Conferenza scientifica multidisciplinare fra ricerca e azione
“Dalla Strategia di Bioeconomia della Commissione europea alla Bioeconomia integrata e in armonia con la vita e le leggi della natura: analisi, pratiche, esperienze, attività”
12 e 13 dicembre – Roma presso la Società Geografica Italiana
Premessa
Il 25 settembre 2020 si è tenuta la conferenza multidisciplinare “La Strategia europea di Bioeconomia: scenari e impatti territoriali, opportunità e rischi” – patrocinata da società scientifiche e università – che ha raccolto i contributi di storici, geografi, economisti, urbanisti, costituzionalisti, biologi, biologi forestali e medici le cui analisi hanno messo in evidenza una serie di criticità sulla base delle quali si può asserire che la Strategia di Bioeconomia della Commissione Europea (del 2012 aggiornata nel 2018) e la conseguente Strategia Italiana siano piuttosto distanti dall’idea originaria di Bioeconomia teorizzata negli anni sessanta da Nicholas Georgescu-Roegen, ovvero una bioeconomia integrata e in armonia (embedded, direbbe Karl Polanyi) con la vita e con le leggi della natura. Detta strategia, invece, riflette un’accezione relativamente recente della parola ‘bioeconomia’, che nasce dall’industria biotech, chimica, farmaceutica, agroindustriale e dai progressi della biologia, della genetica e della tecnologia molecolari, nonché dalla domanda di biomasse per usi non alimentari. Questa accezione, attualmente dominante, si fonda su una indimostrata equivalenza tra “rinnovabilità” e“ sostenibilità”, e su una visione tecnocentrica che vede nell’high-tech enelle tecnologie a controllo centralizzato le soluzioni a ogni problema ambientale e il superamento di ogni limite allo sviluppo. I lavori della conferenza hanno messo in luce che la Strategia di Bioeconomia – promossa come la nuova frontiera dell’economia “verde” e basata sulla sostituzione delle fonti fossili con la biomassa – presenta forti contraddizioni rispetto agli stessi obiettivi che si pone, in quanto dipendente da risorse non sostenibili, non rinnovabili e dalle catene internazionali del valore, arrivando alla conclusione che, per tali ragioni, essa stessa richiederebbe una rielaborazione che non può prescindere dal suo adeguamento alla Strategia europea sulla biodiversità, nonché al Piano nazionale integrato per l’energia e il clima(PNIEC).
I risultati della Conferenza sono confluiti in un Documento di Valutazione e Indirizzo, inviato alla Commissione europea, al Governo e ai parlamentari italiani e pubblicato sulla Rivista “Economia e Ambiente” (1/2021) liberamente scaricabile dall’homepage del sito www.economiaeambiente.it.
Le tematiche della conferenza sono state oggetto di ulteriore approfondimento e aggiornamento, in parte svolti nel quadro del Pra 2020 dell’Università di Foggia ‘La Bioeconomia in Europa e in Italia: politiche e territori. Scenari socio-economici, ambientali e geopolitici’ e confluiti in un volume attualmente in corso di pubblicazione con la Società dei Territorialisti Edizioni e presto disponibile in open access.I promotori della conferenza, nella convinzione che la Strategia di bioeconomia non rappresenti solo un’opportunità da cogliere “a tutti i costi”, hanno ritenuto di costituire l’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia (OIB) – www.osservatoriobioeconomia.it– per il monitoraggio e lo studio delle iniziative e dei progetti ispirati alle diverse accezioni di Bioeconomia, al fine di contribuire alla comprensione dei processi in corso e dei possibili scenari. La seconda fase di quest’iniziativa sulla tematica in questione prevede l’organizzazione di una conferenza multidisciplinare fra ricerca e azione incentrata sulle pratiche di bioeconomia coerenti con la concezione originaria di Georgescu-Roegen.
L’iniziativa, organizzata nell’ambito del PRA 2020 dell’Università di Foggia, è promossa dall’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia e dalla Rivista scientifica “Economia e Ambiente” e patrocinata dalle seguenti organizzazioni: AIIG, Associazione Italiana Insegnanti di Geografia; Associazione “Dislivelli”; ISDE, International Society of Doctors for the Environment; Fondazione “Allineare Sanità e Salute”, Fondazione di partecipazione delle Buone Pratiche, SdT, Società dei territorialisti e delle territorialiste; SGI, Società Geografica Italiana; SIRF, Società Italiana di Restauro Forestale; SIU, Società Italiana degli Urbanisti, SSG, Società di Studi Geografici; Corso di Laurea in Scienze della Montagna, Università della Tuscia; Dipartimento di Architettura, Università di Firenze; Dipartimento di Economia, Management e Territorio, Università di Foggia.
Approccio scientifico alla conferenza e contenuti
Il periodo che stiamo vivendo è un periodo di crisi ecologica (con riferimento all’accezione etimologica del termine e, dunque, anche alla sua componente “sociale”), di stravolgimenti e apparenti cambiamenti sul piano politico, nonché di caos sistemico. Molte delle attuali attività e politiche economiche “verdi” – comprese quelle che si richiamano alla “bioeconomia” – sono basate sul paradigma riduzionista, meccanicista e utilitarista, sul dogma della crescita economica e della competizione, designate dalla stessa ideologia neoliberista che ha prodotto le problematiche e i guasti di cui ora le nuove politiche si propongono come “soluzione”. Insomma, tali iniziative “bio” ripropongono la stessa logica industrialista alla base dell’economia “fossile”. Pertanto, riteniamo urgente affiancare al necessario processo di interpretazione delle attuali politiche “verdi”, lo sviluppo di ricerche, studi e analisi di esperienze concrete, orientate a una bioeconomia che sia realmente integrata e in armonia con la vita e la natura, che possano costituire un punto di riferimento a livello sia teorico sia concreto per l’ormai non più procrastinabile salto di paradigma.
La bioeconomia, secondo la teoria di Nicholas Georgescu-Roegen, si fonda sul presupposto che i processi economici, investendo il mondo fisico, sono soggetti alle sue leggi, prima fra tutte l’entropia, ovvero la irreversibile dissipazione di energia e materia generata dai processi di trasformazione. I processi di produzione sono visti come un insieme di fondi (terra, capitale e lavoro) e flussi (risorse naturali, prodotti e scarti), in cui non vi è sostituibilità tra fondi e flussi: si può sostituire il lavoro con il capitale, ma certamente non le risorse con il capitale. D’altro canto, l’efficienza energetica, lungi dal potersi riferire solo al mero rapporto tra input e output di energia, deve considerare i processi dissipativi della materia coinvolti nella trasformazione dell’energia stessa. Un’economia sostenibile e circolare non richiede, dunque, soltanto flussi rinnovabili, ma anche una relazione fondi-flussi che rispetti e mantenga l’identità dei fondi, ovvero una compatibilità fondativa tra la velocità/densità dei flussi nella tecno-sfera e la capacità/velocità di rigenerazione dei fondi della biosfera.
Partendo dall’assunto che le civilizzazioni umane hanno prodotto nel tempo territori e paesaggi con sapienza e saggezza mantenendo una relazione fondi-flussi equilibrata, possiamo affermare che proprio la modalità e la capacità di tessere tale relazione in base a valori e interpretazioni diverse ma sempre armoniche con la natura ha portato alla grande differenziazione locale delle forme dei nostri contesti di vita. Oggi come un tempo sono proprio le pratiche sociali che consentono di entrare nella modalità complessa e integrata di economie capaci di interagire con i beni naturali e di riprodurre territori, paesaggi, risorse.
La conferenza si interroga su come attuare nella contemporaneità una bioeconomia integrata e in armonia con la vita e la natura. Sarà possibile presentare contributi basati su riflessioni, studi e pratiche che trattano di esperienze concrete coerenti con principi quali:
la visione sistemica dell’ambiente;
l’ambiente come fondamento del palinsesto territoriale e paesaggistico;
l’assunzione del concetto di limite ecosistemico come regolatore delle attività economiche;
l’adattamento del metabolismo industriale ai cicli naturali;
il concetto di sostenibilità fondato sulla capacità di rigenerazione delle risorse naturali e sulla necessità di preservazione dell’equilibrio del ciclo biogeochimico;
la governance politica e il progetto territoriale e paesaggistico basati sulla pianificazione ecologica partecipata e sulla salvaguardia delle matrici vitali partendo in primis dell’insediamento;
l’uso delle risorse fondato sulla riduzione dei consumi di materia ed energia;
la promozione dell’innovazione sociale, ovvero della valorizzazione delle conoscenze e dei saperi della natura, integrate ai contesti di vita;
l’agroecologia e, più in generale, i modelli virtuosi di agricoltura in grado di rigenerare l’ambiente e il territorio;
i modelli locali di produzione basati sulla diversità, sulla resilienza, sui beni relazionali e sulla partecipazione.
La conferenza si compone di tre sezioni: una sessione sui paradigmi scientifici alla base degli approcci bioeconomici nella quale saranno presentati i risultati del PRA 2020 dell’Università di Foggia insieme ad alcuni contributi dei fondatori dell’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia (OIB); e due sessioni aperte a contributi esterni suddivise nelle seguenti tipologie:
riflessioni teoriche o casi studio che raccoglierà i contributi di studiosi che si occupano di bioeconomia coerente con la teoria di Georgescu-Roegen, ovvero l’economia integrata e in armonia con la natura e la vita
sulle pratiche nella quale saranno accolte esperienze e pratiche coerenti con i principi enunciati in precedenza con l’obiettivo, fra gli altri, di conferire rilevanza scientifica alle pratiche sociali per farle entrare nel dibattito scientifico ed accademico.
I temi che la conferenza intende indagare in maniera preminente fanno riferimento ai seguenti campi:
agricoltura, allevamento, pesca
acqua e foreste
produzione manifatturiera
energia
servizi
gestione delle risorse come beni comuni
insediamenti
paesaggio
salute.
Modalità di presentazione dei contributi e tempi di consegna
L’approvazione del contributo prevede in via preliminare l’invio di una sintesi (abstract) contenente:
titolo
testo (massimo 2.000 caratteri spazi inclusi)
3 parole chiave.
A seguire:
nome/i dell’autore/i
ente di afferenza o organizzazione di appartenenza
dichiarazione di possibili conflitti di interesse
indicazione del campo tematico
indicazione della modalità di presentazione del lavoro.
La sintesi (abstract) dovrà essere inviata entro il 30 giugno a
L’approvazione avverrà entro il 30 settembre sulla base dei seguenti criteri:
pertinenza al tema oggetto della conferenza,
coerenza del caso di studio o della pratica con i principi enunciati di una bioeconomia integrata con la vita e e le leggi della natura. Non saranno ammesse le proposte di contributo che presenteranno casi di studio o esperienze riconducibili alla bio-industria, ovvero che fanno riferimento a una mera sostituzione delle risorse fossili con quelle organiche.
Il lavoro finale dovrà essere inviato entro il 31 gennaio2023 ai fini della pubblicazione.
Modalità di presentazione dei lavori:
riflessione teorica e casi studio con indicazione della preferenza di: presentazione orale (15 minuti), comunicazione orale breve (7 minuti), poster;
pratiche con indicazione della preferenza di presentazione orale (15 minuti), comunicazione orale breve (7 min.), poster (in formato pdf), video (mp4, durata massima 3 min.)
In base ai materiali presentati, gli organizzatori della conferenza potranno richiedere una modalità specifica di presentazione, che verrà comunicata al momento dell’accettazione della sintesi (abstract).
ATTENZIONE: ogni partecipante alla conferenza può presentare un solo contributo come primo autore, pur potendo partecipare come co-autore in altri contributi.
Il G20 tenutosi a Roma in questo novembre 2021 ha espresso consenso sulla proposta di piantare, a livello mondiale, 1000 miliardi di alberi entro il 2030 per contrastare la crisi climatica. La proposta, rivolta alla COP 26 di Glasgow, è suggestiva ma espressa in un contesto che presenta severe criticità che, se non affrontate e risolte, la rendono demagogica e di scarsissima efficacia.
– Non è stato minimamente stabilito il rispetto dello stock di alberi esistenti, oggi sotto attacco massiccio – incentivato con lauti contributi statali – per la produzione di energia elettrica da biomasse legnose e di pellet per il riscaldamento degli edifici.
Bruciare alberi è aggravante della crisi climatica: come si può concepire che, mentre si intende piantare nuovi alberi, si continuerà a tagliare quelli esistenti nelle città, nei boschi anche evoluti, – con perdita netta della superficie fogliare fotosintetica che assorbe CO2 dall’atmosfera – e continuare, viceversa, ad aumentare le emissioni dello stesso gas-serra per il legame combusto?
I danni alla biodiversità nelle foreste esistenti non sono messi in discussione, saranno aggravati, così come pure l’inquinamento atmosferico e l’alterazione del ciclo dell’acqua, della depurazione dell’aria e danni al paesaggio.
Occorrono, viceversa, politiche di conservazione dei boschi esistenti, disciplinare il prelievo eco-compatibile delle biomasse legnose con esclusione e disincentivazione del loro uso a scopo energetico. In definitiva i nuovi alberi da piantare dovrebbero essere aggiuntivi al patrimonio arboreo e forestale esistente e non sostitutivi.
– Piantare nuovi alberi “entro il 2030” vuol dire che qualora si partisse da subito con un’imponente ed epocale opera di rimboschimento, (cosa improbabile e di cui non si rinviene traccia nella programmazione, nell’individuazione dei soggetti attuatori, nei criteri, nell’individuazione delle aree e nei fondi nei bilanci delle Istituzioni), i nuovi alberi alla data stabilita avrebbero meno di otto anni di età! E i boschi di neo-formazione artificiale sarebbero in fase evolutiva assai fortemente arretrata per il periodo indicato.
Bene quindi piantare nuovi alberi, ma non facciamoci illusioni sul loro contributo, nei tempi strettissimi a disposizione per contenere la temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi, entro la medesima data del 2030.
– Non è stabilita, inoltre, alcuna verifica sul numero degli alberi da piantare: chi tiene la contabilità?
– Domanda d’obbligo: ammettendo pure che tutte le nazioni si mettano, virtuosamente e auspicabilmente, a piantare alberi, quanti di questi sopravviveranno?
Stiamo vedendo come la crisi climatica abbia portato periodi di aridità prolungata, aumento delle aree avviate a desertificazione, aumento degli incendi boschivi e a uragani e piogge di straordinaria intensità, fattori questi in grado di annullare sforzi di forestazione che pure sono necessari.
Non basta piantare, ma occorre quindi anche curare che i nuovi alberi possano crescere ed evolvere.
– Che la proposta lanciata abbia sapore propagandistico è dimostrato dal fatto che, mentre si parla, almeno nel nostro Paese, di piantare nuovi alberi,non si rispettano i boschi di neo-formazione naturale che si sono formati spontaneamente sui terreni abbandonati dalle pratiche agricole di sussistenza del passato.
Infatti il TUFF (Testo Unico per le Foreste e le Filiere Forestali) neppure li considera boschi e ne autorizza il taglio col pretesto di restituire quelle aree a un improbabile ritorno alle pratiche agricole che nessuno richiede!
Questi boschi giovanissimi sono cresciuti senza intervento dell’uomo, gratis, non hanno avuto bisogno di finanziamenti, di vivai, di macchine operatrici e hanno il pregio qualitativo di essere generati da genotipi locali, ecotipi più idonei di altri perché selezionati dall’evoluzione naturale nelle condizioni ecologiche locali. Come si può accettare che, mentre si intende piantare nuovi alberi per nuove foreste, si consenta o si incentivi l’eliminazione di quelle nate spontaneamente negli ultimi decenni? Impedire loro di evolvere nelle successioni secondo le regole della natura?
E come non gridare allo scandalo sul fatto che le Regioni continuano ad autorizzare il pascolo negli ecosistemi boschivi, anche di pregio, fatto notoriamente distruttivo del rinnovamento naturale in quanto le giovani piante vengono brucate?
– Si stima che l’umanità, dalla nascita dell’agricoltura ad oggi, abbia tagliato circa la metà degli alberi del Pianeta da 6000 miliardi agli attuali (forse residui) 3000 miliardi, e che la deforestazione è stata particolarmente intensa nei secoli più recenti, a partire dal XVI. Nel contempo le emissioni di CO2 sono aumentate vertiginosamente, come mai. Se fossero piantati mille miliardi effettivi di alberi (cosa auspicabile) ne avremmo portato il quantitativo sulla Terra a 4000 miliardi con benefici climatici che sarebbero visti tra diversi decenni.
Ma nulla si dice di come far cessare da subito le imponenti deforestazioni in atto, in Amazzonia, in Congo, in Uganda, nel Medio Oriente ove si perdono milioni di Km2 all’anno per profitti economici immediati, né di come fronteggiare la perdita di intere parti di continenti con foreste vetuste o primigenie, a causa degli incendi che richiederebbero di essere fronteggiati con cooperazione internazionale e sforzi cospicui.
L’impegno delle nazioni è quello di rinviare, e di far cessare la deforestazione al 2030 e neppure si dice come raggiungere questo obiettivo!
– Da dove verranno i mille miliardi di nuove piante di cui si parla? Quelle dei boschi di neo-formazione lo sappiamo: vengono dagli ecotipi locali, spontanei, ma quelli di cui si parla proverranno dal mercato globalizzato che nulla ha a che fare con le regole della natura.
Si deporteranno varietà geneticamente uniformi, selezionate dalle esigenze commerciali, da una parte all’altra dei continenti, in climi diversi, a rischio non solo di sopravvivenza ma anche di ibridazione con gli ecotipi selvatici, indebolendo nel tempo interi ecosistemi forestali già minacciati dal riscaldamento globale e dal diffondersi di parassitosi.
Un’operazione scientificamente corretta ed ecologicamente accettabile sarebbe invece quella di avviare la realizzazione di vivai pubblici rivolti alla conservazione e propagazione della vegetazione spontanea dei luoghi specifici da riforestare. Insomma se i tempi da qui al 2030 sono strettissimi, l’approntamento di tutto quanto occorrerebbe per la pianificazione, per la raccolta e propagazione dei genotipi autoctoni nei vari luoghi del Pianeta, occupa buona parte di tale tempo, così da arrivare al fatidico 2030 – se fossero fatti sforzi giusti ed imponenti – avendo alberelli piccolissimi la cui superficie fotosintetica sarebbe di scarsa rilevanza per gli scopi di mitigazione climatica che si vorrebbero conseguire.
Anche in questa proposta rispetto alla questione climatica non viene considerato il fattore “tempo” in relazione al fatto che la cattura del carbonio negli ecosistemi forestali non avviene solo a opera della fissazione nel legno: quantitativi altrettanto importanti vengono fissati nel suolo a livello della lettiera e dell’humus e parte finisce nel ciclo dell’acqua sottoforma di ione bicarbonato. Ciò è significativo nelle foreste evolute (ragione fondamentale perché vengano conservate) e per gli alberi adulti, mentre è minimo nei nuovi virgulti.
– Le priorità d’intervento andrebbero rivolte nell’immediato alle città e alle aree peri-urbane, per i benefici straordinari che gli alberi forniscono per il contenimento dell’inquinamento atmosferico, delle ondate di calore, per il microclima locale.
CONCLUSIONI
Piantare nuovi alberi è cosa buona e giusta, ma l’efficacia rispetto alla crisi climatica, nei tempi strettissimi di 5- 11 anni a disposizione per contenere il riscaldamento medio globale al di sotto de 1,5 gradi celsius, è di scarsissima rilevanza.
L’operazione è complessa e richiederebbe una quantità di operazioni che, se non improntate a criteri delle scienze ecologiche, rischia di fallire in buona parte o addirittura di produrre danni agli ecosistemi.
Efficacia maggiore, nei tempi a disposizione, è arrestare da subito le deforestazioni in corso e lasciare alla libera evoluzione naturale i boschi di neo-formazione spontanea, eliminare gli incentivi statali all’uso energetico delle biomasse legnose.
Vanno individuati i boschi di tutela, in almeno il 50% del patrimonio forestale nazionale esistente, e disciplinato il prelievo del legno con una selvicoltura ecologica che produca il minor danno possibile ai boschi di produzione. Su tutto va tutelata la biodiversità negli ecosistemi con un’ottica globale attenta anche a tutti i benefici forniti dal mondo delle piante.
Diversamente, i mille miliardi di alberi sono una foglia di fico sulle vergogne dell’inazione dei governi nei confronti della crisi climatica, una suggestiva trovata suadente alle orecchie del pubblico ma demagogica, una promessa d’intenti che si configura come elemento di distrazione di massa.
Occorrono coraggio, creatività, politiche serie ed adeguate e una mobilitazione generale per evitare una catastrofe annunciata sulla Terra, di entità pari a quella dei periodi di guerra, ma stavolta per la pace e maggiore equità. I più validi combattenti, si sa, non sono i bambini: ben vengano quindi gli alberi neonati, infanti verdi, ma non saranno quelli che ci salveranno. Lasciamo lavorare in pace gli alberi adulti che tra l’altro negli ecosistemi sanno cooperare. La crisi climatica si affronta con una molteplicità di azioni da tutte le componenti del vivere e del produrre, e gli alberi sono una delle componenti della soluzione, ma bisogna innanzitutto fermare la deforestazione e il sovrasfruttamento del patrimonio forestale, e programmare eventuali riforestazioni con rigorosi criteri scientifici.
Presidente del Consiglio dei Ministri – Prof. Mario Draghi
Ministro della Salute – On. Roberto Speranza
Ministro della Transizione ecologica – Prof. Roberto Cingolani
Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali – On. Stefano Patuanelli ministro@politicheagricole.it
Ministro dello Sviluppo Economico – On. Giancarlo Giorgetti
Produzione di energia da biomassa legnosa e salvaguardia del patrimonio forestale internazionale.
Egr. Presidente del Consiglio dei Ministri,
in occasione della Giornata Mondiale delle Foreste indetta dalle Nazioni Unite il 21 marzo di ogni anno, vogliamo richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla effettiva tutela del nostro patrimonio forestale oggi sottoposto ad un crescente sfruttamento per la produzione di biomassa a fini energetici.
Ciò si somma alle minacce che storicamente ne compromettono l’estensione e soprattutto la qualità, come gli incendi, i cambiamenti climatici e il sovra-sfruttamento.
Negli ultimi anni, il crescente fabbisogno energetico della nostra società ha avviato l’utilizzo dei nostri boschi e di foreste in altre parti del Pianeta per produrre biocombustibile per le centrali a biomassa. Un recente articolo pubblicato sulla rivista “Nature” riporta un incremento del 49% della superficie forestale europea sottoposta a taglio e un incremento delle perdita di biomassa del 69% in tutta Europa, nel periodo 2016-2018 rispetto al quinquennio precedente. Il Wood Resource Balance (WRB) dell’Unione Europea (2018) mostra un incremento in Italia da 12 mila a 43 mila metricubi tra il 2009 e il 2015, tra i primi cinque Stati dell’EU28. L’ultimo rapporto annuale del EU Joint Research Centre (2021) riporta che ‘il divario tra gli usi e le fonti dichiarate di biomassa legnosa possono essere in gran parte attribuito al settore energetico e consistono principalmente in rimozioni sottostimate“. In altre parole, la gran parte di legno non contabilizzato a livello europeo può essere attribuita principalmente al consumo di energia!
A questo si aggiunge che l’Italia è tra i maggiori importatori di “pellet”, per circa l’85% dei consumi, generando prelievi forestali e impatti sugli ecosistemi forestali fuori dal nostro Paese.
Questa tendenza è favorita dalle politiche, sia a livello europeo, sia nazionale, di deduzioni fiscali e di incentivi economici che hanno alimentato l’incremento dell’uso di questo combustibile per riscaldamento e produzione energetica, promuovendolo come “ecologico” e rinnovabile, sebbene sussistano varie criticità in merito.
La produzione di energia è centrale nello sviluppo delle nostre società e per la qualità della vita dell’uomo, tuttavia è ormai improcrastinabile avviare una decisa conversione dei sistemi di produzione, abbandonando le fonti fossili e sviluppando le fonti rinnovabili e sostenibili. Nonostante lo sviluppo di fonti rinnovabili negli ultimi anni, purtroppo i livelli crescenti dei consumi energetici ci dicono che la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata finora in aggiunta e non sostitutiva rispetto quella da fonti fossili.
In questo processo di transizione occorre prestare la dovuta attenzione e cautela agli impatti che la produzione di energia da fonti rinnovabili può determinare. Vogliamo infatti sottolineare che rinnovabile non vuol dire di per sé sostenibile, se viene trascurata la mitigazione e la compensazione delle minacce per la biodiversità e il paesaggio. Nel caso dell’uso delle biomasse forestali occorre anche considerare che non è una produzione neutra e che complessivamente, per ogni chilowattora di calore o elettricità prodotta, è probabile che l’uso del legno inizialmente aggiunga in atmosfera da due a tre volte più carbonio rispetto ai combustibili fossili.
Con questa lettera, Green Impact e Gruppo Unitario per le Foreste Italiane (GUFI) – le due organizzazioni italiane che aderiscono alla Forest Defenders Alliance, un’alleanza che riunisce oltre 100 Organizzazioni Non Governative in 27 Paesi del Mondo (https://forestdefenders.eu/) – desiderano esprimere la crescente preoccupazione sull’inclusione delle biomasse forestali tra le fonti rinnovabili e sostenibili. Tale inclusione sta dando una forte spinta all’utilizzo dei nostri boschi e delle foreste di molte altri parti del Pianeta, compromettendo ecosistemi forestali di elevato valore naturalistico e i benefici che questi producono in termini di servizi ecosistemici.
L‘impiego delle biomasse legnose a scopo energetico è tutt’altro che neutrale rispetto alle emissioni di anidride carbonica in atmosfera e contrasta con il perseguimento degli obiettivi di limitazione del riscaldamento globale, secondo gli accordi assunti a Parigi nel 2015, ben al di sotto dei 2ºC con i sforzi per limitarlo a 1,5ºC. La presunta neutralità è smentita dalle emissioni necessarie per l’apertura dei cantieri e delle piste forestali, per i tagli, per la movimentazione con mezzi meccanici, per i trasporti in centrale, per la frantumazione o riduzione in pellet. Va altresì considerata la quota di carbonio immobilizzata nei boschi nella lettiera, nell’humus e nel biota vivente dei suoli e la componente non esalata in atmosfera che nel sottosuolo si combina con l’acqua dando origine a bicarbonati solubili che stabilizzano il pH degli ecosistemi acquatici rendendoli idonei ad ospitare notevole biodiversità e resilienza. Si aggiunga a questo che mentre le emissioni in atmosfera derivanti dalla combustione sono immediate, l’assorbimento richiede molto tempo per la perdita di funzioni degli ecosistemi disboscati e per i lunghi tempi di crescita di nuove piante.
Inoltre, la produzione di biomassa legnosa da conferire come combustibile nelle centrali a biomassa sta spingendo nel nostro Paese alla conversione a ceduo con turni brevi determinando il serio rischio di compromettere il capitale naturale a medio e lungo termine. Basta citare un dato: nel nostro Paese le utilizzazioni forestali negli ultimi 15 anni sono aumentate di circa il 70%.
Ad evidenziare l’importanza di questo tema, a febbraio scorso oltre 500 scienziati, anche italiani, hanno inviato una lettera a cinque leader politici mondiali (la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen; il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michael; il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden; il Primo Ministro del Giappone, Yoshihide Suga e il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in) per chiedere di arrestare l’utilizzo di biomassa legnosa di origine forestale per produrre energia su grande scala.
Vogliamo in modo analitico e sintetico soffermarci sui punti chiave per cui riteniamo che la produzione di energia dalla combustione della biomassa forestale rappresenta un elemento di forte criticità:
la conversione dei sistemi di produzione energetica con l’abbandono dei combustibili fossili come petrolio, carbone e gas naturale è imposta dalla necessità di ridurre l’immissione in atmosfera di gas clima-alteranti, mentre l’uso delle biomasse forestali produce anidride carbonica e allo stesso tempo compromette le funzioni degli ecosistemi forestali di assorbirla e di produrre ossigeno. Contrariamente all’opinione diffusa, la combustione del legno non è climaticamente neutra e contribuisce in modo significativo all’effetto serra.
✓ La combustione del materiale legnoso, in ambito domestico e in grande quantità negli impianti industriali di produzione energetica, produce particolato sotto forma di polveri sottili PM 2,5 e PM 10, oggi riconosciute all’origine di molte patologie umane e causa di morte nell’ordine di decine di migliaia di persone all’anno. In molti contesti la tecnologia idonea a eliminare o almeno ridurre le emissioni non è adottata.
✓ Sebbene negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un aumento in termini di superficie dei nostri boschi a causa dell’abbandono delle aree marginali agricole collinari e montane, lo stesso non si può dire per la loro qualità, come testimoniano i bassi livelli di biodiversità nei boschi di neo-formazione e anche dal volume medio della biomassa legnosa italiana, meno della metà degli altri Paesi europei (circa 150 mc/ha, contro quella di altri Paesi europei di 350 mc/ha).
✓ La produzione di biomassa legnosa per le centrali a biomassa impone modelli di gestione a ceduo con cicli brevi che compromettono la qualità dei boschi e i servizi ecosistemici forniti. La gestione a ceduo per la produzione di biomassa a scopo energetico arreca un danno, reale e potenziale, all’intera filiera del legno con perdita delle specie pregiate (es. le specie del Genere Acer e alcune del Genere Quercus) utilizzate nell’industria del mobile, del parquet, della cantieristica, della piccola manifatturiera (es. strumenti musicali) e l’artigianato. La gestione del patrimonio boschivo deve invece essere guidata da principi ecologici che garantiscano il rinnovamento, l’aumento della qualità forestale, i livelli di biodiversità in modo compatibile con la produzione di massa legnosa.
✓ I boschi devono essere considerati non come un’insieme di alberi, ma come un complesso ecosistema composto da migliaia di specie vegetali e di decompositorie (complessi ecosistemi composti da migliaia e migliaia di organismi autotrofi ed eterotrofi) e quindi la loro gestione non può essere affrontata ponendosi come obiettivo la produzione di materiale legnoso e al contempo trascurando le specie viventi e le funzioni ecologiche.
✓ Gli ecosistemi forestali forniscono numerosissimi servizi ecosistemici alla biodiversità e alla specie umana, dai servizi di supporto come la formazione del suolo, la fotosintesi, il riciclo dei nutrienti ai servizi di approvvigionamento (cibo, acqua, legno, fibre, ect), a quelli di regolazione come la stabilizzazione del clima, l’assesto idrogeologico, la barriera alla diffusione di malattie, il riciclo dei rifiuti, la purificazione dell’aria e la qualità e quantità dell’acqua nei bacini idrografici. Per la nostra specie si aggiungono i servizi culturali con i valori estetici, ricreativi, culturali, scientifici e spirituali. Per questo la gestione degli ecosistemi deve tenere in considerazione tutte queste funzioni.
GREEN IMPACT Start-up non profit che promuove pratiche trasformative ecologiche ed economiche. Il nostro principale obiettivo è conservare e ripristinare l’equilibrio del pianeta, dando impulso all’innovazione della cultura e dei saperi, così da migliorare il benessere degli animali, domestici e selvatici. Nel portare avanti la nostra missione di tutela dell’ambiente, degli animali e dei loro habitat, privilegiamo soluzioni che abbiano un impatto socio-economico multidisciplinare, facendo leva sull’innovazione e sugli sviluppi tecnici, scientifici e normativi. Grazie alla nostra rete di esperti, offriamo soluzioni tecniche e normative in grado di determinare reali cambiamenti. Mettiamo a disposizione della comunità internazionale dei soggetti interessati tutte le nostre soluzioni a fine di permettere un’ accelerazione di azione collettiva verso il cambiamento. Contatti stampa Green Impact Fabrizio Bulgarini |338 2198878 | f.bulgarini@tiscali.it www.greenimpact.it/it www.greenimpact.it/it/green-economy-per-il-cambiamento
GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane L’obiettivo primario del GUFI è quello di assicurare la conservazione del patrimonio forestale nazionale affinché possa essere lasciata in eredità alle generazioni che verranno. Perché la tutela della biodiversità e del paesaggio naturale dei boschi italiani e dei benefici ecosistemici che questi assicurano all’uomo sia assicurata è necessario che almeno il 50% della copertura forestale del Paese sia lasciata alla libera evoluzione. Ciò è possibile senza entrare in conflitto con le esigenze economiche di tipo produttivo. Per il GUFI l’idea del futuro forestale dell’Italia è quella di un Paese in cui i boschi possano tornare ad occupare gran parte dello spazio che è stato sottratto loro dall’uomo ripopolando le aree attualmente marginali e improduttive e andando a costituire ampie cinture verdi intorno alle città. Inoltre, i boschi destinati alla produzione devono essere gestiti al fine di produrre materiali legnosi e non destinati a usi ad alto valore aggiunto. Contatti stampa GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane Valentina Venturi | 340 3386920 | press@gufitalia.it www.gufitalia.it
La Regione Piemonte ha posticipato la data di termine del taglio ai boschi di latifoglie, permettendo di tagliare a primavera ormai arrivata con gravi danni all’ecosistema. Protestano le associazioni.
Torino, 21 aprile 2020 – Le associazioni GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane e ISDE Italia – Medici per l’Ambiente protestano per la proroga del periodo di taglio delle latifoglie concessa dalla Regione Piemonte, che permette di proseguire il taglio dei boschi a ceduo nonostante la primavera sia ormai arrivata e sia incominciato il periodo vegetativo degli alberi e di nidificazione dell’avifauna. Una scelta politica che, per venire incontro alle richieste delle ditte di taglio boschivo, ignora i tempi dettati dalla Natura e la necessità di lasciare indisturbate le nostre foreste (già sfruttate in modo intensivo e insostenibile durante il resto dell’anno) nel periodo cui gli alberi riprendono la crescita e gli animali si riproducono.
I boschi di latifoglie governati a ceduo sono sottoposti a un tipo di taglio che consiste nel rimuovere il tronco dell’albero lasciando solo una ceppaia da cui nasceranno nuovi polloni: un sistema che sfrutta la capacità dell’albero di ricominciare a crescere anche dopo un evento traumatico. Affinché la pianta possa riprendersi dopo il taglio però sono necessarie alcune condizioni, e per questo motivo le norme forestali dettano in modo rigoroso i modi ed i tempi dell’utilizzazione del bosco governato a ceduo, stabilendo date differenti per i periodi di taglio a seconda dell’altitudine proprio per evitare che vengano tagliate piante già entrate nel periodo vegetativo.
Il taglio del ceduo è indicato quindi soltanto durante la stagione silvana, ovvero il periodo dell’anno in cui gli alberi non hanno le foglie e sono nella fase di riposo: in quel momento gran parte delle riserve nutritive della pianta si trova ancora allocata nell’apparato radicale. Alla ripresa del periodo vegetativo, cioè quando all’arrivo della primavera l’albero ricomincia a mettere le foglie, le sostanze nutritive traslocano dalle radici alla parte aerea della pianta. Tagliare quando questo processo è già iniziato ha diverse e gravi ripercussioni sull’albero, in quanto causa uno squilibro energetico e un forte impoverimento del vigore vegetativo della pianta; provoca l’emissione di un maggior numero di polloni avventizi, che sono meno stabili meccanicamente e meno vitali fisiologicamente; e favorisce le patologie che possono attaccare la pianta, perché le ferite sulle ceppaie si ricoprono di uno strato di linfa zuccherina, ideale per la germinazione delle spore fungine. A queste problematiche se ne aggiungono altre collaterali che coinvolgono il bosco nel suo insieme, causate dalle operazioni di taglio, allestimento ed esbosco. Aumentano i rischi di danni alla corteccia e di altre lesioni al tronco anche negli alberi non tagliati, a causa delle sollecitazioni meccaniche; si interferisce pesantemente con il periodo di riproduzione di molte specie animali, che sempre più spesso avviene in anticipo a causa del cambiamento climatico; gli animali che vanno in letargo sottoterra sono già usciti e facilmente verranno uccisi durante le operazioni.
A causa del riscaldamento climatico si assiste sempre più spesso a un arrivo anticipato della stagione primaverile, con conseguente anticipo dell’entrata in vegetazione delle piante forestali e della ripresa di tutte le attività naturali dell’ecosistema forestale. Il fenomeno è stato particolarmente evidente questo inverno, che è stato il più caldo mai registrato, e con il passare degli anni il tema diventerà sempre più attuale e pressante.
Le associazioni invitano quindi la Regione Piemonte a rispettare i tempi dettati dalla natura, e a proteggere adeguatamente il patrimonio boschivo chiudendo la stagione di taglio prima dell’arrivo della primavera.
ISDE Italia – Medici per l’Ambiente e GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane chiedono alle istituzioni di non autorizzare la ripresa dei tagli boschivi, un’attività che nel caso delle latifoglie è anche fuori tempo massimo: è ormai primavera e i tagli nei boschi di latifoglie sono vietati per consentire alle piante il periodo vegetativo. Aperta una petizione su Change.org.
Roma, aprile 2020 – GUFI e ISDE chiedono alle istituzioni di non accogliere la richiesta avanzata da CONAIBO (Coordinamento nazionale delle imprese boschive), AIEL (Associazione italiana energie agroforestali), Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) e alcuni Comuni montani di riaprire le attività di taglio degli alberi in deroga alla quarantena, e hanno aperto una petizione sul sito Change.org per chiedere il sostegno dei cittadini che hanno a cuore l’ambiente e la salute pubblica.
Le attività forestali sono infatti ferme in quanto considerate non necessarie, e nel momento in cui l’Italia ripartirà sarà concesso solo, fino al prossimo inverno, il taglio dei boschi di conifere. Questo perché nei boschi di latifoglie (querce, faggi, carpini…) non è concessa l’attività di taglio durante il periodo vegetativo, cioè quando le piante hanno già messo le foglie. Tagliare le latifoglie in primavera, tramite la tecnica del ceduo che rimuove il tronco dell’albero lasciando solo un ceppo da cui nascono nuovi polloni, le danneggerebbe gravemente con evidenti ricadute sugli ecosistemi. Il taglio delle foreste di conifere (pini, abeti) è invece concesso tutto l’anno, perché nel loro caso la tecnica del ceduo non si può utilizzare e la riproduzione avviene unicamente tramite seme.
Le associazioni dei tagliatori non stanno quindi chiedendo solo di violare la quarantena a cui sono sottoposte tutte le altre aziende, ma anche di poter violare la legge che protegge i boschi di latifoglie, tagliando a primavera ormai giunta: quest’anno, infatti, la stagione risulta particolarmente anticipata, a seguito di quello che è stato l’inverno più caldo di sempre in Europa (3,4 gradi in più rispetto alla media del periodo).
Perché questo accanimento?
È importante ricordare che in Italia è in corso da anni un vero e proprio assalto alle foreste, viste non come bene prezioso per il pianeta, per la salute dei cittadini e come arma contro il riscaldamento globale, ma unicamente come fonte di energia. Il proliferare in Italia di centrali a biomassa, che bruciano legno per produrre energia elettrica, ha scatenato una vera e propria corsa al taglio. Le nostre foreste, che per mera superficie sono in aumento, vengono gravemente impoverite e compromesse da continui tagli che interessano gli alberi più grandi: un diradamento che, se lascia intatta la superficie della foresta, di fatto la spoglia quasi completamente riducendola a pochi alberi giovani e sottili, distanti tra loro. Una devastazione evidentissima anche a un occhio non esperto (si allega foto di una foresta governata a ceduo). GUFI e ISDE ricordano che bruciare il legno provoca maggiori emissioni di CO2 e di polveri sottili persino rispetto all’utilizzo dei combustibili fossili, con ricadute drammatiche in termini di contrasto al cambiamento climatico e di impatto sulla salute. Le biomasse forestali non possono essere considerate una fonte rinnovabile di energia: anche piantando un albero in sostituzione di quello tagliato, questo impiegherà anche un secolo ad assorbire le emissioni di quello abbattuto, sempre ammesso che non venga tagliato prima – un lasso di tempo che non ci è concesso prenderci nella lotta al riscaldamento globale e per la conservazione della biodiversità. Non a caso, due anni fa ben 784 scienziati hanno scritto al Parlamento Europeo per segnalare che usare legna come combustibile accelererà il cambiamento climatico, mentre sempre più studi rivelano l’importanza delle foreste mature e intatte nella lotta al riscaldamento globale. Inoltre, come evidenziato da un comunicato stampa del WWF a marzo, esiste uno strettissimo legame tra pandemie e danni all’ecosistema.
La richiesta delle associazioni dei taglialegna di riprendere le attività in violazione della quarantena e addirittura di prolungare il taglio delle latifoglie anche durante il periodo primaverile è causato dal desiderio di placare la fame insaziabile delle centrali a biomassa, per le quali il solo legno di conifera tagliato al termine della quarantena parrebbe non sufficiente. Eppure, come fatto notare dagli stessi promotori della richiesta di deroga alla quarantena, rimangono a terra milioni di tronchi schiantati dalla tempesta Vaia, che stanno venendo acquistati da imprese austriache proprio per produrre legna da ardere. Il recupero del legno schiantato dalla tempesta (che giace lì da moltissimi mesi, quindi non si comprende l’urgenza) può essere autorizzato con un provvedimento ad hoc, senza riprendere i tagli su tutto il territorio nazionale. Trattandosi di conifere, inoltre, il prelievo di questi alberi potrà riprendere immediatamente dopo la fine della quarantena, anche se andrà fatto con oculatezza per evitare l’erosione del terreno e il conseguente rischio idrogeologico.
Non vi è inoltre alcun rischio di esaurimento a breve termine delle scorte di legno, dato che quelle per il prossimo inverno sono già state approntate e non sarà eventuale legna raccolta ora, ancora verde, ad aumentarle. Inoltre in questo momento sono chiusi alberghi di montagna, ristoranti, rifugi, pizzerie ed altri esercizi che fanno grande consumo di legna da ardere: il fabbisogno di legna nell’ultimo mese è crollato.
Le imprese e le loro associazioni lamentano inoltre la necessità di produrre imballaggi di legno (pallets) per i settori fondamentali. I pallets però vengono prodotti perlopiù con il legno delle conifere: non c’è quindi ragione di tagliare le latifoglie in deroga alle norme ambientali. Inoltre i pallet sono riutilizzabili. Il settore agroalimentare non utilizza pallets ma contenitori di plastica, e lo stesso vale per i prodotti farmaceutici. Non ci sono quindi attività essenziali che abbiano bisogno di un’immediata produzione di pallets.
Inoltre è legittimo chiedersi in quali condizioni sanitarie le aziende di taglio vorrebbero far operare i loro lavoratori durante la pandemia: sono tristemente note le continue violazioni delle norme basilari di tutela dei lavoratori nel settore dei tagli boschivi, dove è inoltre ampiamente diffuso il lavoro nero.
In conclusione, GUFI e ISDE ritengono che non vi sia alcuna ragione per ritenere il taglio di alberi come attività necessaria che meriti una deroga durante la quarantena; che eventuali (e da dimostrare) necessità di legname possano essere soddisfatte utilizzando il legno schiantato dalla tempesta Vaia tramite un provvedimento ad hoc, che non includa le altre foreste sul territorio italiano; e che la richiesta di riaprire il taglio nei boschi di latifoglie in deroga alle leggi a protezione dell’ambiente sia irricevibile.
GUFI e ISDE invitano tutti i cittadini che hanno a cuore la salute e l’ambiente (e conseguentemente la propria) a firmare la petizione “Taglialegna #stateacasa” sul sito Change.org all’indirizzo: http://chng.it/g9zHLWXc
Non è un film che ricorda Fritzcarraldo (di Herzog, 1982) ove l’eroico inseguimento della realizzazione di un sogno colossale viene portato avanti ad ogni costo e a prezzo di sacrifici incredibili. E’ una proposta vera che a noi non convince. Il 5 di Febbraio un’equipe del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca finalizzata ad abbattere l’eccesso di CO2 in atmosferaper contrastare la crisi climatica: il metodo sarebbe quello di spandere nell’intero mar Mediterraneo e in prospettiva negli oceani del pianeta Terra, magari approfittando di un “passaggio” offerto dalle navi che attualmente viaggiamo per il globo, calce idrata (idrossido di Calcio).
Vediamone i fondamenti.
L’anidride carbonica, si sa, è in massima parte assorbita dai mari e dagli oceani non solo perchè in quanto gas si discioglie in acqua ma anche perché reagendo con essa, in buona misura cambia stato: smette di essere gas e si trasforma in acido carbonico. Questo si ionizza dando luogo a una reazione di equilibrio che complessivamente può essere così rappresentata: CO2 + H2O ↔ H2CO3 ↔ H+ + 2 HCO3– . In pratica la CO2 non si comporta come un gas qualsiasi, ad esempio al pari dell’ossigeno, che si scioglie in acqua fino a quando la sua concentrazione è arrivata a saturazione (per la legge di Henry) e resta lì come ossigeno disciolto. La reattività della CO2 una volta entrata in acqua la fa sparire dallo stato gassoso, in quantitativi significativi, e la fa trasformare soprattutto in ione idrocarbonico (vale a dire in bicarbonato) così liberando “spazio” per lo scioglimento in acqua di altra anidride carbonica. Se a questo equilibrio sottraiamo lo ione idrocarbonico, realizziamo una forzante per cui altra CO2 verrà assorbita dall’aria, e andrà a disciogliersi in quelle acque ove si è liberato spazio. In definitiva tanto più sottraiamo ione idrocarbonico dai nostri mari e tanto più liberiamo spazio perché questi possano assorbire CO2. Ma come sottrarre, a costi non proibitivi in assoluto, lo ione idrocarbonico? Semplice, lo sappiamo da oltre un secolo: basterebbe somministrare calce per trasformarlo in Carbonato di Calcio:
Ca(OH)2 + H2CO3 → CaCO3 + 2 H2O
.
Calce spenta+ ac. Carbonico → Carbonato di Calcio + acqua
In questo modo il carbonato di
Calcio, insolubile, precipiterebbe verso i fondali.
Fin qui sembra tutto facile ma la fattibilità è altra cosa. Gli stessi autori della ricerca, Stefano Caserini, noto per il suo impegno nella lotta alla crisi climatica, e Mario Grosso, dicono che occorrono altre ricerche, anche in relazione all’impatto ambientale.
Le nostre severe perplessità riguardano:
Il materiale di base.
Per produrre calce, in quantitativi così elevati, occorrerebbe realizzare cave gigantesche di roccia carbonatica. Forse servirebbero montagne intere. E conseguenti impiego di esplosivi, di macchine operatrici, di camion per il trasporto, di mulini di triturazione, il tutto per tempi lunghissimi.
La produzione della calce (Ossido di Calcio) richiede tantissima energia.
L’idrossido di calcio si ottiene dalla calce e questa a sua volta si ottiene “cuocendo” la roccia carbonatica frantumata, a 900-1000° C: dove prendiamo l’imponente quantitativo di energia necessaria? Se la risposta fosse (com’era stato ventilato per quella ricerca) che la prendiamo dalle biomasse forestali, siamo di fronte ad un assunto errato secondo cui bruciare legna sarebbe a bilancio neutro rispetto alla CO2; sappiamo che non è così: questa è una pratica fortemente emissiva, climalterante oltre che tra le più inquinanti. E sottrarrebbe alla terraferma gran parte delle foreste che assorbono – gratuitamente- CO2 fissandola a terra nel legno, nelle radici, nella lettiera, nell’humus (la maggior parte!) e nel ciclo sotterraneo delle acque. Occorre tenere in conto, rispetto alla questione climatica, anche e soprattutto il fattore tempo: quando bruciamo un albero di 70 anni, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono praticamente immediate e andiamo a peggiorare la situazione climatica già alterata… ma perché un albero piantato per sostituire quello bruciato possa svolgere la stessa funzione di assorbimento di CO2, occorre che cresca, che passino svariati decenni e noi tutto questo tempo per agire non lo abbiamo. E’ necessario ridurre ora le emissioni. Per non parlare del disastro che si avrebbe ai danni della biodiversità e degli ecosistemi connessi.
La cottura delle rocce libera essa stessa tanta CO2
CaCO3 + calore → CaO + CO2 .
Ovvero: ogni molecola di calce viva (CO da cui si ricava l’idrossido di Calcio) prodotta, ne libera una di anidride carbonica! In termini di massa questo vuol dire che ogni tonnellata di calce viva prodotta libera 846 chilogrammi di CO2. Questa emissione andrebbe ad aggiungersi a quella prodotta per il calore. E’ evidente che occorrerebbe trovare un sistema aggiuntivo (dispendioso e costoso) per sequestrare questa produzione imponente di CO2 che per certo non può essere liberata in atmosfera. Che farne? Iniettarla, attivando compressori (energivori) nelle profondità della terra? Magari in suoli vulcanici che la immobilizzano? In quantitativi imponenti, ove troviamo tanto spazio di deposito?
La trasformazione dell’ossido di Calcio in calce idrataè anch’essa problematica.
È una reazione semplice (basta immettere l’ossido di calcio nell’acqua) ma piuttosto violenta, che libera forti quantità di calore e quindi occorrerebbero impianti adeguati da cui magari si potrebbe recuperare il calore prodotto. Poi l’idrossido di calcio dev’essere trasportato fino alle navi e poi per i mari (tal quale, così trasportando anche l’acqua con i relativi costi? Oppure disidratato ma a spese di altre fonti di energia per essere poi reidratato in mare?).
Lo spandimento in mare non garantisce una omogeneizzazione della calce su larghe superfici.
Si rischia di avere aree ad alta concentrazione di calce che danneggi la flora e la fauna marina pelagiche. La diffusione, si sa, è un fenomeno lentissimo e questo rischio è assai concreto soprattutto in condizioni di mare calmo.
Il rischio di inquinamento da materiali solidi in sospensione e poi sedimentabili.
Come esito dello spandimento della calce si produce carbonato di calcio, praticamente insolubile, che tende a precipitare assai lentamente. In definitiva in mare si formerebbe una polvere sottilissima, biancastra, della stessa natura chimica della roccia finemente triturata fino a livello molecolare, che tende a stratificare nel tempo verso il fondo. Questa polvere tende ad aggregarsi come avviene in natura quando si formano rocce sedimentarie. Il rischio più forte che questo fenomeno potrebbe produrre è quello di seppellire le forme di vita bentonica ma, ancora di più, di intasare le branchie e gli apparati respiratori di tutti gli organismi filtratori. I molluschi lamellibranchi, ad esempio, sono sensibilissimi ai fenomeni di inquinamento fisico che comportino il cambio della granulometria dei fondali in cui sono immersi o ancorati e la loro scomparsa per soffocamento si rifletterebbe fino a vertici delle catene e delle reti alimentari.
Si andrebbe ad agire su un equilibrio planetario: occorre molta cautela.
Lo ione idrocarbonico contribuisce a contrastare le modifiche di pH delle acque: è in definitiva un “tampone”. L’immissione di calce effettivamente correggerebbe l’acidificazione che la CO2 ha prodotto nei nostri mari con danni incredibili in atto, i cui effetti più vistosi sono riscontrabili nello sbiancamento delle barriere coralline e morte dei coralli. Ma questa “correzione”, peraltro di dimensioni planetarie, richiederebbe ingentissimi quantitativi di idrossido di Calcio e poi ha un punto di arrivo certo, giusto e misurabile come riferimento?
Problemi di diritto internazionale.
Agire su mari che bagnano una moltitudine di nazioni, con una operazione di scala planetaria, non è cosa facile: non c’è solo la questione dei costi su cui la ricerca appare concentrata, ma occorrerebbero consensi vastissimi, convenzioni e collaborazioni difficilmente ottenibili. Inoltre tutta quella calce occorrente non sarebbe producibile solo in Italia…
CONCLUSIONI
Con tutto il rispetto per la Ricerca che noi di GUFI sosteniamo e riteniamo non sia mai abbastanza, e con il sincero rispetto per persone come Caserini e Grosso impegnati come pochi nella lotta alla crisi climatica, riteniamo che la strada intrapresa sconti un peccato di riduzionismo, sia francamente eccessiva nei propositi e che rechi un rischio aggiuntivo, che sarebbe epocale, per le nostre foreste qualora fossero confermate come fonte energetica. I boschi e le foreste non sono un insieme di alberi e serbatoio di energia producibile come calore: sono ecosistemi che regolano la vita di tutta la Terra. Noi riteniamo che gli alberi, i boschi e le foreste evolute siano invece i nostri principali alleati nella lotta al riscaldamento globale. E che quindi vadano lasciati il più possibile a svolgere le loro funzioni ecologiche, e i loro benefici ecosistemici, anche sulla salute.
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