappiamo benissimo che il “tempo non lo possediamo” ma possiamo solo “vivere il tempo”, ed è per questa ragione che riteniamo sia importante raccogliere semi di specie forestali, per realizzare le fasce boscate periurbane, mentre “viviamo il tempo”.

Sono i parchi urbani che hanno necessità di “manutenzione” cioè di cura, di attenzione affinché possiamo frequentarli agevolmente, anche da parte persone con disabilità; alla stessa maniera, anche se per altre ragioni, hanno bisogno di attenzione ed eventualmente di manutenzione le alberature stradali, e soprattutto hanno bisogno di esperti che smettano di adottare la pratica della castrazione delle medesime gabellandola per potatura, pratica che è all’origine, in molti casi, della instabilità e della pericolosità delle piante.

Una città con un’adeguata dotazione di alberi beneficia di tutti i vantaggi che questi possono apportare, a cominciare dall’effetto tampone nei confronti della temperatura che durante l’estate può ridurre di 4 C° rispetto alle zone aperte mentre in inverno può innalzare in egual misura le temperature mitigando i rigori della stagione.

Ma è sulla qualità dell’aria e dell’acqua che si manifestano gli effetti più consistenti.  L’aria è depurata delle particelle inquinanti che sono intrappolate e trattenute dalla superficie scabrosa o pelosa delle foglie e, in molti casi, assorbite dalle piante in cui il cosiddetto “scambio gassoso” con l’atmosfera è continuo; così come sono ininterrotti l’assorbimento di CO2 e la cessione di ossigeno.

L’acqua è depurata a livello di radici, sia direttamente a opera della componente microbica del suolo e simbionte – basti pensare alla fitodepurazione delle acque reflue – sia attraverso i processi evapotraspirativi. Ma gli alberi, con il suolo e con le comunità viventi in esso contenute, svolgono anche una fondamentale azione di regolazione del ciclo dell’acqua, regimandola quando è in eccesso, conservandola e, addirittura, rendendola disponibile quando scarseggia in presenza di eventi meteorici ridotti o nulli quali la pioggia o la neve.

Tra i servizi ecosistemici che gli alberi svolgono ci sono quelli che incidono sulla salute fisica e sulla salute psichica, e i cittadini dovrebbero fare proprio questo messaggio che è prima di tutto un messaggio culturale, leggendo con un occhio e un’attenzione diversa la presenza dell’albero in tutti i luoghi possibili, per il loro apporto alla qualità di vita della città.

Pertanto, è possibile dare una risposta concreta alla necessità/esigenza di acqua e aria pulita nelle nostre città attraverso la realizzazione di fasce boscate periurbane

Nell’accezione comune, il bosco è collocato in montagna, che è ritenuto il luogo per eccellenza per ospitare questi ecosistemi, ed è quasi sempre lontano dalla città.

Culturalmente il bosco è distante dal pensiero del “cittadino”, non gli appartiene e difficilmente è accettabile, addirittura non pensabile come “unità strutturale” in ambiente periurbano.

Solitamente, il bosco è il luogo delle vacanze estive, delle passeggiate lungo i sentieri ben segnati dai quali guardiamo il bosco a distanza, forse perché di fatto non abbiamo il coraggio ad entrarvi in contatto perché suscita paura.

Pertanto la progettazione e la costruzione di fasce boscate periurbane necessitano, preliminarmente, di quattro condizioni, tutte di natura culturale, condizioni che sono imprescindibili affinché l’intervento possa attuarsi e durare nel tempo:

  • La prima condizione: riguarda il coinvolgimento della Pubblica Amministrazione che deve avere il coraggio di farsi carico della scelta di realizzare le fasce boscate periurbane, in quanto l’intervento deve essere prima di tutto di natura pubblica.

Quando affermiamo che ci vuole coraggio ci riferiamo al “coraggio culturale”, perché l’unico rischio che la Pubblica Amministrazione può correre realizzando le fasce boscate periurbane è quello di migliorare l’ambiente circostante la città. Ma non sarà solo la città che ne trarrà beneficio! È arrivato il momento storico del fare con interventi strutturali, mentre purtroppo, troppe volte, si ascoltano solo slogan.

Si fa a gara per vedere chi la spara più grossa: “Pianteremo 4.500.000 (quattro milioni cinquecentomila) piante!” Qualche altro alza il tiro: “Pianteremo 60.000.000 (sessanta milioni) di piante”. Nessuno però che sappia dire dove verranno piantati gli alberi, ma soprattutto quando saranno piantati, come saranno accuditi nelle fasi iniziali di attecchimento e di crescita, come saranno difesi; piccoli dettagli di non poco conto! Rischiano di essere slogan privi di progettualità. Slogan oltre tutto pericolosi quando vengono lanciati da chi propugna il taglio degli alberi adulti esistenti per bruciarli nelle centrali elettriche a biomasse, dicendo che “tanto ne piantiamo di nuovi”.

  • La seconda condizione: si riferisce all’interazione tra pubblica amministrazione e cittadinanza/opinione pubblica. Infatti, le scelte di chi amministra una città sono condizionate dalle richieste che un’opinione pubblica ben informata (noi cittadini) riesce a esprimere. Affinché la richiesta sia accolta, deve essere manifestata a piena voce e soprattutto deve essere corale. Se manca la coralità il progetto di fasce boscate periurbane rimane il pensiero/desiderio di pochi. Ma è pur vero che un progetto prima che diventi tale va sognato.

  • La terza condizione: prevede che l’opinione pubblica sia in grado di formulare una richiesta articolata e motivata. Qui l’ingranaggio si blocca, perché spesso l’opinione pubblica non ha avuto modo di informarsi a sufficienza. Purtroppo, è noto che l’uomo ha paura del bosco e ciò è dovuto a un’intensa dose di pregiudizi/disinformazioni che sono duri a morire. È una paura che parte da molto lontano, ma che non porta da nessuna parte! Può essere l’occasione interessante per un nuovo processo selvi- culturale, per una cultura del bosco che deve riguardare primariamente gli esperti del settore e poi tutti noi cittadini non esperti ma che dal bosco traiamo benefici.

  • La quarta condizione: riguarda la conoscenza che è necessaria per fare scelte coraggiose!

Occorre un impegno notevole per informarsi, per documentarsi; tutto ciò diventa più facile se siamo curiosi, perché è dalla curiosità che nasce la voglia di capire. Può essere la stessa Pubblica Amministrazione che ha a cuore il bene comune a incaricarsi di fare formazione/cultura affinché il buon cittadino sia in grado di fare scelte e richieste motivate.

I dati elaborati dall’ISPRA sul consumo di suolo nel nostro Paese sono impressionanti e il mondo della scienza fa appello perché si arresti la tendenza a peggiorare la situazione esistente. È ormai tempo di porre termine alle espansioni urbanistiche delle città, delle periferie, dei centri commerciali, delle aree industriali, delle aree artigianali. Queste coperture artificiali della terra impediscono la depurazione naturale delle acque, la ricarica delle falde idriche, e per contro nel corso delle piogge si verificano sovraccarichi dei sistemi fognari e la crisi delle capacità ricettive dei depuratori cittadini.

  • PER MEGLIO QUALIFICARE IL PROGETTO: I CONTENUTI STRUTTURALI E FUNZIONALI

La realizzazione delle fasce boscate periurbane possono generare effetti benefici così sinteticamente elencati:

  • sulla salubrità dell’aria;
    • sulla regolazione del ciclo dell’acqua;
    • sul microclima;
    • sulla salute psichica e sulla salute fisica;
    • sulla socialità in genere;
    • sul miglioramento estetico e funzionale della periferia;
    • sulla bellezza del paesaggio;
    • sulla difesa/promozione della biodiversità nella sua massima espressione (api comprese).

Le fasce boscate periurbane trovano un valido supporto e completamento anche dalla realizzazione dei “boschi ripariali” quelli lungo i corsi d’acqua. Per raggiungere questo obiettivo è importante e irrinunciabile la riappropriazione del demanio fluviale da parte della Pubblica Amministrazione Regionale in funzione della costituzione della copertura forestale negli ambiti circostanti ai corsi d’acqua tutto ciò in funzione:

  1. dell’aumento dei tempi di corrivazione[3] delle acque meteoriche;
    1. della formazione di fasce tampone che intercettano il materiale in sospensione che proviene dall’erosione superficiale dei terreni durante gli eventi meteorici di forte intensità;
    1. della stabilizzazione delle sponde fluviali da frane e dissesti;
    1. del ripristino delle “reti ecologiche[4]” naturali, e  se progettati in ambito di bacino idrografico possono collegare paesi e città tra la sorgente e la foce;
    1. dell’incremento della biodiversità vegetale e animale: quest’ultima componente svolge un forte potere comunicativo esaltando la bellezza dell’ambiente naturale;
    1. dell’aumento delle capacità di autodepurazione naturale dei corsi d’acqua, in aderenza alle finalità della Direttiva Quadro sulle Acque (Dir. 60/2000/CE) e del Testo Unico in Materia Ambientale (D. Lgs 152/06)
    1. del restauro del paesaggio, in aderenza all’art. 9 della Costituzione.

Si sottolinea che la ricostituzione di adeguate fasce boscate tampone lungo i corsi d’acqua costituisce un provvedimento che richiede modesto impegno di risorse economiche e i cui risultati sono assai rapidi, nell’ordine di pochi anni, dal momento che la vegetazione delle aree umide è a velocissimo accrescimento. 

È importante ribadire che le fasce boscate periurbane sono fortemente correlate con la salute dell’ambiente e la salubrità dell’aria e pertanto contribuiscono alla formazione di una buona socialità e, in particolare, nella periferia delle città che spesso è soggetta a degrado.

Gli interventi forestali fino ad ora proposti possono generare un interessante effetto positivo anche per l’economia, sia direttamente sia indirettamente risparmiando sulle spese sanitarie per merito di un ambiente più sano, e creando posti di lavoro. È l’unico caso in cui, incrementando il patrimonio vegetale, possiamo parlare di effettivo “sviluppo sostenibile” senza cadere in un ossimoro.

La realizzazione delle “fasce boscate periurbane” determinano posti di lavoro in diversi settori:

  1. per la realizzazione di vivai forestali per avere la materia prima per gli interventi di forestazione;
    1. per la raccolta dei semi provenienti da boschi da seme da utilizzare per i vivai forestali;
    1. per la realizzazione/formazione e la manutenzione dei vivai forestali;
    1. per la bonifica delle aree degradate e successivamente per intervenire con l’attività di forestazione;
    1. per gli interventi di manutenzione nei parchi urbani e sulle alberature stradali;
    1. per la realizzazione di corsi di formazione per vivaisti;
    1. per la realizzazione di corsi di formazione per manutentori delle aree verdi urbane in generale, ovviamente con una cultura nuova della manutenzione del verde nella città.
    1. per una diagnosi anche strumentale, scientificamente corretta, dello stato fitosanitario del patrimonio arboreo che eviti l’abbattimento ingiustificato di alberi sani che non costituiscono un pericolo. 
  2. I TEMPI PER INTERVENIRE E LE MODALITA’ DI INTERVENTO

Questo nuovo processo di miglioramento di qualità della vita delle città e di mitigazione del nuovo clima caratterizzato, tra l’altro, da “isole di calore” responsabili di innumerevoli decessi prematuri, necessita di interventi di diversa natura:

  1. a livello giuridico con la revisione di alcune leggi nazionali/regionali e regolamenti comunali;
    1. modificando il “concetto di sicurezza” che costringe i Sindaci a fare capitozzare gli alberi in ambito urbano in quanto responsabili di eventuali cadute di piante;
    1. definendo la responsabilità dei pubblici amministratori,
    1. definendo la responsabilità dei cittadini nei confronti di ambienti naturali, semi naturali e urbani in particolare per quanto riguarda i parchi o i singoli alberi.

Siamo consapevoli che, per ciò che abbiamo scritto in premessa, i progetti necessitano di tempi lunghi per la loro realizzazione, ma purtroppo in questo contesto storico occorre abbreviare i tempi di intervento; è inammissibile pensare a un “periodo di interventi sperimentali” come è raccontato/riportato nel Decreto-legge n. 111[5] del 14 ottobre 2019, e che solo dopo la sperimentazione si potrà dare seguito a eventuali interventi strutturali. Le scienze forestali nel nostro Paese sono mature e beneficiano di decenni di ricerche e di sperimentazioni che ci consentono di agire da subito nel restauro ambientale.

È necessario che si passi dalla fase di sperimentazione alla fase di progettazione esecutiva che deve prevedere il coinvolgimento di tutto il territorio nazionale; ma siccome stiamo parlando alle amministrazioni locali chiediamo che esse intervengano sul processo in atto con progetti che incidano strutturalmente sul proprio territorio. È ovvio che ogni amministrazione locale deve fare la propria parte, con un progetto che deve riguardare tutto il territorio amministrato.

È necessario pertanto definire:

  1. dove collocare le fasce boscate periurbane: è condizione necessaria e irrinunciabile localizzare in modo puntuale, su cartografia di dettaglio, le aree da dedicare agli interventi per la realizzazione di fasce boscate periurbane;
    1. quando iniziare l’intervento di forestazione: è condizione necessaria e irrinunciabile stabilire i tempi di intervento, perché l’utilizzo delle piante è condizionato dalla loro ciclo biologico. Infatti, i tempi per l’intervento sono ben precisi e prudenzialmente si indicano da novembre a marzo durante la fase del fermo vegetativo.
    1. quale materiale utilizzare: è condizione necessaria e irrinunciabile utilizzare materiale vegetale (erbaceo, arbustivo, arboreo) tipico del territorio di intervento, della vegetazione potenziale spontanea del luogo e prelevato quanto più vicino possibile al luogo dell’operazione e pertanto è necessario pensare a costituire per tempo vivai forestali.

Ciò richiede l’implementazione delle quattro fasi descritte nella parte iniziale, con il sostegno attivo della pubblica opinione che divenga subito parte attiva nel chiedere questi interventi strutturali. Purtroppo i processi culturali hanno di solito tempi molto lunghi, pertanto anche in assenza di stimoli dal basso è necessario che la pubblica prenda l’iniziativa svolgendo un ruolo di promozione culturale.

Le iniziative della pubblica amministrazione per sviluppare fasce boscate periurbane e il processo formativo/culturale dell’opinione pubblica devono partire fin da oggi e camminare in parallelo affinché i risultati siano concreti e soprattutto duraturi.


[1] L’ExtraTerrestre supplemento a “Il Manifesto”, 2 dicembre 2019, pp.72-73

[2] Ecosistema = L’ecosistema è l’unità ecologica fondamentale, formata da una comunità di organismi viventi in una determinata area (biocenosi) e dallo specifico ambiente fisico (biotopo), con il quale gli organismi sono legati da complesse interazioni e scambi di energia e di materia. Un ecosistema comprende diversi habitat e differenti nicchie ecologiche. L’habitat è il luogo fisico dove un animale o una pianta vivono normalmente, in genere caratterizzato da una forma vegetale o da un aspetto fisico dominante (per esempio, un corso d’acqua o una foresta).  La nicchia ecologica è il ruolo ecologico, o “funzione”, che ogni specie occupa all’interno di un habitat, cioè è uno spazio che include tutti gli aspetti dell’esistenza di quella specie. Per esempio, una nicchia ecologica è definita dalle esigenze alimentari, dalle abitudini di vita e dalle interazioni della specie considerata con altre specie, oltre che dalle condizioni climatiche e chimico-fisiche. La nicchia ecologica è unica per ogni specie.

Tratto da: http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/biologia/Organismi-e-ambiente/Fondamenti-di-ecologia/L-ecosistema.html  (Ultima ricerca il 12/12/2019)

[3] Tempo di corrivazione = è il tempo che impiega la pioggia, cadendo a terra, per raggiungere il corso d’acqua più vicino.

[4] Malcevschi S., Bisogni L.C., Gariboldi A., 1996 – Reti ecologiche ed interventi di miglioramento ambientale. Il Verde Editoriale

[5] DECRETO-LEGGE 14 ottobre 2019, n. 111. Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229.