Calce nel Mediterraneo per combattere la crisi climatica? Le nostre serie perplessità

9 Feb, 2020Clima, Energia, Foreste, Inquinamento0 commenti

Non è un film che ricorda Fritzcarraldo (di Herzog, 1982) ove l’eroico inseguimento della realizzazione di un sogno colossale viene portato avanti ad ogni costo e a prezzo di sacrifici incredibili.  E’ una proposta vera che a noi non convince.    
Il 5 di Febbraio un’equipe del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca finalizzata ad abbattere l’eccesso di CO2 in atmosfera per contrastare la crisi climatica:  il metodo sarebbe quello di spandere nell’intero mar Mediterraneo e in prospettiva negli oceani del pianeta Terra, magari approfittando di un “passaggio” offerto dalle navi che attualmente  viaggiamo per il globo, calce idrata (idrossido di Calcio)

Vediamone i fondamenti.

 L’anidride carbonica, si sa, è in massima parte assorbita dai mari e dagli oceani non solo perchè in quanto gas si discioglie in acqua ma anche perché reagendo con essa, in buona misura cambia stato: smette di essere gas e si trasforma in acido carbonico. Questo si ionizza dando luogo a una reazione di equilibrio che complessivamente può essere così rappresentata:  CO2 + H2O ↔ H2CO↔  H+   + 2 HCO3 .  In pratica la CO2 non si comporta come un gas qualsiasi, ad esempio al pari dell’ossigeno, che si scioglie in acqua fino a quando la sua concentrazione è arrivata a saturazione (per la legge di Henry) e resta lì come ossigeno disciolto.  La reattività  della CO2 una volta entrata in acqua la fa sparire dallo stato gassoso, in quantitativi significativi, e la fa trasformare soprattutto in ione idrocarbonico (vale a dire in bicarbonato) così liberando “spazio” per lo scioglimento in acqua di altra anidride carbonica. Se a questo equilibrio sottraiamo lo ione idrocarbonico, realizziamo una forzante per cui altra CO2 verrà assorbita dall’aria, e andrà a disciogliersi in quelle acque ove si è liberato spazio. In definitiva tanto più sottraiamo ione idrocarbonico dai nostri mari e tanto più liberiamo spazio perché questi possano assorbire CO2. Ma come sottrarre, a costi non proibitivi in assoluto, lo ione idrocarbonico? Semplice, lo sappiamo da oltre un secolo: basterebbe somministrare calce per trasformarlo in Carbonato di Calcio:  

                                                                               Ca(OH)2  + H2CO3    → CaCO3   +  2 H2O .

                                                                  Calce spenta+ ac. Carbonico → Carbonato di Calcio  + acqua

In questo modo il carbonato di Calcio, insolubile, precipiterebbe verso i fondali.

Fin qui sembra tutto facile ma la fattibilità è altra cosa. Gli stessi autori della ricerca, Stefano Caserini, noto per il suo impegno nella lotta alla crisi climatica, e Mario Grosso, dicono che occorrono altre ricerche, anche in relazione all’impatto ambientale.

Le nostre severe perplessità riguardano:

Il materiale di base.  

Per produrre calce, in quantitativi così elevati, occorrerebbe realizzare cave gigantesche di roccia carbonatica. Forse servirebbero montagne intere. E conseguenti impiego di esplosivi, di macchine operatrici, di camion per il trasporto, di mulini di triturazione, il tutto per tempi lunghissimi.

La produzione della calce (Ossido di Calcio) richiede tantissima energia.

L’idrossido di calcio si ottiene dalla calce e questa a sua volta si ottiene “cuocendo” la roccia carbonatica frantumata, a 900-1000° C:  dove prendiamo l’imponente quantitativo di energia necessaria?  Se la risposta fosse (com’era stato ventilato per quella ricerca) che la prendiamo dalle biomasse forestali, siamo di fronte ad un assunto errato secondo cui bruciare legna sarebbe a bilancio neutro rispetto alla CO2; sappiamo che non è così: questa è una pratica fortemente emissiva, climalterante oltre che tra le più inquinanti. E sottrarrebbe alla terraferma gran parte delle foreste che assorbono – gratuitamente- CO2 fissandola a terra nel legno, nelle radici, nella lettiera, nell’humus (la maggior parte!) e nel ciclo sotterraneo delle acque.  Occorre tenere in conto, rispetto alla questione climatica, anche e soprattutto il fattore tempo: quando bruciamo un albero di 70 anni, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono praticamente immediate e andiamo a peggiorare la situazione climatica  già alterata… ma perché un albero piantato per sostituire quello bruciato  possa svolgere la stessa funzione di assorbimento di CO2, occorre che cresca, che passino svariati decenni e noi tutto questo tempo per agire non lo abbiamo.  E’ necessario ridurre ora le emissioni. Per non parlare del disastro che si avrebbe ai danni della biodiversità e degli ecosistemi connessi.

La cottura delle rocce libera essa stessa tanta CO2

CaCO3 + calore → CaO   + CO2

Ovvero: ogni molecola di calce viva (CO da cui si ricava l’idrossido di Calcio) prodotta, ne libera una di anidride carbonica!  In termini di massa questo vuol dire che ogni tonnellata di calce viva prodotta libera 846 chilogrammi di CO2.   Questa emissione andrebbe ad aggiungersi a quella prodotta per il calore. E’ evidente che occorrerebbe trovare un sistema aggiuntivo (dispendioso e costoso) per sequestrare questa produzione imponente di CO2 che per certo non può essere liberata in atmosfera. Che farne? Iniettarla, attivando compressori (energivori)  nelle profondità della terra? Magari in suoli vulcanici che la immobilizzano? In quantitativi imponenti, ove troviamo tanto spazio di deposito?

La trasformazione dell’ossido di Calcio in calce idrataè anch’essa problematica.

È una reazione semplice (basta immettere l’ossido di calcio nell’acqua) ma piuttosto violenta, che libera forti quantità di calore e quindi occorrerebbero impianti adeguati da cui magari si potrebbe recuperare il calore prodotto.  Poi l’idrossido di calcio dev’essere trasportato fino alle navi e poi per i mari  (tal quale, così  trasportando anche l’acqua con i relativi costi? Oppure disidratato ma a spese di altre fonti di energia per essere poi reidratato in mare?). 

Lo spandimento in mare non garantisce una omogeneizzazione della calce su larghe superfici.

Si rischia di avere aree ad alta concentrazione di calce che danneggi la flora e la fauna marina pelagiche. La diffusione, si sa, è un fenomeno lentissimo e questo rischio è assai concreto soprattutto in condizioni di mare calmo.

Il rischio di inquinamento da materiali solidi in sospensione e poi sedimentabili.

Come esito dello spandimento della calce si produce carbonato di calcio, praticamente insolubile, che tende a precipitare assai lentamente.  In definitiva in mare si formerebbe una polvere sottilissima, biancastra, della stessa natura chimica della roccia finemente triturata fino a livello molecolare, che tende a stratificare nel tempo verso il fondo. Questa polvere tende ad aggregarsi come avviene in natura quando si formano rocce sedimentarie.  Il rischio più forte che questo fenomeno potrebbe produrre è quello di seppellire  le forme di vita bentonica ma, ancora di più, di intasare le branchie e gli apparati respiratori di tutti gli organismi filtratori.  I molluschi lamellibranchi, ad esempio, sono sensibilissimi ai fenomeni di inquinamento fisico che comportino il cambio della granulometria dei fondali in cui sono immersi o ancorati e la loro scomparsa per soffocamento si rifletterebbe fino a vertici delle catene e delle reti alimentari.

Si andrebbe ad agire su un equilibrio planetario: occorre molta cautela.

Lo ione idrocarbonico contribuisce a contrastare le modifiche di pH delle acque: è in definitiva un “tampone”. L’immissione di calce effettivamente correggerebbe l’acidificazione che la CO2 ha prodotto nei nostri mari con danni incredibili in atto, i cui effetti più vistosi sono riscontrabili nello sbiancamento delle barriere coralline e morte dei coralli.  Ma questa “correzione”, peraltro di dimensioni planetarie, richiederebbe ingentissimi quantitativi di idrossido di Calcio e poi ha un punto di arrivo certo, giusto e misurabile come riferimento?

Problemi di diritto internazionale.

Agire su mari che bagnano una moltitudine di nazioni, con una operazione di scala planetaria, non è cosa facile: non c’è solo la questione dei costi su cui la ricerca appare concentrata, ma occorrerebbero consensi vastissimi, convenzioni e collaborazioni difficilmente ottenibili.  Inoltre tutta quella calce occorrente non sarebbe producibile solo in Italia…

CONCLUSIONI

Con tutto il rispetto per la Ricerca che noi di GUFI sosteniamo e riteniamo non sia mai abbastanza, e con il sincero rispetto per persone come Caserini e Grosso impegnati come pochi nella lotta alla crisi climatica, riteniamo che la strada intrapresa sconti un peccato di riduzionismo, sia francamente eccessiva nei propositi e che rechi un rischio aggiuntivo, che sarebbe epocale, per le nostre foreste qualora fossero confermate come fonte energetica.  I boschi e le foreste non sono un insieme di alberi e serbatoio di energia producibile come calore: sono ecosistemi che regolano la vita di tutta la Terra. Noi riteniamo che gli alberi, i boschi e le foreste evolute siano invece i nostri principali alleati nella lotta al riscaldamento globale. E che quindi vadano lasciati il più possibile a svolgere le loro funzioni ecologiche, e i loro benefici ecosistemici, anche sulla salute.

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