SUL DEPOSITO NAZIONALE PER I RIFIUTI RADIOATTIVI 

SUL DEPOSITO NAZIONALE PER I RIFIUTI RADIOATTIVI 

a cura di Giovanni Damiani 

(già Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente e Autorità di sicurezza nucleare e  radioprotezione) 

Premessa 

Il presente documento ha finalità di discussione e confronto. E’ rivolto al pubblico, in particolare al  mondo dell’Associazionismo, e vuole contribuire a fornire un quadro per la comprensione  dell’importanza epocale del percorso avviato per l’individuazione del sito per la costruzione del  Deposito Unico Nazionale per i rifiuti radioattivi italiani. Intende stimolare una partecipazione responsabile e cosciente. Pertanto contiene le informazioni essenziali su questo tema, scritte in  maniera il più possibile piana e chiara, e -soprattutto- formula proposte. Non affronta problemi  più vasti legati alla materia nucleare, quali l’assetto istituzionale italiano, la sproporzione economica  e tecnologica tra nord e sud del Paese, il carico di insediamenti tecnologici e il loro impatto regionale nelle varie situazioni, il tema delle alternative energetiche rinnovabili ed effettivamente sostenibili  che sono urgenti e necessarie per fronteggiare la crisi climatica, sociale, occupazionale ecc.. E’  volutamente monotematico perché possa essere utile oggi, rispetto all’iter in corso, per il  posizionamento del Deposito. Aver recintato l’argomento finalizzato a un preciso -importantissimo passaggio di un iter che in questi mesi costituiscono un appuntamento d’importanza storica, non  significa cedere ad una valutazione riduzionista, ma al contrario, si vuole contribuire ad inquadrare  le scelte attuali , tecniche e politiche, nella loro complessità. 

Il programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi 

In quanto programma è stato sottoposto a procedura di V.A.S. (Valutazione Ambientale Strategica)  conclusa con decreto VAS n. 340 del 10 novembre 2018. Il documento, di 58 pagine, articolato in sette capitoli, è consultabile on line:  

https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/rifiuti_radioattivi/programma_confo rmepdfa.pdf:  

Se ne consiglia la lettura per approfondimenti.  

Il percorso della consultazione 

La Commissione europea nel novembre 2020 ha notificato all’Italia (insieme ad Austria e Croazia)  l’attivazione di una procedura di infrazione per non aver ancora adottato un programma nazionale  per la gestione dei propri rifiuti radioattivi, conformemente alle norme dell’Ue, e in particolare alla  direttiva 2011/70 Euratom sul combustibile esaurito degli impianti nucleari e sugli altri rifiuti  radioattivi. Gli Stati membri erano tenuti a recepire la direttiva entro il 23 agosto 2013 e a notificare  i loro programmi nazionali alla Commissione entro il 23 agosto 2015.  

 Si parla inutilmente della necessità di sistemare questa tipologia di rifiuti dal 1968. Il tentativo  di imporre manu militari e con un commissario che poteva agire extra ordinem la realizzazione del  deposito Unico Nazionale per i rifiuti radioattivi a Scanzano Ionico (MT) nel 2003, senza nessun  riguardo e adeguata informazione per la popolazione, fu giustamente respinta a furore di popolo  con manifestazioni tra le più straordinarie verificatesi in Italia, concluse con la marcia delle 100mila  persone. Oggi non ostante il periodo di pandemia, l’argomento è stato ripreso e iterato in termini  frettolosi e con diverse importanti lacune per via di una documentazione che era da tempo nei cassetti e che non è stata aggiornata. I tempi stretti per evitare le pesantissime possibili sanzioni  dell’Unione Europea rischiano pure di sacrificare la partecipazione effettiva del pubblico, che  dev’essere adeguata, profonda, sostanziale e non burocratica, come passaggio ineludibile per un  argomento di così tanta importanza. 

E’ stata resa nota da parte di SOGIN con l’assenso dei Ministri per lo Sviluppo Economico e il Ministro  dell’Ambiente, del Territorio e del Mare, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (di  seguito con l’acronimo CNAPI) per la realizzazione del Deposito Nazionale per i Rifiuti Radioattivi con  annesso Parco tecnologico. 

Dal 5 gennaio 2021 è stata avviata la fase di consultazione, della durata di 60 GIORNI1(documento  per la consultazione), alla quale è possibile iscriversi online;  

Entro 120 GIORNI dalla pubblicazione, si terrà un seminario nazionale a cui parteciperanno vari  soggetti tra cui l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (di seguito  chiamato con l’acronimo ISIN2), Enti Locali, associazioni di categoria, sindacati, università, enti di  ricerca, portatori di interesse qualificati. 

Dopo il Seminario Nazionale, Sogin raccoglierà NEI SUCCESSIVI 30 GIORNI le ulteriori osservazioni  trasmesse formalmente a Sogin e al Ministero dello Sviluppo Economico e redigerà la proposta di  Carta Nazionale delle Aree Idonee (in seguito con l’acronimo CNAI). 

La CNAI verrà nuovamente sottoposta ai pareri del Ministro dello Sviluppo Economico, dell’ente di  controllo ISIN, del Ministro dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministro delle  Infrastrutture e dei Trasporti. 

In base a questi pareri, il Ministero dello Sviluppo Economico convaliderà la versione definitiva della  CNAI, che sarà quindi il risultato dell’integrazione nella CNAPI dei contributi emersi e concordati  nelle diverse fasi della consultazione pubblica. 

Come si arriva all’individuazione del sito idoneo definitivo 

Con l’approvazione della Carta Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), Sogin aprirà la successiva fase di  confronto finalizzata a raccogliere le manifestazioni d’interesse, volontarie e non vincolanti, da parte  delle Regioni e degli Enti Locali il cui territorio ricade anche parzialmente nelle aree idonee a ospitare  il Deposito Nazionale con annesso Parco Tecnologico. 

Nel caso in cui non venissero espresse, da parte di Enti Locali, manifestazioni d’interesse, o qualora  queste fossero pervenute ma successivamente ritirate, Sogin “dovrà promuovere trattative bilaterali  con le Regioni nel cui territorio ricadono le aree idonee”.  

In caso di insuccesso delle trattative bilaterali (mancata intesa), verrà convocato un tavolo  interistituzionale, come ulteriore tentativo di pervenire a una soluzione condivisa.3  

Non è specificato, dai documenti ufficiali, cosa accadrebbe in caso di assenza assoluta e ripetuta di  manifestazione d’interesse per cui riteniamo che non sia escluso che si agirebbe d’ufficio. 

Dopo l’individuazione del sito sono necessarie altre due procedure 

Il progetto del Deposito dovrà essere sottoposto a V.I.A. (Valutazione dell’Impatto Ambientale)  Nazionale, sulla base di un S.I.A. (Studio d’Impatto Ambientale) redatto dalla SOGIN in qualità di  proponente. Dovrà contenere opzioni a confronto sulle scelte effettuate, un quadro programmatico  che verifichi l’aderenza a tutte le norme esistenti, ai trattati internazionali, alla pianificazione  territoriale, e previsioni d’impatto su aria, acque superficiali e sotterranee, suolo, rumore, flora,  fauna, ecosistemi, salute pubblica, elettromagnetismo, accessibilità, eventuale cumulo con altri  progetti o insediamenti impattanti fino all’impatto percettivo dalle varie visuali. La V.I.A. , corredata  anche da un documento di sintesi non tecnica, richiede obbligatoriamente il diritto di  partecipazione del pubblico, di Enti, delle categorie interessate quali Sindacati, Associazioni di  protezione Ambientale, ecc…) che possono visionare il progetto e formulare osservazioni alle quali  va data risposta. Richiede altresì il parere obbligatorio delle Regioni, delle ARPA e delle  Soprintendenze competenti per territorio. Il parere di compatibilità ambientale VIA è reso con  Decreto, può contenere prescrizioni e compensazioni vincolanti e prevedere verifiche di  ottemperanza. Fra le prescrizioni particolare attenzione può essere rivolta anche agli aspetti  percettivi-visuali relativi all’inserimento delle opere nel paesaggio con coperture a verde secondo il  modello vegetazionale spontaneo naturale di luoghi. 

Il progetto dovrà altresì ottenere il parere dell’ISIN per tutti gli aspetti radiologici e di radioprotezione  sanitaria e ambientale del Deposito, con riguardo ai lavoratori, alle popolazioni interessate e  all’ambiente in area vasta con prescrizioni sulle cautele connesse da adottare. 

Qual’è l’origine dei rifiuti radioattivi italiani e dove si trovano attualmente? 

I rifiuti provengono: 

➔ Dalle quattro centrali elettronucleari chiuse a seguito del referendum del 1987 e consistono  in elementi di combustibile irraggiato, rifiuti gestionali, parti radiologicamente contaminate  esito del decommissioning (vale a dire dello smantellamento) in corso4

➔ Dagli impianti di ricerca e/o di riprocessamento (Eurex in Saluggia – Vercelli; ITREC in  Rotondella – Matera , OPEC e IPU in Roma alla Casaccia; ma esistono altre casistiche come  Fabbricazioni Nucleari (FN) di Bosco Marengo (Alessandria) e laboratori in ambito  universitario.  

➔ Dai reparti di medicina nucleare e di radiologia medica (cosiddetti “medicali”). ➔ Dall’industria (gamma-grafie per la verifica delle possibili imperfezioni interne delle saldature  meccaniche, dalla produzione di lastre in macchine a controllo numerico ottimizzato…). ➔ Da materiali dismessi del secolo scorso (sorgenti di gamma-grafia di officine meccaniche  dismesse, parafulmini radioattivi, aghetti di Radio o sorgenti usati in medicina, sorgenti di  Cobalto60 usate in passato per l’irraggiamento di sementi e tuberi [problema: vagabonding5 di materiale radioattivo che può potenzialmente verificarsi con il recupero di ferro, acciaio o  alluminio destinati al riciclo]. 

Ne deriva che quando parliamo di materiali radioattivi non dobbiamo pensare solo alle centrali  elettronucleari di potenza, agli impianti di riprocessamento dei combustibili irraggiati di quelle  centrali, ma ci riferiamo a un mondo assai più vasto che ha prodotto in passato e continuerà a  produrre in futuro anche se in maniera molto ridotta per la chiusura delle centrali nucleari, rifiuti  radioattivi che è necessario gestire. 

Non tutti gli impianti sono affidati a SOGIN, com’è visibile dalla figura che segue. 

Le Linee Guida che regolano le valutazioni per il sito e per il deposito 

La GUIDA TECNICA n. 29 dell’ISPRA (emanata nel 2014 e approvata dall’Agenzia Atomica  Internazionale – IAEA – nel 2013) reca: Criteri per la localizzazione di un impianto di smaltimento  superficiale di rifiuti radioattivi a bassa e media attività. 

La GUIDA TECNICA n. 30 dell’ISIN (emanata a metà novembre 2020) reca: Criteri di sicurezza e  radioprotezione per i depositi di stoccaggio temporaneo di rifiuti radioattivi e di combustibile  irraggiato. ( si noti il plurale: depositi). 

AREE INDIVIDUATE DA SOGIN POTENZIALMENTE IDONEE  

Delle 67 aree individuate dalla Sogin , 22 sono nel Lazio, 14 in Sardegna, 11 in Basilicata, 4 al  confine tra Basilicata e Puglia, 1 in Puglia, 8 in Piemonte, 4 in Sicilia, 2 in Toscana. 

La Sogin ha anche aggiunto una lista più ristretta di 23 luoghi come “aree verdi”, cioè i posti ritenuti  più favorevoli per realizzare il Deposito dei rifiuti radioattivi:  

8 in Piemonte tra le province di Torino e Alessandria (territori comunali di Caluso, Mazzè,  Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Quargento, Bosco Marengo)

2 in Toscana tra Siena e Grosseto (che comprendono territori comunali di Pienza, Campagnatico); 

7 nel Lazio in provincia di Viterbo (comuni di Montalto di Castro, Canino, Tuscania, Tarquinia,  Vignanello, Corchiano); 

6 in Basilicata-Puglia tra Matera e Bari (nei territori dei comuni di Altamura, Matera, Laterza e  Gravina di Puglia). 

Le novità nella carta CNAPI riguardano l’inclusione di siti nella Sardegna e nella Sicilia, regioni che  nella precedente ricognizione del 1999, eseguita dalla commissione presieduta da Carlo Bernardini,  erano state escluse per valutazioni riconducibili ai rischi del trasporto dei rifiuti su distanze lunghe e  per giunta via mare.  

Nel 2003 il generale Carlo Jean, presidente della SOGIN e Commissario della stessa, in audizione  parlamentare affermava che l’esclusione delle isole non era stata determinata dai rischi del  trasporto, bensì dalla volontà di evitare contestazioni da parte di Greenpeace lungo il percorso del  trasferimento del materiale radioattivo. Lasciava così intendere che le isole erano (o potevano  essere) rimesse in gioco confermando implicitamente le indiscrezioni che davano per candidata la  Sardegna ad ospitare il Deposito. Dopo mobilitazioni in Sardegna e iniziative parlamentari, il primo  ministro Berlusconi intervenne dicendo che la Sardegna turistica veniva da lui esclusa per i rifiuti  radioattivi.  

Come sono classificati i rifiuti radioattivi 

Il DLsl 45 del 2014 che recepisce la Direttiva 2011/70 EURATOM ha applicazione col regolamento di  cui al DM 7 agosto 2015 che riporta gli standard IAEA6che classifica i rifiuti radioattivi in 5 categorie7

a vita molto breve 

ad attività molto bassa 

a bassa attività 

a media attività 

ad alta attività 

La vecchia classificazione indicata nel Decreto Legislativo 31/2010, suddivideva i rifiuti radioattivi in  Ia, IIa e IIIa categoria rispettivamente caratterizzati da bassa, media e alta attività.  

La Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia, nell’aprile del 1999  aveva approvato, all’unanimità, un documento di indirizzo per il Governo in cui si proponeva la scelta  di uno o più depositi di superficie per i rifiuti nucleari di IIacategoria cui tempi di decadimento  radioattivo, fino al raggiungimento dei livelli simili a quelli del fondo naturale della crosta terrestre,  richiedono circa 300 anni. Proponeva lo smantellamento accelerato delle centrali nucleari italiane e  la collocazione dei rifiuti ad alta attività nel medesimo deposito per alcuni decenni, “viste le piccole  quantità dei volumi da sistemare”.  

Mentre per i rifiuti delle categorie Ia e IIasi ipotizzava una collocazione affrontabile realisticamente  alla luce delle attuali tecnologie, per quelli ad alta attività la commissione non formulava proposte  definitive perché allora come oggi non esiste una soluzione accettabile. 

In definitiva nel Deposito Unico Nazionale:  

• possiamo escludervi la collocazione i rifiuti a vita molto breve la cui radioattività decade a  livelli accettabili nel giro di giorni o di mesi e divengono presto rifiuti innocui ordinari. • abbiamo possibilità tecnologiche di sistemare, definitivamente, dopo averli trattati  (inertizzati in matrici solide come ad es. in cementi speciali) quelli ad attività molto bassa e  bassa. 

• abbiamo problemi da risolvere per quelli a media attività e problemi ancora più impegnativi  per i rifiuti ad alta attività i cui tempi di dimezzamento sono estremamente lunghi. Si tenga  presente che nella trasduzione fra la vecchia classificazione e quella nuova in 5 classi, i rifiuti  di media e di alta attività vanno considerati nella stessa, impegnativa, categoria. 

Gli elementi che costituiscono il cocktail dei rifiuti ad alta attività sono in determinate percentuali  isotopi creati artificialmente attraverso i fenomeni di fissione che avvengono in un reattore nucleare.  Il Plutonio 239, che è quello a maggiore presenza, decade di un millesimo della sua attività iniziale in  240 millenni. L’Uranio 235 che pure esiste in natura, dimezza la sua attività in 700 milioni di anni, ma  con l’arricchimento in protoni nel reattore diviene in buona parte Uranio238 che ha un tempo di  dimezzamento (e non di decadimento!) di circa 4,5 miliardi di anni, pari all’età del pianeta Terra.  Nella catena dei decadimenti dalla filiera dell’Uranio238 si formano Torio234, Uranio 234, Torio 230 e  Radon che è un gas radioattivo che esala dai terreni e viene a costituire la “radioattività naturale” con cui abbiamo a che fare, a macchia di leopardo, in aree un po dovunque nel Paese. Alla fine dei  decadimenti si origina il Piombo206 finalmente stabile e privo di attività radiologica.  

I tempi descritti rendono improponibile e non accettabile l’ipotesi di una sistemazione dei rifiuti  di questo genere in depositi geologici “definitivi”.  

La Terra ha le sue dinamiche geologiche attive, lente ma inesorabili, i continenti si spostano, le  montagne si formano, si alzano e si disfano, le falde acquifere e il corso dei fiumi cambiano  significativamente in tempi simili. Il mare Adriatico, ad esempio, mostra una tendenza per cui fra  circa 58 milioni di annisi stima che non esisterebbe più e la costa italiana sarà unita a quella balcanica  albanese, croata, bosniaca e slovena. Come si può pensare, di fronte ai tempi di emivita dei  radioisotopi ad alta attività, di realizzare un deposito sotterraneo geologico profondo, pretendere  che possa essere “definitivo”, che duri in sicurezza diversi milioni di anni o un miliardo di anni?  

Oggi in Europa le scorie radioattive ad alta attività sono allocate in una ventina di siti ma nessuno di  essi è definitivo. I tentativi fatti in Germania di sistemazione in depositi geologici profondi (miniere  di salgemma) sono falliti. 

Il progetto più avanzato in questo campo è quello di Olkiluoto in Finlandia per collocare i rifiuti a 400  metri di profondità e progettato per durare 100 millenni. Il costo iniziale previsto, di 3 miliardi di €,  sono lievitati ad oggi a 10 miliardi e la prevista entrata in funzione nel 2009 è stata riposizionata, per  adesso, al 2023. Altri Paesi (Svezia, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca, Svizzera, Romania) si  trovano ancora in fase di valutazione. La Cina si è dotata di 2 depositi “definitivi” per l’alta attività e  nel mondo 4 sono in via di realizzazione.  

Per quanto riguarda invece i rifiuti a bassa e media attività esistono in Europa diversi depositi  nazionali definitivi: a Drigg (vicino Sellafield in Inghilterra, ove c’è un impianto in cui si trovano  diverse barre italiane di combustibile irraggiato per il riprocessamento e l’inertizzazione, e i cui  residui diminuiti in volume e solidificati ci verranno rimpatriati), uno in Spagna a El Cabril, due nella  Penisola Scandinava, poi in Slovenia, Belgio, Romania, Slovacchia, Ungheria.  

La questione della sistemazione dell’alta attività invece appare effettivamente irrisolta e lontana  dall’esserlo. 

Una prima considerazione è d’obbligo: bene hanno fatto gli italiani a interrompere la produzione di questa tipologia di rifiuti ad emivita lunghissima e altissima pericolosità, col loro voto sul referendum  d’iniziativa popolare che l’8 e 9 novembre 1987 vide circa il 72% di Si all’uscita dal nostro Paese dalla  generazione dell’energia elettrica da fonte nucleare. Oggi i rifiuti italiani di alta attività sono tutto  sommato modesti a confronto di altri Paesi che sono in condizioni assai peggiori. 

La seconda considerazione d’obbligo è che è largamente motivato, ad oggi, dire NO alla previsione  di un ipotetico, futuro, sito geologico definitivo di profondità per la sistemazione dei rifiuti a  lunghissima emivita di attività. 

I quantitativi dei rifiuti radioattivi italiani da sistemare 

Rifiuti a vita molto breve: non richiedono sistemazione in un apposito deposito definitivo. Si lascia  che la radioattività decada tenendoli in sicurezza e divengano in poco tempo rifiuti comuni privi di  vincoli radiologici. 

Rifiuti ad attività bassa e molto bassa esistenti: (che hanno un tempo di decadimento a livelli per  cui il rischio da radioattività diviene minimo accettabile in circa 300 anni)…………..……….. 33000 m3   Ad attività bassa e molto bassa previsti per il futuro 8…………..………………………..……….……… 45000 m3 Totale capienza del deposito nazionale per questa tipologia……………………………………..…..78000 m3 

Nel Deposito Nazionale, inoltre, saranno stoccati «temporaneamente» i rifiuti a media e alta attività, ossia  quelli che perdono la radioattività in migliaia di anni , per…………………………………………………………… 17000 m3 

Questi comprendono 400 m3residui dal riprocessamento delle barre di combustibile irraggiato delle  centrali italiane, spedite da tempo in Francia e in Inghilterra e che verranno restituiti per contratto  approvato dal Parlamento, e dalle barre non riprocessabili.  

 TOTALE GENERALE 95000 m3 

Per la loro sistemazione definitiva è dichiarato che «richiedono la disponibilità di un deposito  geologico» [criticità! n.d.r.]. 

La Direttiva 2011/70/EURATOM stabilisce che ogni Paese ha la responsabilità di sistemare i propri  rifiuti radioattivi entro i propri confini nazionali. 

La direttiva prevede anche la possibilità di costruire uno o più depositi di profondità condivisi fra  Paesi europei con quantità limitate di rifiuti a media e alta attività.  

In considerazione degli elevati costi di realizzazione e di gestione di un deposito per tale tipologia di  rifiuto, alcuni Paesi stanno valutando l’opportunità di una sistemazione definitiva comune dei propri  rifiuti a media e alta attività, ma nulla di concreto o di impegnativo è dato di registrare.  L’Italia persegue la strategia, richiamata in ambito europeo, del cosiddetto ‘dual track’, ossia l’analisi  di fattibilità di un deposito da realizzare all’estero e condiviso fra più Paesi (possibilità che allo stato  attuale appare inesistente ma che è giusto tenere in ipotetica considerazione data la relativa  modesta quantità dei nostri rifiuti a lunga emivita) e, in parallelo, in caso l’ipotesi estera non risulti  praticabile, lo studio di una soluzione “definitiva” a livello nazionale. C’è da chiedersi, in merito, cosa significa la parola “definitiva”. 

Un deposito unico nazionale “temporaneo” ma di “lunga durata” 

Abituati a ragionare su tempi storici e non geologici, sembra un ossimoro chiamare una cosa  temporanea e nel contempo dire che è di lunga o lunghissima durata, ma i tempi del decadimento  radioattivo sono inevitabilmente talmente lunghi che i due concetti possono in realtà coesistere.  Un deposito siffatto consente di stoccare in sicurezza i rifiuti la cui attività radiologica si esaurisce in  circa 300 anni ma può ospitare (com’è previsto “temporaneamente”) anche quelli a media e alta  attività derivanti in massima parte dall’esercizio delle installazioni nucleari e la cui emivita radiologica  si protrae per migliaia o decine di migliaia di anni.  

Nel caso dell’Italia, come già avviene in Europa (Paesi Bassi, Svezia e Svizzera), i rifiuti a media e alta  attività verranno conferiti a un’apposita struttura centralizzata, pesso il Deposito Unico Nazionale,  denominata “Centro Stoccaggio Alta Attività” (acronimo CSA). 

La proposta di Deposito Unico Nazionale di superficie con annesso CSA e Parco Tecnologico prevede le seguenti caratteristiche: 

– Estensione 150 ettari (di cui 110 occupati dal Deposito e 40 dal Parco Tecnologico) 

– 90 grandi contenitori in cemento armato, detti “celle”, in cui verranno collocati grandi  contenitori in calcestruzzo cementizio speciale cosiddetti “moduli” entro cui saranno  alloggiati i contenitori metallici contenenti i rifiuti radioattivi già condizionati (ovvero in forma solida, racchiusi in matrice inerte che potrebbe essere vetrosa o di ceramica o  cementizia a seconda dei casi). In pratica sono tre contenitori inseriti l’uno dentro l’altro,  come le bambole souvenir russe “matrioska”. 

– Nel Deposito Nazionale italiano sarà realizzato un complesso di edifici (CSA – Complesso  Stoccaggio Alta attività), idoneo allo stoccaggio «temporaneo» dei rifiuti a media e alta  attività italiani tra cui i residui derivanti dal riprocessamento del combustibile nucleare  esaurito, inviato in Francia e nel Regno Unito e che dovranno rientrare necessariamente in  Italia, in conformità a specifici accordi internazionali. 

– Costo previsto 900 milioni di € che in base alle esperienze simili condotte all’estero  potrebbero lievitare di tre volte.  

Considerazioni critiche 

1) Le scelte che siamo chiamati a fare in questo periodo storico costituiscono la tessera di un  mosaico mondiale la cui definizione condizionerà, in materia di controllo della radioattività di  origine antropica, le generazioni umane che dovranno venire nel futuro della Terra. Quindi  grande dev’essere la responsabilità nel non commettere errori non sanabili. La rilevanza  nazionale e temporale e il livello di complessità richiedono pertanto che ad occuparsene debba  essere l’intero governo e non delegare, come avviene, la gestione del procedimento e persino  le trattative bilaterali con le Regioni e con gli Enti Locali a SOGIN che è un organismo tecnico ed  esecutivo. Ad esempio aspetti legati alla normativa sui beni Culturali, pur richiamata nelle  Guide Tecniche, non sono poi inseriti chiaramente nei criteri di esclusione per l’individuazione  del sito, né è sviluppato adeguatamente il tema occupazionale. Analogamente non sono  sviluppati i rischi legati al trasporto, sia su lunghe tratte che via mare su cui pare siano stati fatti  passi indietro rispetto alle previsioni del 1999 che escludevano Sardegna e Sicilia. 

2) L’informazione al pubblico, ancorchè migliorata rispetto alla debacle del 2003 quando si tentò di imporre il sito di Scanzano Ionico sollevando un moto popolare di protesta, è ancora  largamente insufficiente: gli atti istruttori e il progetto sono visionabili unicamente nelle sedi  delle 4 centrali nucleari italiane in corso di smantellamento (Caorso, Trino Vercellese, Latina e  Garigliano) e presso la sede nazionale della SOGIN in Roma. Compatibilmente con le necessità di sicurezza nazionale9 non sono stati resi pubblici e messi online, e per quanto possibile resi  accessibili a chiunque, tutti gli atti e i documenti che afferiscono al procedimento. Non sono  disponibili “sintesi non tecniche”, del tipo in uso nelle procedure di V.I.A. per consentire anche  ai cittadini non addentro alla materia di capire e valutare. 

3) Non sono previsti meccanismi permanenti istituzionalizzati per una partecipazione e controllo  –qualificato e non generico- del pubblico, attraverso proprie rappresentanze, nelle scelte che  si andranno a compiere e successivamente nel governo e gestione del Deposito e del Parco  Tecnologico; 

4) La carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) appare datata e necessita di  verifica per un suo eventuale aggiornamento. 

5) La valutazione nella scelta deisiti potenzialmente idonei è stata effettuata unicamente secondo  la Guida Tecnica dell’ISPRA n. 29, redatta nel 2013 e pubblicata nel 2014 e all’epoca unico  strumento regolatorio esistente. Non è stata condotta una rivalutazione secondo il disposto  della recente Guida Tecnica dell’ISIN n. 30 (Criteri di sicurezza e radioprotezione per i depositi  di stoccaggio temporaneo di rifiuti radioattivi e di combustibile irraggiato), pubblicata il 10  novembre 2020, solo due mesi prima dell’avvio della consultazione. La scelta del sito non può prescindere all’essere armonizzata con quanto disposto nella recente Guida Tecnica almeno per  i punti: 4.3 (condizioni operative e categorie di eventi); 5.1 Criteri e requisiti generali di  progetto; 5.2 Eventi di riferimento e requisiti specifici di progetto. In definitiva, per questo  punto, si ritiene che la qualità del sito debba essere valutata anche in confronto con i requisiti  del progetto dal momento che l’una cosa (il sito) influenza l’altra (il progetto) e viceversa.  

Conclusioni 

Anche se è doloroso e impopolare (a volte è meglio essere impopolari che anti-popolari) occorre  prendere atto che la realizzazione di un deposito nazionale unico di superficie per TUTTI i rifiuti  radioattivi prodotti in Italia, esistenti e futuri, è cosa necessaria, indispensabile, responsabile e  INELUDIBILE . Sono rifiuti prodotti in Italia ed è impossibile non occuparsene sul suolo nazionale  anche perché soluzioni condivise a livello europeo non esistono se non nell’espressione di vaghe intenzioni.  

Nel nostro Paese l’inventario di questo materiale è sufficientemente controllato anche se  attualmente ci sono carenze di sicurezza in diversi siti tra i circa venti in cui sono stipati: sono più idonei quelli provvisori realizzati presso le centrali dismesse10, meno o molto meno idonei in altre  circostanze. Tuttavia inviare i nostri rifiuti all’estero significherebbe correre il rischio di perderne il  controllo com’è avvenuto e continua ad avvenire per i rifiuti elettronici e per le plastiche con cui le  società opulente continuano a creare vergognosi inammissibili disastri ambientali e umanitari in  Africa. Altrettanto inaccettabile è la previsione -che in passato sembrava strada da favorire- di  inviare i nostri rifiuti radioattivi in Russia ove le cautele ambientali e sanitarie in materia sono di gran  lunga meno attente delle nostre. Politicamente ed eticamente tocca a noi sistemare in sicurezza i  nostri rifiuti. Ne abbiamo capacità, competenze, tecnologia, possibilità. 

Proposte 

Perché la realizzazione del Deposito possa essere accettata pienamente o con mugugno dalle  popolazioni e una scelta definitiva possa essere difesa con motivazioni oggettive e inoppugnabili, verificabili, occorre che vengano apportati miglioramenti procedurali e in particolare: 

→ prolungare adeguatamente i tempi della consultazione pubblica che non può essere accettata  compressa nel limite di 60 giorni, in periodo di lockdown ove è impossibile anche viaggiare per  visionare o acquisire documenti e in aggiunta in periodo di crisi istituzionale con il governo, che  dev’essere il principale interlocutore, che cambia i suoi ministri e probabilmente le sue direzioni  generali.  

→ Garantire la più assoluta trasparenza nelle scelte, l’accesso agli atti fornendo risposte a ogni  singola obiezione da parte di cittadini singoli o associati. 

→ Prevedere ampi meccanismi di partecipazione e di possibilità di verifica continuativa da parte  dei cittadini, associazioni di categoria, attraverso persone qualificate da loro designate, prevedendo  anche -se richieste- il rimborso delle spese ai rappresentanti del volontariato del Terzo Settore per  la partecipazione a riunioni e sopralluoghi. 

→ vedere coinvolto l’intero governo della Repubblica per una scelta di questa rilevanza: meno  SOGIN (che comunque è sempre una S.p.A.) e più Stato, in maniera complessiva e integrata. 

→ Prendere in considerazione, nella procedura per l’individuazione finale del sito, contestualmente  entrambe le Guide Tecniche, la n. 29 e la n. 30 in quanto oggettivamente interconnesse. 

→ ESCLUDERE ESPLICITAMENTE che possano essere autorizzati eventuali depositi definitivi privati,  ad eccezione di quelli destinati ad ospitare radionuclidi a vita molto breve che comunque devono  rispettare i criteri delle Autorità regolatorie. Questo significa che i soggetti privati attualmente autorizzati al ritiro o alla detenzione di rifiuti radioattivi rientranti nelle categorie del Deposito Unico  Nazionale, devono vedersi imposto l’obbligo di conferire il materiale raccolto o detenuto al Deposito  Unico Nazionale, secondo le specifiche a loro impartite. La pericolosità di questo genere di rifiuto e  le esigenze di sicurezza impongono infatti che la loro custodia definitiva sia pubblica. 

ESCLUDERE FIN DA SUBITO l’ipotesi di un collocamento definitivo in deposito geologico  profondo dei rifiuti a media ed alta attività perchè non è concepibile concretamente e  realisticamente che possano essere realizzate opere che durino, e in isolamento, svariati milioni di  anni. Per meglio comprendere l’entità dei tempi di cui si parla si consideri a confronto che i  dinosauri sono estinti “solo” 65 milioni di anni fa e per quanto riguarda l’umanità, che le piramidi  egizie, tra le grandi opere più antiche conosciute, sono “vecchie” di circa 4500 anni e la grande  muraglia cinese di “solo” 2200 anni. E’ impossibile prevedere come sarà il mondo fra milioni di anni,  quando le lingue attuali saranno pressochè certamente estinte e un sito realizzato oggi per  contenere sostanze tanto pericolose dovrebbe essere segnalato con ideogrammi comprensibili ai  posteri piuttosto che con iscrizioni. 

→ PREVEDERE l’INTERIM STORAGE di lunghissima durata, nel Deposito Unico Nazionale, dei rifiuti  ad alta attività e con emivita radiologica di millenni. Oggi disponiamo di contenitori, cosiddetti  cask, di metallo speciale per rifiuti radioattivi ad elevata attività. Questi contenitori sono stati  realizzati in programmi di ricerca multidisciplinare internazionali, sottoposti a numerosi test anche  spettacolari, per verificarne la capacità di resistere ad urti violentissimi, a cadute da aereo, ad  attacco aereo e missilistico e validati e selezionati dalla IAEA referente indipendente dell’ONU. Una  delle proprietà tra le più importanti di questi contenitori è quella di schermare la radiazione nucleare  evitando che arrivi a fuoriuscire al loro esterno. Così che possono essere ispezionati, movimentati o  rimossi senza necessità per gli operatori di protezioni individuali. Possono essere tenuti sigillati  garantendo sicurezza per i lavoratori del deposito, per la popolazione interessata nell’area vasta e per l’ambiente. Tali cask, cilindrici, hanno tre coperchi di chiusura successivi e la superficie esterna  ondulata che facilita la dispersione del calore che si produce inevitabilmente al loro interno in  conseguenza del lento decadimento radioattivo. Calore che nel Deposito dev’essere rimosso, così  come avviene nelle centrali nucleari che hanno ambienti a pressione negativa, con ventilazione  afferente a un camino. 

Allo stato attuale l’unica soluzione credibile è che i rifiuti ad elevate attività vengano mantenuti  entro I cask, sistemati in una zona idonea del Deposito, controllati militarmente, fino a quando  non si troverà, per loro, da parte delle generazioni future, una soluzione migliore. 

Dalla ricerca abbiamo indizi che possono farci sperare, moderatamente, che in futuro possano  essere scoperte tecnologie per ridurre significativamente o far decadere la radiazione nucleare. Va  detto che comunque per adesso questo è un sogno: siamo ben lontani dal poter considerare tali  indizi prossimi ad esiti conclusivi. Si segnala in merito l’esperimento che ha meritato l’assegnazione  del premio Nobel a Carlo Rubbia per cui bersagli bombardati con protoni ad altissima energia  producono urti anelastici contro i nuclei atomici degli elementi transuranici che si spezzano in  frammenti producendo altri e diversi radionuclidi e altri protoni attivi nel contribuire al  bombardamento. Il fenomeno di transmutazione, denominato più gergalmente “spallazione”, fa  pensare che si possano “incenerire” Ie scorie radioattive trasmutandole in nuovi e diversi  radionuclidi a minore emivita e quindi più “trattabili” per una loro sistemazione definitiva.  

Effetti simili sono stati ottenuti anche con laser ad altissima energia, ma anche questo risultato  rappresenta solo un indizio di possibilità che comunque non porta al decadimento radioattivo delle  masse ma a una loro trasmutazione in divesi radionuclidi che conservano comunque un elevato  grado di radioattività anche se inferiori alle condizioni di partenza.  

Allo stato attuale è solo il fattore “tempo” che garantisce il decadimento radioattivo spontaneo e  siccome i tempi per taluni elementi sono lunghissimi, l’unica soluzione possible è tenere custoditi  i rifiuti ad alta attività irraggiante in sicurezza entro i propri cask rimuovibili, ispezionabili,  sorvegliati, manutenuti. 

→ Acquisire al patrimonio pubblico e per finalità sociali le aree liberate con il decommissioning.  SOGIN, S.p.A. a pressochè completa partecipazione pubblica su fondi del Ministero dei Tesoro (fondi derivanti dalle accise sulle bollette elettriche degli italiani) ha il compito di smantellare le  centrali nucleari italiane fino al raggiungimento delle condizioni di un “green field”, vale a dire  lasciando al posto dell’ex centrale nucleare un campo verde privo di vincolo radiologico.  Probabilmente la “mission” assegnata a SOGIN è esagerata: nelle centrali nucleari le palazzine  degli uffici amministrativi, i locali mensa, l’aula delle riunioni, edifici che mai hanno avuto a che  fare con la radioattività e che talvolta sono pure di notevole pregio costruttivo con elementi di  particolare eleganza, potrebbero essere non demoliti, ma acquisiti dallo Stato ed assegnati ad  Associazioni per finalità sociali11. In ogni caso e’ giusto chiedere che alla fine delle operazioni di decommissioning, le aree liberate da vincoli radiologici devono essere acquisite al patrimonio dello  Stato dal momento che il loro recupero viene pagato con cospicui fondi pubblici e non dall’ENEL, al  tempo proprietaria degli impianti e “titolare”della contaminazione. Si tratta anche di evitare che  su un terreno bonificato con fondi pubblici possa successivamente verificarsi speculazione privata. 

→ Precisare la natura e le funzioni del Parco Tecnologico su cui si può esprimere consenso a  condizione che esso sia meglio definito come una struttura frequentata, viva, con ricercatori, stagisti  e persino con persone residenti nel complesso. Anzi, si ritiene che la frequentazione della struttura  debba essere ampliata ed incentivata ad esempio introducendovi un “museo nazionale  dell’energia” che copra tutta l’evoluzione tecnologica dell’umanità dalla scoperta del fuoco,  passando per l’energia idraulica, poi del vapore e quindi dell’era della “piro-tecnica”, del nucleare di fissione, fino alle più moderne scoperte e applicazioni del fotovoltaico, dell’idrogeno e delle celle  a combustibile. Può essere un luogo che ospiti laboratori di ricerca dell’ISPRA e dell’ENEA (magari  per la riduzione dell’attività delle scorie nucleari…), laboratori di metrologia o di analisi chimico fisiche rare d’eccellenza, del CNR o di Università. Un sito di Deposito popolato verrebbe infatti  percepito non come tetro cimitero di scorie pericolose da cui stare il più lontano possibile,  circondato dal perenne sospetto di essere causa di tutte le patologie che possono verificarsi  nell’area vasta interessata, ma come una struttura viva, frequentata, polo culturale e promotore di  cultura e sviluppo umano. Ovviamente la frequentazione larga dovrà essere resa anche accettabile  sotto il profilo della sicurezza (in senso militare del CSA – Complesso Stoccaggio Alta attività, ma le  due esigenze possono trovare soluzioni adeguate. 

Andrebbe anche preso in considerazione il recupero del calore derivante dal condizionamento del  deposito: il flusso di aria tiepida potrebbe essere indirizzato all’interno di serre per la coltivazione  dei fiori o per un vivaio forestale, strutture che potrebbero essere realizzate in prossimità del  Deposito Unico Nazionale.  

In ogni caso in questa fase iniziale del percorso verso il Deposito Unico Nazionale per i rifiuti  radioattivi, occorre dispiegare il massimo della trasparenza, informazione, consentire e promuovere  la partecipazione del pubblico, essere aperti al dialogo e a verifiche pubbliche sulle opzioni per  pervenire alla scelta motivata del sito più idoneo (o, meglio, del meno inidoneo) e non accontentarsi  di una ubicazione magari “più disponibile” perchè più accettata, ma carente di idoneità.  Opposizioni aprioristiche e non motivate non sono eticamente accettabili. 

della centrale del Garigliano che ha locali spaziosi e luminosi e una scala interna autoportante, disegnata da un grande  architetto italiano e unica nel suo genere.

 

Esempi di casks per i rifiuti nucleari ad alta attività

1 Dai ministeri è stato diffusa la notizia di una probabile proroga, data la crisi di governo e la pandemia in atto. All’atto  della chiusura di questo documento (12 febbraio 2021) non si registra alcun provvedimento ufficiale in merito.

2ISIN istituito con Dlgs n. 45/2014 subentra all’ISPRA dal cui Dipartimento Nucleare-Rischio Tecnologico e Industriale  (oggi ex) eredita personale e le funzioni. Precedentemente le funzioni sulla sicurezza nucleare e la radioprotezione  erano state: dal 1982 al 1984 dell’ENEA-DISP; dal 1994 al 2002 dell’ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione  dell’Ambiente); dal 2002 al 2008 dell’ISPRA. Attualmente ISIN è allocato presso in Ministero dell’Ambiente, e non più  nell’ambito tecnico-scientifico più generale dell’ISPRA ove sarebbe stato più logico e naturale che rimanesse. La  tendenza dei ministeri a divenire strutture elefantiache concentrando in sé funzioni tecnico-scientifiche parziali e  improprie, sottratte alle Istituzioni preposte e a volte in concorrenza con esse, andrebbe messa in seria discussione.

3La CNAPI, il progetto preliminare, i documenti per la consultazione pubblica e altri materiali di approfondimento  sono disponibili sul sito www.depositonazionale.it, curato da Sogin.

4La Centrale elettronucleare di Latina, a gas e grafite, è la più antica delle centrali italiane e al tempo della sua  costruzione la più importante d’Europa e tra le prime al mondo. Costruita dal 1958 al 1962, è entrata in funzione nel  1963 e chiusa nel 1987- La Centrale del Garigliano è stata in esercizio dal 1964 al 1982; La Centrale di Caorso dal 1981  al 1986. Quella di Trino Vercellese è la più recente: costruita dal 1991 al 1997, entrata in esercizio nel 1998, è stata  fermata per “arresto forzato” nel 2009 e si è rinunciato al suo raddoppio; questa centrale non è raffreddata ad acqua,  ma è dotata di due caratteristiche grandissime torri per il raffreddamento ad aria. 
5 Alla fine del maggio 1998 in Italia del nord, nel sud-est della Francia ed in Svizzera è stato rilevato un temporaneo  significativo aumento del livello di Cesio 137 presente nell’aria. La radioattività risultò provenire da un’acciaieria di  Algeciras (Spagna – Cadige), nei pressi di Gibilterra, ove una sorgente nascosta tra le lamiere incidentalmente finì nei  forni della fonderia. Un incidente simile si era verificato molti anni prima in Italia a Saronno. Nel 1989, nella fonderia di Rovello Porro (Como) un carico di alluminio radioattivo proveniente dall’Europa dell’Est è stato inavvertitamente fuso,  immettendo nell’aria e nelle acque sostanze radioattive. Come sempre avviene in questi casi, dopo la scoperta, la  fonderia venne chiusa e bonificata: alcune tonnellate d’asfalto, di terra e di detriti contaminati vennero prelevati e  trasferiti nella discarica nucleare di Capriano del Colle.
6IAEA è l’International Atomic Energy Agenzy , organismo autonomo che si rapporta, come Agenzia specializzata, con  il Consiglio di sicurezza dell’ONU. Produce rapporti periodici per l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza delle  Nazioni Unite, alla stregua di un’agenzia specializzata. Nata nel 1957 per gli sviluppi dell’uso pacifico del nucleare e per  la sua sicurezza, nel tempo ha abbandonato l’impegno nella promozione del nucleare per concentrarsi esclusivamente  sulla sicurezza, incolumità, scienza e tecnologia, verifica e salvaguardia. Svolge tre compiti principali: ispezioni  periodiche degli impianti nucleari esistenti per assicurarne l’uso pacifico; fornire informazioni e consulenze per migliorare gli standard per la sicurezza e di fungere da luogo d’incontro e interscambio per addetti ed esperti nelle  tecnologie nucleari.
7Sostituisce la vecchia classificazione ENEA-DISP del 1987
8Le sorgenti nucleari che rientrano in questa categoria continueranno necessariamente ad incrementare nel tempo  perché derivanti dagli ospedali ove sono impiegate sorgenti per diagnosi e cura, dall’industria di precisione per la  qualità dei prodotti e per la sicurezza, ad es., delle componenti dei mezzi di trasporto.
9I materiali più pericolosi devono necessariamente essere custoditi in sicurezza anche di tipo militare per evitare in  ogni modo che possano in ipotesi finire nelle mani di terroristi.
10 L’ “idoneità” a mantenere i rifiuti presso la centrale ove sono stati prodotti è una forzatura necessaria accettabile solo  in via molto temporanea. Questo perché c’è incompatibilità di requisiti tra un sito ove sorge una centrale nucleare e un  sito idoneo per ospitare un Deposito Definitivo per i rifiuti radioattivi a media e alta attività. Infatti una centrale  dev’essere necessariamente collocata nelle vicinanze di acqua (fiume o mare) necessaria per il raffreddamento, mentre  tale vicinanza è tra i criteri di esclusione nella scelta di un sito di deposito definitivo che deve durare per secoli o svariati  millenni.
11 Nel Decommissioning sarebbe anche assai opportuno conservare, a fini museali, parti pregiate della meccanica  dell’impianto. Ad esempio le giranti delle turbine che sono “pezzi unici”, realizzati da industrie italiane, con le centinaia  di alette saldate perfettamente da mani abilissime, esempi di realizzazione “artigiana” ma di qualità costruttiva e di  perfezione meccanica meritevoli di essere esposte. Allo stesso modo sarebbe una sciocchezza demolire la palazzina

FINE

Febbraio 2021 

La centrale a biomasse di Mercure non deve riaprire né ora né mai

La centrale a biomasse di Mercure non deve riaprire né ora né mai

L’associazione GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane appoggia la richiesta portata avanti da diverse associazioni di sospensione della riapertura della centrale a biomasse di Mercure. La megacentrale collocata nel Parco Nazionale del Pollino brucia 350.000 tonnellate di legno vergine all’anno (frutto del taglio di centinaia di migliaia di alberi) per produrre energia elettrica: una modalità di produzione di energia che l’Italia deve abbandonare per quattro importanti ragioni.


In primis, bruciare biomasse forestali accelera il riscaldamento globale: le energie da biomasse legnose sono più climalteranti persino delle energie fossili poiché, a parità di energia prodotta, emettono il 150% di CO2 rispetto al carbone e il 300% rispetto al gas naturale (da “Letter From Scientists To The Eu Parliament Regarding Forest Biomass” del gennaio 2018), mentre il riassorbimento di equivalenti quantità di CO2 da parte di nuovi alberi richiederà molti decenni: un tempo che non abbiamo a disposizione. Il taglio di un numero così elevato di alberi va ad aggravare il riscaldamento globale di cui una delle concause principali è proprio la deforestazione. Per rimuovere la CO2 accumulata abbiamo bisogno di grandi alberi e delle foreste vergini, che la assorbono oltre 50 volte in più rispetto ai nuovi alberi e alle piantagioni.


Secondo, la combustione di biomasse forestali presenta un grave rischio per la salute dei cittadini, in particolare in una zona come la Valle del Mercure, dove i fumi di combustione ristagnano a lungo a causa del fenomeno dell’inversione termica. La combustione di tutte le biomasse legnose, secondo i dati ufficiali dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) e di ISPRA, per la sola emissione in atmosfera di PM2,5, causa in Italia circa 20.000 morti premature ogni anno, senza contare le patologie dovute alle emissioni di inquinanti emessi nella combustione del legno (arsenico, mercurio, diossina, furani, IPA…). L’Italia detiene il triste record in Europa per morti premature derivanti dalla cattiva qualità dell’aria.


Terzo, l’utilizzo delle biomasse legnose come fonte di energia minaccia le foreste. Il patrimonio boschivo italiano è ormai sfruttato intensivamente e ben oltre i limiti di rigenerazione dello stesso. Un disastro ecologico che compromette gravemente gli ecosistemi forestali, privando le specie animali e vegetali del loro habitat, e che ha effetti anche sulla popolazione, in quanto la conservazione del patrimonio forestale è essenziale per la stabilità del suolo e la regimazione delle acque.


Quarto, il rapporto presente tra la distruzione di habitat naturali – soprattutto forestali – e l’innesco di epidemie causate dalla migrazione degli animali selvatici cacciati dal loro habitat. Virus di cui gli animali sono portatori possono fare il salto di specie e infettare l’uomo. È avvenuto con Hersa in Australia, arrivata dai pipistrelli, che si è diffusa prima tra i cavalli per poi passare all’uomo; con Ebola in Africa, dove i cercatori d’oro hanno disturbato la foresta casa di diverse specie di primati; con la malattia di Lyme negli USA, dove la scomparsa dei boschi ha decimato i predatori degli artropodi e causato un forte aumento delle zecche che trasmettono la malattia all’uomo; e in tantissimi altri casi riportati nella bibliografia scientifica e nell’ormai noto best seller Spill Over di David Quammen.


La produzione di energia da combustione di biomasse legnose non può quindi essere considerata energia pulita, non dovrebbe poter usufruire di generosi incentivi economici, e andrebbe abbandonata al più presto per la salute del pianeta, dei cittadini e per la nostra sicurezza sanitaria e sociale. GUFI è per un utilizzo razionale e sostenibile del legno, ottenuto da selvicoltura ecologica e in boschi destinati all’uopo, e per qualsiasi prodotto in cui il carbonio in esso contenuto resti allo stato solido.

Taglialegna #stateacasa: l’assalto ai boschi italiani continua persino durante la quarantena

Taglialegna #stateacasa: l’assalto ai boschi italiani continua persino durante la quarantena

ISDE Italia – Medici per l’Ambiente e GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane chiedono alle istituzioni di non autorizzare la ripresa dei tagli boschivi, un’attività che nel caso delle latifoglie è anche fuori tempo massimo: è ormai primavera e i tagli nei boschi di latifoglie sono vietati per consentire alle piante il periodo vegetativo. Aperta una petizione su Change.org.

Roma, aprile 2020 – GUFI e ISDE chiedono alle istituzioni di non accogliere la richiesta avanzata da CONAIBO (Coordinamento nazionale delle imprese boschive), AIEL (Associazione italiana energie agroforestali), Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) e alcuni Comuni montani di riaprire le attività di taglio degli alberi in deroga alla quarantena, e hanno aperto una petizione sul sito Change.org per chiedere il sostegno dei cittadini che hanno a cuore l’ambiente e la salute pubblica.

Le attività forestali sono infatti ferme in quanto considerate non necessarie, e nel momento in cui l’Italia ripartirà sarà concesso solo, fino al prossimo inverno, il taglio dei boschi di conifere. Questo perché nei boschi di latifoglie (querce, faggi, carpini…) non è concessa l’attività di taglio durante il periodo vegetativo, cioè quando le piante hanno già messo le foglie. Tagliare le latifoglie in primavera, tramite la tecnica del ceduo che rimuove il tronco dell’albero lasciando solo un ceppo da cui nascono nuovi polloni, le danneggerebbe gravemente con evidenti ricadute sugli ecosistemi. Il taglio delle foreste di conifere (pini, abeti) è invece concesso tutto l’anno, perché nel loro caso la tecnica del ceduo non si può utilizzare e la riproduzione avviene unicamente tramite seme.

Le associazioni dei tagliatori non stanno quindi chiedendo solo di violare la quarantena a cui sono sottoposte tutte le altre aziende, ma anche di poter violare la legge che protegge i boschi di latifoglie, tagliando a primavera ormai giunta: quest’anno, infatti, la stagione risulta particolarmente anticipata, a seguito di quello che è stato l’inverno più caldo di sempre in Europa (3,4 gradi in più rispetto alla media del periodo).

Perché questo accanimento?

È importante ricordare che in Italia è in corso da anni un vero e proprio assalto alle foreste, viste non come bene prezioso per il pianeta, per la salute dei cittadini e come arma contro il riscaldamento globale, ma unicamente come fonte di energia. Il proliferare in Italia di centrali a biomassa, che bruciano legno per produrre energia elettrica, ha scatenato una vera e propria corsa al taglio. Le nostre foreste, che per mera superficie sono in aumento, vengono gravemente impoverite e compromesse da continui tagli che interessano gli alberi più grandi: un diradamento che, se lascia intatta la superficie della foresta, di fatto la spoglia quasi completamente riducendola a pochi alberi giovani e sottili, distanti tra loro. Una devastazione evidentissima anche a un occhio non esperto (si allega foto di una foresta governata a ceduo).
GUFI e ISDE ricordano che bruciare il legno provoca maggiori emissioni di CO2 e di polveri sottili persino rispetto all’utilizzo dei combustibili fossili, con ricadute drammatiche in termini di contrasto al cambiamento climatico e di impatto sulla salute. Le biomasse forestali non possono essere considerate una fonte rinnovabile di energia: anche piantando un albero in sostituzione di quello tagliato, questo impiegherà anche un secolo ad assorbire le emissioni di quello abbattuto, sempre ammesso che non venga tagliato prima – un lasso di tempo che non ci è concesso prenderci nella lotta al riscaldamento globale e per la conservazione della biodiversità. Non a caso, due anni fa ben 784 scienziati hanno scritto al Parlamento Europeo per segnalare che usare legna come combustibile accelererà il cambiamento climatico, mentre sempre più studi rivelano l’importanza delle foreste mature e intatte nella lotta al riscaldamento globale. Inoltre, come evidenziato da un comunicato stampa del WWF a marzo, esiste uno strettissimo legame tra pandemie e danni all’ecosistema.

La richiesta delle associazioni dei taglialegna di riprendere le attività in violazione della quarantena e addirittura di prolungare il taglio delle latifoglie anche durante il periodo primaverile è causato dal desiderio di placare la fame insaziabile delle centrali a biomassa, per le quali il solo legno di conifera tagliato al termine della quarantena parrebbe non sufficiente. Eppure, come fatto notare dagli stessi promotori della richiesta di deroga alla quarantena, rimangono a terra milioni di tronchi schiantati dalla tempesta Vaia, che stanno venendo acquistati da imprese austriache proprio per produrre legna da ardere. Il recupero del legno schiantato dalla tempesta (che giace lì da moltissimi mesi, quindi non si comprende l’urgenza) può essere autorizzato con un provvedimento ad hoc, senza riprendere i tagli su tutto il territorio nazionale. Trattandosi di conifere, inoltre, il prelievo di questi alberi potrà riprendere immediatamente dopo la fine della quarantena, anche se andrà fatto con oculatezza per evitare l’erosione del terreno e il conseguente rischio idrogeologico.

Non vi è inoltre alcun rischio di esaurimento a breve termine delle scorte di legno, dato che quelle per il prossimo inverno sono già state approntate e non sarà eventuale legna raccolta ora, ancora verde, ad aumentarle. Inoltre in questo momento sono chiusi alberghi di montagna, ristoranti, rifugi, pizzerie ed altri esercizi che fanno grande consumo di legna da ardere: il fabbisogno di legna nell’ultimo mese è crollato.

Le imprese e le loro associazioni lamentano inoltre la necessità di produrre imballaggi di legno (pallets) per i settori fondamentali. I pallets però vengono prodotti perlopiù con il legno delle conifere: non c’è quindi ragione di tagliare le latifoglie in deroga alle norme ambientali. Inoltre i pallet sono riutilizzabili. Il settore agroalimentare non utilizza pallets ma contenitori di plastica, e lo stesso vale per i prodotti farmaceutici. Non ci sono quindi attività essenziali che abbiano bisogno di un’immediata produzione di pallets.

Inoltre è legittimo chiedersi in quali condizioni sanitarie le aziende di taglio vorrebbero far operare i loro lavoratori durante la pandemia: sono tristemente note le continue violazioni delle norme basilari di tutela dei lavoratori nel settore dei tagli boschivi, dove è inoltre ampiamente diffuso il lavoro nero.

In conclusione, GUFI e ISDE ritengono che non vi sia alcuna ragione per ritenere il taglio di alberi come attività necessaria che meriti una deroga durante la quarantena; che eventuali (e da dimostrare) necessità di legname possano essere soddisfatte utilizzando il legno schiantato dalla tempesta Vaia tramite un provvedimento ad hoc, che non includa le altre foreste sul territorio italiano; e che la richiesta di riaprire il taglio nei boschi di latifoglie in deroga alle leggi a protezione dell’ambiente sia irricevibile.

GUFI e ISDE invitano tutti i cittadini che hanno a cuore la salute e l’ambiente (e conseguentemente la propria) a firmare la petizione “Taglialegna #stateacasa” sul sito Change.org all’indirizzo: http://chng.it/g9zHLWXc

CONTATTI

Valentina Venturi – Ufficio stampa GUFI

Mail: press@gufitalia.it | Tel: 3403386920

Calce nel Mediterraneo per combattere la crisi climatica? Le nostre serie perplessità

Calce nel Mediterraneo per combattere la crisi climatica? Le nostre serie perplessità

Non è un film che ricorda Fritzcarraldo (di Herzog, 1982) ove l’eroico inseguimento della realizzazione di un sogno colossale viene portato avanti ad ogni costo e a prezzo di sacrifici incredibili.  E’ una proposta vera che a noi non convince.    
Il 5 di Febbraio un’equipe del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca finalizzata ad abbattere l’eccesso di CO2 in atmosfera per contrastare la crisi climatica:  il metodo sarebbe quello di spandere nell’intero mar Mediterraneo e in prospettiva negli oceani del pianeta Terra, magari approfittando di un “passaggio” offerto dalle navi che attualmente  viaggiamo per il globo, calce idrata (idrossido di Calcio)

Vediamone i fondamenti.

 L’anidride carbonica, si sa, è in massima parte assorbita dai mari e dagli oceani non solo perchè in quanto gas si discioglie in acqua ma anche perché reagendo con essa, in buona misura cambia stato: smette di essere gas e si trasforma in acido carbonico. Questo si ionizza dando luogo a una reazione di equilibrio che complessivamente può essere così rappresentata:  CO2 + H2O ↔ H2CO↔  H+   + 2 HCO3 .  In pratica la CO2 non si comporta come un gas qualsiasi, ad esempio al pari dell’ossigeno, che si scioglie in acqua fino a quando la sua concentrazione è arrivata a saturazione (per la legge di Henry) e resta lì come ossigeno disciolto.  La reattività  della CO2 una volta entrata in acqua la fa sparire dallo stato gassoso, in quantitativi significativi, e la fa trasformare soprattutto in ione idrocarbonico (vale a dire in bicarbonato) così liberando “spazio” per lo scioglimento in acqua di altra anidride carbonica. Se a questo equilibrio sottraiamo lo ione idrocarbonico, realizziamo una forzante per cui altra CO2 verrà assorbita dall’aria, e andrà a disciogliersi in quelle acque ove si è liberato spazio. In definitiva tanto più sottraiamo ione idrocarbonico dai nostri mari e tanto più liberiamo spazio perché questi possano assorbire CO2. Ma come sottrarre, a costi non proibitivi in assoluto, lo ione idrocarbonico? Semplice, lo sappiamo da oltre un secolo: basterebbe somministrare calce per trasformarlo in Carbonato di Calcio:  

                                                                               Ca(OH)2  + H2CO3    → CaCO3   +  2 H2O .

                                                                  Calce spenta+ ac. Carbonico → Carbonato di Calcio  + acqua

In questo modo il carbonato di Calcio, insolubile, precipiterebbe verso i fondali.

Fin qui sembra tutto facile ma la fattibilità è altra cosa. Gli stessi autori della ricerca, Stefano Caserini, noto per il suo impegno nella lotta alla crisi climatica, e Mario Grosso, dicono che occorrono altre ricerche, anche in relazione all’impatto ambientale.

Le nostre severe perplessità riguardano:

Il materiale di base.  

Per produrre calce, in quantitativi così elevati, occorrerebbe realizzare cave gigantesche di roccia carbonatica. Forse servirebbero montagne intere. E conseguenti impiego di esplosivi, di macchine operatrici, di camion per il trasporto, di mulini di triturazione, il tutto per tempi lunghissimi.

La produzione della calce (Ossido di Calcio) richiede tantissima energia.

L’idrossido di calcio si ottiene dalla calce e questa a sua volta si ottiene “cuocendo” la roccia carbonatica frantumata, a 900-1000° C:  dove prendiamo l’imponente quantitativo di energia necessaria?  Se la risposta fosse (com’era stato ventilato per quella ricerca) che la prendiamo dalle biomasse forestali, siamo di fronte ad un assunto errato secondo cui bruciare legna sarebbe a bilancio neutro rispetto alla CO2; sappiamo che non è così: questa è una pratica fortemente emissiva, climalterante oltre che tra le più inquinanti. E sottrarrebbe alla terraferma gran parte delle foreste che assorbono – gratuitamente- CO2 fissandola a terra nel legno, nelle radici, nella lettiera, nell’humus (la maggior parte!) e nel ciclo sotterraneo delle acque.  Occorre tenere in conto, rispetto alla questione climatica, anche e soprattutto il fattore tempo: quando bruciamo un albero di 70 anni, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono praticamente immediate e andiamo a peggiorare la situazione climatica  già alterata… ma perché un albero piantato per sostituire quello bruciato  possa svolgere la stessa funzione di assorbimento di CO2, occorre che cresca, che passino svariati decenni e noi tutto questo tempo per agire non lo abbiamo.  E’ necessario ridurre ora le emissioni. Per non parlare del disastro che si avrebbe ai danni della biodiversità e degli ecosistemi connessi.

La cottura delle rocce libera essa stessa tanta CO2

CaCO3 + calore → CaO   + CO2

Ovvero: ogni molecola di calce viva (CO da cui si ricava l’idrossido di Calcio) prodotta, ne libera una di anidride carbonica!  In termini di massa questo vuol dire che ogni tonnellata di calce viva prodotta libera 846 chilogrammi di CO2.   Questa emissione andrebbe ad aggiungersi a quella prodotta per il calore. E’ evidente che occorrerebbe trovare un sistema aggiuntivo (dispendioso e costoso) per sequestrare questa produzione imponente di CO2 che per certo non può essere liberata in atmosfera. Che farne? Iniettarla, attivando compressori (energivori)  nelle profondità della terra? Magari in suoli vulcanici che la immobilizzano? In quantitativi imponenti, ove troviamo tanto spazio di deposito?

La trasformazione dell’ossido di Calcio in calce idrataè anch’essa problematica.

È una reazione semplice (basta immettere l’ossido di calcio nell’acqua) ma piuttosto violenta, che libera forti quantità di calore e quindi occorrerebbero impianti adeguati da cui magari si potrebbe recuperare il calore prodotto.  Poi l’idrossido di calcio dev’essere trasportato fino alle navi e poi per i mari  (tal quale, così  trasportando anche l’acqua con i relativi costi? Oppure disidratato ma a spese di altre fonti di energia per essere poi reidratato in mare?). 

Lo spandimento in mare non garantisce una omogeneizzazione della calce su larghe superfici.

Si rischia di avere aree ad alta concentrazione di calce che danneggi la flora e la fauna marina pelagiche. La diffusione, si sa, è un fenomeno lentissimo e questo rischio è assai concreto soprattutto in condizioni di mare calmo.

Il rischio di inquinamento da materiali solidi in sospensione e poi sedimentabili.

Come esito dello spandimento della calce si produce carbonato di calcio, praticamente insolubile, che tende a precipitare assai lentamente.  In definitiva in mare si formerebbe una polvere sottilissima, biancastra, della stessa natura chimica della roccia finemente triturata fino a livello molecolare, che tende a stratificare nel tempo verso il fondo. Questa polvere tende ad aggregarsi come avviene in natura quando si formano rocce sedimentarie.  Il rischio più forte che questo fenomeno potrebbe produrre è quello di seppellire  le forme di vita bentonica ma, ancora di più, di intasare le branchie e gli apparati respiratori di tutti gli organismi filtratori.  I molluschi lamellibranchi, ad esempio, sono sensibilissimi ai fenomeni di inquinamento fisico che comportino il cambio della granulometria dei fondali in cui sono immersi o ancorati e la loro scomparsa per soffocamento si rifletterebbe fino a vertici delle catene e delle reti alimentari.

Si andrebbe ad agire su un equilibrio planetario: occorre molta cautela.

Lo ione idrocarbonico contribuisce a contrastare le modifiche di pH delle acque: è in definitiva un “tampone”. L’immissione di calce effettivamente correggerebbe l’acidificazione che la CO2 ha prodotto nei nostri mari con danni incredibili in atto, i cui effetti più vistosi sono riscontrabili nello sbiancamento delle barriere coralline e morte dei coralli.  Ma questa “correzione”, peraltro di dimensioni planetarie, richiederebbe ingentissimi quantitativi di idrossido di Calcio e poi ha un punto di arrivo certo, giusto e misurabile come riferimento?

Problemi di diritto internazionale.

Agire su mari che bagnano una moltitudine di nazioni, con una operazione di scala planetaria, non è cosa facile: non c’è solo la questione dei costi su cui la ricerca appare concentrata, ma occorrerebbero consensi vastissimi, convenzioni e collaborazioni difficilmente ottenibili.  Inoltre tutta quella calce occorrente non sarebbe producibile solo in Italia…

CONCLUSIONI

Con tutto il rispetto per la Ricerca che noi di GUFI sosteniamo e riteniamo non sia mai abbastanza, e con il sincero rispetto per persone come Caserini e Grosso impegnati come pochi nella lotta alla crisi climatica, riteniamo che la strada intrapresa sconti un peccato di riduzionismo, sia francamente eccessiva nei propositi e che rechi un rischio aggiuntivo, che sarebbe epocale, per le nostre foreste qualora fossero confermate come fonte energetica.  I boschi e le foreste non sono un insieme di alberi e serbatoio di energia producibile come calore: sono ecosistemi che regolano la vita di tutta la Terra. Noi riteniamo che gli alberi, i boschi e le foreste evolute siano invece i nostri principali alleati nella lotta al riscaldamento globale. E che quindi vadano lasciati il più possibile a svolgere le loro funzioni ecologiche, e i loro benefici ecosistemici, anche sulla salute.

Le foreste italiane meritano un’informazione corretta

Le foreste italiane meritano un’informazione corretta

Sul Fatto Quotidiano del 19 gennaio u.s. è comparso un articolo firmato da Renzo Motta e Giorgio Vacchiano dal titolo “Le foreste italiane meritano un’informazione migliore”. Nel loro scritto i due autori, noti sostenitori di un approccio antiecologico alla gestione delle foreste, sostengono tesi che, lungi dal fornire “un’informazione migliore”, risultano prive di fondamento scientifico, fuorvianti e a volte addirittura irrispettose del buon senso.

Di seguito si riportano i commenti all’articolo di Motta e Vacchiano inviati da alcuni esperti alla redazione del Fatto Quotidiano.

Cara Redazione,

considero Il Fatto Quotidiano l’unico giornale veramente libero dell’Italia. Vi seguo da anni e condivido la vostra impostazione nel raccontare i fatti. Per questo sono veramente meravigliato e anche amareggiato per lo spazio dato a Motta e Vacchiano per raccontare una verità distorta sui tagli delle foreste italiane e sulle centrali a biomasse.
L’articolo dice molte cose inesatte mescolate ad alcune verità ma inserite in un contesto alterato. Le foreste italiane sono certamente in aumento rispetto a 100 anni fa, ma occorre sapere che la data di riferimento è quella nella quale la superficie forestale italiana ha toccato il minimo storico. È una informazione fuorviante dire che le nostre foreste sono in aumento senza ricordare che siamo di gran lunga al disotto della superficie forestale potenziale ed inoltre senza dire che il volume medio dei boschi italiani è di 159 m3 ad ettaro contro i 360 m3 di Austria e Germania (veri paesi con economia forestale). È folle spingere ora sulle utilizzazioni boschive come se fossimo un paese ricco di boschi e pigro nello sfruttarli.
Per raggiungere i paesi forestalmente più avanzati dovremmo continuare ancora 50 anni con questo tasso di prelievo. Aumentarlo vuol dire solo allontanare questa data. Oltretutto la gran parte del prodotto dei nostri boschi è di scarsa qualità e destinabile solo al mercato delle biomasse a scopo energetico.
Chi spinge ora per il taglio dei boschi (come gli autori dell’articolo) favorisce solo (volontariamente o involontariamente) la lobby delle biomasse, dietro la quale ci sono speculatori senza tanti scrupoli. La filiera legno/biomasse è una filiera economicamente drogata, che fa guadagnare pochi sui finanziamenti pubblici, a scapito del popolo italiano che si trova con meno boschi e meno soldi. Guardate cosa succede alla centrale a Biomasse del Mercure in Calabria.
Le centrali a biomasse sono pericolose per la salute delle persone e dell’ambiente (distruggono i boschi e il verde urbano e emettono anidride carbonica e polveri sottili). Non si tratta di energie rinnovabili ma vengono lo stesso incentivate come tali. I boschi sono oggi uno dei più efficaci strumenti di lotta ai cambiamenti climatici e propugnarne lo sfruttamento di bassa economia è un delitto contro l’umanità (come ha detto anche il Prof. Mancuso).
Non possiamo preoccuparci dei tagli nelle foreste equatoriali e boreali e degli incendi forestali in Australia e poi appoggiare chi vuole spingere ad un insano incremento delle utilizzazioni forestali in Italia. È una follia sottovalutare quello che sta accadendo nei nostri boschi soprattutto quello che si vorrebbe far accadere a breve.
Il Fatto Quotidiano, che sta sempre dalla parte della verità e dalla parte dell’onestà, non può cadere in trappole come queste e spero che dia la possibilità di replicare.
Siete persone ascoltate e stimate, non potete veicolare un messaggio così sbagliato e pericoloso.

Buon lavoro,

Prof. Alessandro Bottacci
Docente di Conservazione della Natura, Università di Camerino.
Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.

Spett. Redazione de Il Fatto Quotidiano,

scrivo per intervenire riguardo all’articolo pubblicato recentemente sul vostro giornale, nel quale vengono sostenute tesi, a nome degli esperti Motta e Vacchiano, a favore dei tagli nelle foreste italiane e per l’uso energetico del legno.
Ciò dipende dal fatto che le biomasse sono considerate energie rinnovabili.
La logica seguita è la seguente: bruciando un albero, liberiamo in atmosfera una quantità di CO2 che un nuovo albero, crescendo fino alle dimensioni del primo, riassorbirà integralmente: con bilancio complessivo neutro, pari a zero.
Ma questo ragionamento è fallace, per vari motivi;

1) Le biomasse sono gravemente climalteranti: per ogni kW ora di elettricità prodotta con biomasse legnose viene emessa 1,5 volte la CO2 emessa col carbone e 3 volte la CO2 emessa con gas naturale. Tale CO2 viene emessa in pochi secondi bruciando un albero di 100 anni e occorreranno altri 100 anni perché un nuovo albero (sempre che venga piantato!), crescendo, la assorba. E noi questo tempo non lo abbiamo: proseguendo con questo aumento, tra 100 anni le emissioni di CO2 avranno reso impossibile la vita umana sulla terra. Soprattutto, secondo il rapporto dell’8.10.2018, redatto a Incheon (Corea del Sud) dall’IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change, Gruppo Intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico dell’ONU), frutto di due anni di lavoro di 91 ricercatori di 44 paesi che hanno esaminato 6.000 studi e valutato 42.000 dichiarazioni di colleghi e governi, il riscaldamento globale supererà la soglia di +1,5 gradi nel 2030. Quindi sono disponibili solo pochi anni per invertire la tendenza e per diminuire significativamente le quantità di CO2 emesse in atmosfera non dobbiamo più bruciare combustibili fossili, e in primo luogo le biomasse legnose, che ne emettono più degli altri!
Oltre alle emissioni dirette della combustione, vi sono ulteriori importanti emissioni dovute al taglio e trasporto a distanza delle biomasse.
Infine, gli accordi internazionali prevedono che la biomassa importata per la combustione non venga conteggiata nel bilancio delle emissioni del paese importatore e ciò aggrava notevolmente il bilancio effettivo della CO2 emessa dalle nostre centrali.

2) Soprattutto, le biomasse uccidono circa 20.000 italiani ogni anno. Il calcolo è semplice e preciso: l’Agenzia Ambientale Europea-EEA (Air Quality in Europe, Report 2018) attribuisce all’Italia (dati riferiti al 2015) 60.600 morti precoci ogni anno per il PM2,5 atmosferico. Secondo ISPRA, circa la metà del PM2,5 è secondario e circa la metà è primario emissivo; sempre secondo ISPRA oltre il 68% del PM2,5 primario emissivo è emesso dalla combustione di tutte le biomasse solide (dalle stufe alle centrali). Le biomasse, quindi, causano con certezza circa 20.000 morti precoci ogni anno. Ci sono poi malattie e morti in più, difficili da stimare come numero, dovute alle emissioni di diossina e furani, mercurio, arsenico, IPA, ecc., che vengono liberati bruciando legno. Una parte di queste morti precoci è dovuta alle emissioni di PM2,5 delle centrali a biomasse direttamente incentivate con denaro pubblico dal GSE (causando come minimo circa 1500 morti/anno), ma di fatto tutta la combustione del legno viene incentivata in vari modi (IVA agevolata, ecc.) e ciò è assolutamente inammissibile. I dati sono costanti: ad esempio, l’Air Quality in Europe, Report 2019, da poco uscito, certifica una lieve diminuzione, cioè 58.600 morti precoci/anno in Italia per PM2,5 (dati riferiti al 2016), ma ISPRA, che è avanti di un anno rispetto all’EEA, nel suo “Inventario nazionale delle emissioni in atmosfera 1990-2017, Informative Inventory Report 2019”, anch’esso da poco uscito, certifica che nel 2017 vi è stato un aumento del PM2,5 emissivo in atmosfera, totalmente dovuto alle emissioni delle biomasse che sono incrementate del 9,4% ripeto al 2016. Di conseguenza si può prevedere che le morti precoci stimate per il PM2,5, nel prossimo Report EEA che sarà riferito al 2017, segneranno un nuovo aumento per l’Italia.

Non è ammissibile che per le pressioni delle “lobby del legno”, cioè delle industrie che producono pellet, caldaie, centrali a biomasse, ecc. e di coloro – agronomi e ditte forestali – che traggono lauti guadagni dai progetti di taglio degli alberi, lo Stato Italiano debba incentivare la combustione del legno che ogni anno uccide, dati alla mano, oltre 20.000 suoi cittadini: quando l’uso del gas naturale, che produce 2.000 volte meno PM2,5, produrrebbe 2.000 volte meno morti precoci, cioè 10 (dieci) morti/anno anziché ventimila!
Ed è parimenti inammissibile che la Società pubblica partecipata “Ricerca Sistema Energetico, RSE S.p.A.”, in data 25/11/2019 su un dossier concernente “Energia delle Biomasse legnose” possa impunemente sostenere tesi opposte alle concordi evidenze scientifiche affermando: a) che le emissioni di CO2 delle biomasse siano “del tutto equivalenti al fotovoltaico (clamoroso falso, come sopra indicato); b) che le emissioni di particolato siano drasticamente ridotte dai filtri a maniche. E’ vero l’opposto. ISPRA, nell’Italian Emission Inventory 1990-2017: Informative Inventory Report 2019 riferito alle emissioni 2017, mostra come nel settore M2, composto al 99% dalla combustione di tutte le biomasse legnose, le emissioni di PM2,5 siano aumentate di quasi il 10% rispetto al 2016. Sempre ISPRA ha comunicato che il tasso di emissione attuale delle biomasse legnose sia di 388g di PM2,5 per ogni Gj di energia prodotto (312g/Gj per le centrali a biomasse). Ciò conferma il fatto, anch’esso scientificamente verificato, che le dimensioni delle polveri sottili emesse dal legno siano dell’ordine della nanoparticelle (diametro dell’elica del DNA), che nessun filtro è in grado di trattenere. Non è possibile che interessi economici debbano portare ad affermazioni false da parte di società partecipate dallo Stato, tacendo inammissibili rischi per la vita delle persone!

3) Senza incentivi, produrre energie da biomasse può essere antieconomico e l’energia utilizzata può addirittura superare l’energia prodotta! Lo dimostrano vari studi riportati nell’articolo “Le biomasse legnose non sono vere energie rinnovabili e il loro uso causa gravi effetti sulla salute” (Corrieri, 2019).

4) Le biomasse comportano rischi di incendi e di infiltrazioni mafiose. Secondo il Procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo e il Capo della Protezione civile regionale calabrese Carlo Tansi (Avvenire.it del 9.8.2017), dietro gli incendi nel Parco della Sila ci sono aziende forestali, che riforniscono di legname le centrali elettriche a biomasse. Infatti,  gli alberi bruciati mantengono un 70% di potere calorico e vengono cippati e bruciati nelle centrali. Senza incendi, nel territorio di un Parco nazionale nessuno avrebbe potuto toccarli.

5) Le biomasse sono responsabili del taglio generalizzato degli alberi. Stanno causando la distruzione delle nostre foreste e delle alberature delle nostre città. Il consumo italiano di biomasse forestali vergini, secondo GSE (2017), tra elettrico e termico è circa 52 Mton/anno mentre secondo ENEA (2017) disponiamo “solo” di 26 Mton/anno di biomasse vergini: la metà! Per mantenere accese le centrali stiamo deforestando e tagliando alberi dappertutto con le più varie motivazioni, ovviamente surrettizie. Viceversa, stanno emergendo sempre maggiori evidenze di come sia fondamentale difendere, mantenere e sviluppare alberi e foreste senza tagliarli. Sul numero di aprile 2019 di Nature è stato pubblicato un importante articolo scientifico che mostra come solo le foreste lasciate alla loro evoluzione naturale, ricche di biodiversità, possano essere potentemente efficaci nel fissare la CO2 in eccesso rimuovendola dall’atmosfera. Le foreste vergini possono salvarci mentre le piantagioni di nuovi alberi, secondo gli autori, non sono parimenti efficaci. Un grande albero maturo rimuove dall’atmosfera CO2 e inquinanti per un fattore di 50 volte maggiore rispetto a un albero appena piantato per sostituirlo. Se continuiamo a tagliare alberi e ripiantarli, andremo verso la rovina. Un articolo apparso sul numero di Science del luglio 2019 mostra come, se piantiamo nuove foreste escludendo le aree agricole e urbane, c’è spazio sulla Terra per circa un miliardo di ettari in più di copertura arborea che, se lasciata a sé stessa, potrebbe immagazzinare fino a 205 Gton di carbonio in più: esattamente la quantità che secondo l’IPCC occorre togliere dall’atmosfera per impedire il disastro climatico! Le foreste ci salverebbero da sole: basterebbe incrementarle e restaurarle smettendo di tagliarle. Queste sono le verità da dire a coloro che promuovono il taglio degli alberi!

6) Cominciamo ad avere anche evidenze scientifiche dirette di danni alla salute: danni respiratori, neurotossici e aumento del rischio cancerogeno sono stati dimostrati da vari studi sui lavoratori e sugli abitanti vicino alle centrali a biomasse (cfr. Corrieri, 2019).
Data l’estrema importanza per la salute delle persone e la possibilità di evitare ventimila morti precoci ogni anno in Italia, chiedo formalmente, come Coordinatore per il Centro Italia di ISDE-Medici per l’Ambiente, di poter essere ascoltato da Codesto spett. Giornale, assieme ad altri scienziati e ricercatori che potranno meglio illustrare a voce i dati qui solo accennati.

Dott. Ugo Corrieri
Coordinatore di ISDE- Medici per l’Ambiente per il Centro Italia

Spett. Redazione,

intervengo sull’articolo pubblicato con grande spazio e rilievo sul Fatto, in cui Motta e Vecchiano lanciano sostanzialmente un messaggio a favore dei tagli nelle foreste italiane e per l’uso energetico del legno (a prescindere dal ministro che ne ha maggiore competenza). Scrivo perché quelle sono posizioni assai pericolose per l’ambiente, per l’aggravamento della crisi climatica e per la salute, basate su verità riduttive, parziali o distorte.
Le foreste italiane sono certamente in aumento rispetto al secolo scorso, ma non ci viene detto che il periodo preso a riferimento per giustificare questo incremento che si vuole fare apparire strepitoso e da taluni addirittura eccessivo è quello in cui le nostre foreste erano ridotte già ai minimi termini storici.  Se prendessimo a riferimento, invece, periodi preindustriali (cosa non assurda se consideriamo la longevità di moltissime specie arboree che solo oggi iniziamo a conoscere con lo studio degli anelli annuali di accrescimento, scoprendo alberi che dal medioevo sono arrivati, vivi e sani, fino a noi e che continuano a riprodursi), in cui sarebbe stato possibile viaggiare da Roma a Parigi passando senza soluzione di continuità tra i boschi, il giudizio sarebbe stato molto diverso. E lo sarebbe stato ancora di più se avessimo preso a riferimento la superficie forestale necessaria per abbattere parte consistente dell’anidride carbonica immessa in eccesso in atmosfera o la superficie potenzialmente idonea al rimboschimento.  Con questi riferimenti avremmo, come conclusione, che occorre rispettare il più possibile il patrimonio arboreo esistente, lasciarlo alla sua evoluzione naturale e impiantare nuovi alberi (aggiuntivi e non sostitutivi di quelli abbattuti) ovunque possibile, incluso l’ambiente urbano, e saperli amministrare.
Il contenuto dell’articolo non è accettabile perché lascia intendere una presunta “invasione” in atto da parte dei boschi che, come rappresentata, non tiene conto della loro qualità. “L’Italia è ricca di boschi…poveri” . Così, con apparente ossimoro, sintetizzava la situazione nazionale Alfonso Alessandrini, per 15 anni Capo del Corpo Forestale dello Stato. Infatti non si può mettere sullo stesso piano per qualsiasi aspetto (ecologico, estetico, dei benefici ecosistemici resi all’uomo, per la biodiversità che è in grado di ospitare, per la stabilizzazione idrogeologica, ecc.) una foresta vetusta o semplicemente evoluta con boschi giovani, di neoformazione, che hanno alberelli che andrebbero considerati infanti e che non sono ancora evoluti come bosco vero e proprio, nelle sue successioni naturali.
In questo periodo storico in cui studi scientifici raccomandano il rispetto dei boschi come principali alleati per contrastare la crisi climatica, in Italia vengono abbattuti alberi su intere superfici boschive, lungo le strade extraurbane e nelle città, con intensità stupefacente, sotto la spinta dei generosi incentivi statali gravanti sulle nostre bollette elettriche. Sotto attacco, tra le maglie larghe della legislazione, persino boschi in aree naturali protette a livello regionale, nazionale o europeo come i cosiddetti SIC e ZPS. (Litorale Romano, Tombolo Grossetano, Caprarola..)  Eppure è scientificamente dimostrato che produrre energia bruciando legna ha un rendimento di gran lunga inferiore a quello di altre fonti, è fortemente climalterante e non è neutro come si vuol far passare: nei bilanci non si considerano (oltre al dispendio di energia fossile per taglio, accatastamento, trasporto, cippatura, ecc…) il carbonio fissato nel legno, negli apparati radicali, nella lettiera e nell’humus al suolo (di gran lunga superiore a quello presente nei tronchi e nei rami), quello che viene inglobato nel ciclo dell’acqua come ione idrocarbonico, né la perdita della funzionalità ecologica del bosco eliminato. 
La combustione del legno produce fumi assai nocivi per la salute.  Conto è che questo avvenga in una stufa in montagna ove è assicurata ventilazione e diluizione nell’ambiente, e conto è che avvenga in città densamente popolate. I filtri comuni, infatti, seppure fossero adottati, non riescono ad abbattere efficacemente le polveri più fini (PM10 e PM2,5, notoriamente cancerogene): occorrerebbero tecnologie improponibili nelle stufe e negli impianti in genere, per costi, fabbisogno manutentivo, ingombri, per consumo di acqua necessaria… Così le stufe a pellet, in ambiente urbano, diventano fattori temibili per l’aumento di casi di cancro e ciò diventa assai grave in caso di inversione termica, fenomeno che si verifica quando l’aria fredda, pesante, si pone come un “tappo” o coperta su quella calda degli strati bassi impedendo la dispersione e la diluizione degli inquinanti e la città diviene una sorta di camera a gas. E’ stupefacente che non si consideri che un bosco non è un insieme di alberi, così come un giornale non è un mero assemblaggio di parole: parliamo di ecosistemi, di resilienza, di purificazione dell’aria, di formazione di suolo fertile, di ambienti complessi caratterizzati da un’infinità di relazioni e interrelazioni al loro interno che ci forniscono aria e acqua buona, una quantità di benefici ecosistemici che regolano la vita a livello globale.
Siamo per una selvicoltura ecologica e sostenibile, per usi nobili del legno in sostituzione della plastica. Ma oggi il quadro legislativo e la pratica non vanno in questa direzione perché non si distinguono i boschi di tutela da quelli da produzione.  Secondo voi quando c’è da tagliare, le motoseghe verranno indirizzate verso le parti boschive dai tronchi e rami grandi che danno maggior profitto, oppure verso gli alberelli di neoformazione boschiva? Ecco dove porta l’assenza di valutazione della qualità dei boschi. E dire che in questo campo ci sarebbe una delle più straordinarie potenzialità di creazione di posti di lavoro qualificati (i tagli viceversa richiedono viceversa bassa manovalanza), se avviassimo una gestione selvicolturale ecosistemica ed effettivamente sostenibile.

Cordiali saluti,
Dott. Giovanni Damiani   
Biologo, Presidente G.U.F.I. – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, già Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente.