Mille miliardi di illusioni

Mille miliardi di illusioni

di Giovanni Damiani

Il G20 tenutosi a Roma in questo novembre 2021 ha espresso consenso sulla proposta di piantare, a livello mondiale, 1000 miliardi di alberi entro il 2030 per contrastare la crisi climatica. La proposta, rivolta alla COP 26 di Glasgow, è suggestiva ma espressa in un contesto che presenta severe criticità che, se non affrontate e risolte, la rendono demagogica e di scarsissima efficacia.

Non è stato minimamente stabilito il rispetto dello stock di alberi esistenti, oggi sotto attacco massiccio – incentivato con lauti contributi statali – per la produzione di energia elettrica da biomasse legnose e di pellet per il riscaldamento degli edifici.

Bruciare alberi è aggravante della crisi climatica: come si può concepire che, mentre si intende piantare nuovi alberi, si continuerà a tagliare quelli esistenti nelle città, nei boschi anche evoluti, – con perdita netta della superficie fogliare fotosintetica che assorbe CO2 dall’atmosfera – e continuare, viceversa, ad aumentare le emissioni dello stesso gas-serra per il legame combusto?

I danni alla biodiversità nelle foreste esistenti non sono messi in discussione, saranno aggravati, così come pure l’inquinamento atmosferico e l’alterazione del ciclo dell’acqua, della depurazione dell’aria e danni al paesaggio.

Occorrono, viceversa, politiche di conservazione dei boschi esistenti, disciplinare il prelievo eco-compatibile delle biomasse legnose con esclusione e disincentivazione del loro uso a scopo energetico. In definitiva i nuovi alberi da piantare dovrebbero essere aggiuntivi al patrimonio arboreo e forestale esistente e non sostitutivi.

– Piantare nuovi alberi “entro il 2030” vuol dire che qualora si partisse da subito con un’imponente ed epocale opera di rimboschimento, (cosa improbabile e di cui non si rinviene traccia nella programmazione, nell’individuazione dei soggetti attuatori, nei criteri, nell’individuazione delle aree e nei fondi nei bilanci delle Istituzioni), i nuovi alberi alla data stabilita avrebbero meno di otto anni di età! E i boschi di neo-formazione artificiale sarebbero in fase evolutiva assai fortemente arretrata per il periodo indicato.

Bene quindi piantare nuovi alberi, ma non facciamoci illusioni sul loro contributo, nei tempi strettissimi a disposizione per contenere la temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi, entro la medesima data del 2030.

– Non è stabilita, inoltre, alcuna verifica sul numero degli alberi da piantare: chi tiene la contabilità?

– Domanda d’obbligo: ammettendo pure che tutte le nazioni si mettano, virtuosamente e auspicabilmente, a piantare alberi, quanti di questi sopravviveranno?

Stiamo vedendo come la crisi climatica abbia portato periodi di aridità prolungata, aumento delle aree avviate a desertificazione, aumento degli incendi boschivi e a uragani e piogge di straordinaria intensità, fattori questi in grado di annullare sforzi di forestazione che pure sono necessari.

Non basta piantare, ma occorre quindi anche curare che i nuovi alberi possano crescere ed evolvere.

– Che la proposta lanciata abbia sapore propagandistico è dimostrato dal fatto che, mentre si parla, almeno nel nostro Paese, di piantare nuovi alberi, non si rispettano i boschi di neo-formazione naturale che si sono formati spontaneamente sui terreni abbandonati dalle pratiche agricole di sussistenza del passato.

Infatti il TUFF (Testo Unico per le Foreste e le Filiere Forestali) neppure li considera boschi e ne autorizza il taglio col pretesto di restituire quelle aree a un improbabile ritorno alle pratiche agricole che nessuno richiede!

Questi boschi giovanissimi sono cresciuti senza intervento dell’uomo, gratis, non hanno avuto bisogno di finanziamenti, di vivai, di macchine operatrici e hanno il pregio qualitativo di essere generati da genotipi locali, ecotipi più idonei di altri perché selezionati dall’evoluzione naturale nelle condizioni ecologiche locali. Come si può accettare che, mentre si intende piantare nuovi alberi per nuove foreste, si consenta o si incentivi l’eliminazione di quelle nate spontaneamente negli ultimi decenni? Impedire loro di evolvere nelle successioni secondo le regole della natura?

E come non gridare allo scandalo sul fatto che le Regioni continuano ad autorizzare il pascolo negli ecosistemi boschivi, anche di pregio, fatto notoriamente distruttivo del rinnovamento naturale in quanto le giovani piante vengono brucate?

– Si stima che l’umanità, dalla nascita dell’agricoltura ad oggi, abbia tagliato circa la metà degli alberi del Pianeta da 6000 miliardi agli attuali (forse residui) 3000 miliardi, e che la deforestazione è stata particolarmente intensa nei secoli più recenti, a partire dal XVI. Nel contempo le emissioni di CO2 sono aumentate vertiginosamente, come mai. Se fossero piantati mille miliardi effettivi di alberi (cosa auspicabile) ne avremmo portato il quantitativo sulla Terra a 4000 miliardi con benefici climatici che sarebbero visti tra diversi decenni.

Ma nulla si dice di come far cessare da subito le imponenti deforestazioni in atto, in Amazzonia, in Congo, in Uganda, nel Medio Oriente ove si perdono milioni di Km2 all’anno per profitti economici immediati, né di come fronteggiare la perdita di intere parti di continenti con foreste vetuste o primigenie, a causa degli incendi che richiederebbero di essere fronteggiati con cooperazione internazionale e sforzi cospicui.

L’impegno delle nazioni è quello di rinviare, e di far cessare la deforestazione al 2030 e neppure si dice come raggiungere questo obiettivo!

Da dove verranno i mille miliardi di nuove piante di cui si parla? Quelle dei boschi di neo-formazione lo sappiamo: vengono dagli ecotipi locali, spontanei, ma quelli di cui si parla proverranno dal mercato globalizzato che nulla ha a che fare con le regole della natura.

Si deporteranno varietà geneticamente uniformi, selezionate dalle esigenze commerciali, da una parte all’altra dei continenti, in climi diversi, a rischio non solo di sopravvivenza ma anche di ibridazione con gli ecotipi selvatici, indebolendo nel tempo interi ecosistemi forestali già minacciati dal riscaldamento globale e dal diffondersi di parassitosi.

Un’operazione scientificamente corretta ed ecologicamente accettabile sarebbe invece quella di avviare la realizzazione di vivai pubblici rivolti alla conservazione e propagazione della vegetazione spontanea dei luoghi specifici da riforestare. Insomma se i tempi da qui al 2030 sono strettissimi, l’approntamento di tutto quanto occorrerebbe per la pianificazione, per la raccolta e propagazione dei genotipi autoctoni nei vari luoghi del Pianeta, occupa buona parte di tale tempo, così da arrivare al fatidico 2030 – se fossero fatti sforzi giusti ed imponenti – avendo alberelli piccolissimi la cui superficie fotosintetica sarebbe di scarsa rilevanza per gli scopi di mitigazione climatica che si vorrebbero conseguire.

Anche in questa proposta rispetto alla questione climatica non viene considerato il fattore “tempo” in relazione al fatto che la cattura del carbonio negli ecosistemi forestali non avviene solo a opera della fissazione nel legno: quantitativi altrettanto importanti vengono fissati nel suolo a livello della lettiera e dell’humus e parte finisce nel ciclo dell’acqua sottoforma di ione bicarbonato. Ciò è significativo nelle foreste evolute (ragione fondamentale perché vengano conservate) e per gli alberi adulti, mentre è minimo nei nuovi virgulti.

Le priorità d’intervento andrebbero rivolte nell’immediato alle città e alle aree peri-urbane, per i benefici straordinari che gli alberi forniscono per il contenimento dell’inquinamento atmosferico, delle ondate di calore, per il microclima locale.

CONCLUSIONI

Piantare nuovi alberi è cosa buona e giusta, ma l’efficacia rispetto alla crisi climatica, nei tempi strettissimi di 5- 11 anni a disposizione per contenere il riscaldamento medio globale al di sotto de 1,5 gradi celsius, è di scarsissima rilevanza.

L’operazione è complessa e richiederebbe una quantità di operazioni che, se non improntate a criteri delle scienze ecologiche, rischia di fallire in buona parte o addirittura di produrre danni agli ecosistemi.

Efficacia maggiore, nei tempi a disposizione, è arrestare da subito le deforestazioni in corso e lasciare alla libera evoluzione naturale i boschi di neo-formazione spontanea, eliminare gli incentivi statali all’uso energetico delle biomasse legnose.

Vanno individuati i boschi di tutela, in almeno il 50% del patrimonio forestale nazionale esistente, e disciplinato il prelievo del legno con una selvicoltura ecologica che produca il minor danno possibile ai boschi di produzione. Su tutto va tutelata la biodiversità negli ecosistemi con un’ottica globale attenta anche a tutti i benefici forniti dal mondo delle piante.

Diversamente, i mille miliardi di alberi sono una foglia di fico sulle vergogne dell’inazione dei governi nei confronti della crisi climatica, una suggestiva trovata suadente alle orecchie del pubblico ma demagogica, una promessa d’intenti che si configura come elemento di distrazione di massa.

Occorrono coraggio, creatività, politiche serie ed adeguate e una mobilitazione generale per evitare una catastrofe annunciata sulla Terra, di entità pari a quella dei periodi di guerra, ma stavolta per la pace e maggiore equità. I più validi combattenti, si sa, non sono i bambini: ben vengano quindi gli alberi neonati, infanti verdi, ma non saranno quelli che ci salveranno. Lasciamo lavorare in pace gli alberi adulti che tra l’altro negli ecosistemi sanno cooperare. La crisi climatica si affronta con una molteplicità di azioni da tutte le componenti del vivere e del produrre, e gli alberi sono una delle componenti della soluzione, ma bisogna innanzitutto fermare la deforestazione e il sovrasfruttamento del patrimonio forestale, e programmare eventuali riforestazioni con rigorosi criteri scientifici.