Mille miliardi di illusioni

Mille miliardi di illusioni

di Giovanni Damiani

Il G20 tenutosi a Roma in questo novembre 2021 ha espresso consenso sulla proposta di piantare, a livello mondiale, 1000 miliardi di alberi entro il 2030 per contrastare la crisi climatica. La proposta, rivolta alla COP 26 di Glasgow, è suggestiva ma espressa in un contesto che presenta severe criticità che, se non affrontate e risolte, la rendono demagogica e di scarsissima efficacia.

Non è stato minimamente stabilito il rispetto dello stock di alberi esistenti, oggi sotto attacco massiccio – incentivato con lauti contributi statali – per la produzione di energia elettrica da biomasse legnose e di pellet per il riscaldamento degli edifici.

Bruciare alberi è aggravante della crisi climatica: come si può concepire che, mentre si intende piantare nuovi alberi, si continuerà a tagliare quelli esistenti nelle città, nei boschi anche evoluti, – con perdita netta della superficie fogliare fotosintetica che assorbe CO2 dall’atmosfera – e continuare, viceversa, ad aumentare le emissioni dello stesso gas-serra per il legame combusto?

I danni alla biodiversità nelle foreste esistenti non sono messi in discussione, saranno aggravati, così come pure l’inquinamento atmosferico e l’alterazione del ciclo dell’acqua, della depurazione dell’aria e danni al paesaggio.

Occorrono, viceversa, politiche di conservazione dei boschi esistenti, disciplinare il prelievo eco-compatibile delle biomasse legnose con esclusione e disincentivazione del loro uso a scopo energetico. In definitiva i nuovi alberi da piantare dovrebbero essere aggiuntivi al patrimonio arboreo e forestale esistente e non sostitutivi.

– Piantare nuovi alberi “entro il 2030” vuol dire che qualora si partisse da subito con un’imponente ed epocale opera di rimboschimento, (cosa improbabile e di cui non si rinviene traccia nella programmazione, nell’individuazione dei soggetti attuatori, nei criteri, nell’individuazione delle aree e nei fondi nei bilanci delle Istituzioni), i nuovi alberi alla data stabilita avrebbero meno di otto anni di età! E i boschi di neo-formazione artificiale sarebbero in fase evolutiva assai fortemente arretrata per il periodo indicato.

Bene quindi piantare nuovi alberi, ma non facciamoci illusioni sul loro contributo, nei tempi strettissimi a disposizione per contenere la temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi, entro la medesima data del 2030.

– Non è stabilita, inoltre, alcuna verifica sul numero degli alberi da piantare: chi tiene la contabilità?

– Domanda d’obbligo: ammettendo pure che tutte le nazioni si mettano, virtuosamente e auspicabilmente, a piantare alberi, quanti di questi sopravviveranno?

Stiamo vedendo come la crisi climatica abbia portato periodi di aridità prolungata, aumento delle aree avviate a desertificazione, aumento degli incendi boschivi e a uragani e piogge di straordinaria intensità, fattori questi in grado di annullare sforzi di forestazione che pure sono necessari.

Non basta piantare, ma occorre quindi anche curare che i nuovi alberi possano crescere ed evolvere.

– Che la proposta lanciata abbia sapore propagandistico è dimostrato dal fatto che, mentre si parla, almeno nel nostro Paese, di piantare nuovi alberi, non si rispettano i boschi di neo-formazione naturale che si sono formati spontaneamente sui terreni abbandonati dalle pratiche agricole di sussistenza del passato.

Infatti il TUFF (Testo Unico per le Foreste e le Filiere Forestali) neppure li considera boschi e ne autorizza il taglio col pretesto di restituire quelle aree a un improbabile ritorno alle pratiche agricole che nessuno richiede!

Questi boschi giovanissimi sono cresciuti senza intervento dell’uomo, gratis, non hanno avuto bisogno di finanziamenti, di vivai, di macchine operatrici e hanno il pregio qualitativo di essere generati da genotipi locali, ecotipi più idonei di altri perché selezionati dall’evoluzione naturale nelle condizioni ecologiche locali. Come si può accettare che, mentre si intende piantare nuovi alberi per nuove foreste, si consenta o si incentivi l’eliminazione di quelle nate spontaneamente negli ultimi decenni? Impedire loro di evolvere nelle successioni secondo le regole della natura?

E come non gridare allo scandalo sul fatto che le Regioni continuano ad autorizzare il pascolo negli ecosistemi boschivi, anche di pregio, fatto notoriamente distruttivo del rinnovamento naturale in quanto le giovani piante vengono brucate?

– Si stima che l’umanità, dalla nascita dell’agricoltura ad oggi, abbia tagliato circa la metà degli alberi del Pianeta da 6000 miliardi agli attuali (forse residui) 3000 miliardi, e che la deforestazione è stata particolarmente intensa nei secoli più recenti, a partire dal XVI. Nel contempo le emissioni di CO2 sono aumentate vertiginosamente, come mai. Se fossero piantati mille miliardi effettivi di alberi (cosa auspicabile) ne avremmo portato il quantitativo sulla Terra a 4000 miliardi con benefici climatici che sarebbero visti tra diversi decenni.

Ma nulla si dice di come far cessare da subito le imponenti deforestazioni in atto, in Amazzonia, in Congo, in Uganda, nel Medio Oriente ove si perdono milioni di Km2 all’anno per profitti economici immediati, né di come fronteggiare la perdita di intere parti di continenti con foreste vetuste o primigenie, a causa degli incendi che richiederebbero di essere fronteggiati con cooperazione internazionale e sforzi cospicui.

L’impegno delle nazioni è quello di rinviare, e di far cessare la deforestazione al 2030 e neppure si dice come raggiungere questo obiettivo!

Da dove verranno i mille miliardi di nuove piante di cui si parla? Quelle dei boschi di neo-formazione lo sappiamo: vengono dagli ecotipi locali, spontanei, ma quelli di cui si parla proverranno dal mercato globalizzato che nulla ha a che fare con le regole della natura.

Si deporteranno varietà geneticamente uniformi, selezionate dalle esigenze commerciali, da una parte all’altra dei continenti, in climi diversi, a rischio non solo di sopravvivenza ma anche di ibridazione con gli ecotipi selvatici, indebolendo nel tempo interi ecosistemi forestali già minacciati dal riscaldamento globale e dal diffondersi di parassitosi.

Un’operazione scientificamente corretta ed ecologicamente accettabile sarebbe invece quella di avviare la realizzazione di vivai pubblici rivolti alla conservazione e propagazione della vegetazione spontanea dei luoghi specifici da riforestare. Insomma se i tempi da qui al 2030 sono strettissimi, l’approntamento di tutto quanto occorrerebbe per la pianificazione, per la raccolta e propagazione dei genotipi autoctoni nei vari luoghi del Pianeta, occupa buona parte di tale tempo, così da arrivare al fatidico 2030 – se fossero fatti sforzi giusti ed imponenti – avendo alberelli piccolissimi la cui superficie fotosintetica sarebbe di scarsa rilevanza per gli scopi di mitigazione climatica che si vorrebbero conseguire.

Anche in questa proposta rispetto alla questione climatica non viene considerato il fattore “tempo” in relazione al fatto che la cattura del carbonio negli ecosistemi forestali non avviene solo a opera della fissazione nel legno: quantitativi altrettanto importanti vengono fissati nel suolo a livello della lettiera e dell’humus e parte finisce nel ciclo dell’acqua sottoforma di ione bicarbonato. Ciò è significativo nelle foreste evolute (ragione fondamentale perché vengano conservate) e per gli alberi adulti, mentre è minimo nei nuovi virgulti.

Le priorità d’intervento andrebbero rivolte nell’immediato alle città e alle aree peri-urbane, per i benefici straordinari che gli alberi forniscono per il contenimento dell’inquinamento atmosferico, delle ondate di calore, per il microclima locale.

CONCLUSIONI

Piantare nuovi alberi è cosa buona e giusta, ma l’efficacia rispetto alla crisi climatica, nei tempi strettissimi di 5- 11 anni a disposizione per contenere il riscaldamento medio globale al di sotto de 1,5 gradi celsius, è di scarsissima rilevanza.

L’operazione è complessa e richiederebbe una quantità di operazioni che, se non improntate a criteri delle scienze ecologiche, rischia di fallire in buona parte o addirittura di produrre danni agli ecosistemi.

Efficacia maggiore, nei tempi a disposizione, è arrestare da subito le deforestazioni in corso e lasciare alla libera evoluzione naturale i boschi di neo-formazione spontanea, eliminare gli incentivi statali all’uso energetico delle biomasse legnose.

Vanno individuati i boschi di tutela, in almeno il 50% del patrimonio forestale nazionale esistente, e disciplinato il prelievo del legno con una selvicoltura ecologica che produca il minor danno possibile ai boschi di produzione. Su tutto va tutelata la biodiversità negli ecosistemi con un’ottica globale attenta anche a tutti i benefici forniti dal mondo delle piante.

Diversamente, i mille miliardi di alberi sono una foglia di fico sulle vergogne dell’inazione dei governi nei confronti della crisi climatica, una suggestiva trovata suadente alle orecchie del pubblico ma demagogica, una promessa d’intenti che si configura come elemento di distrazione di massa.

Occorrono coraggio, creatività, politiche serie ed adeguate e una mobilitazione generale per evitare una catastrofe annunciata sulla Terra, di entità pari a quella dei periodi di guerra, ma stavolta per la pace e maggiore equità. I più validi combattenti, si sa, non sono i bambini: ben vengano quindi gli alberi neonati, infanti verdi, ma non saranno quelli che ci salveranno. Lasciamo lavorare in pace gli alberi adulti che tra l’altro negli ecosistemi sanno cooperare. La crisi climatica si affronta con una molteplicità di azioni da tutte le componenti del vivere e del produrre, e gli alberi sono una delle componenti della soluzione, ma bisogna innanzitutto fermare la deforestazione e il sovrasfruttamento del patrimonio forestale, e programmare eventuali riforestazioni con rigorosi criteri scientifici.

Gli effetti del ceduo sul suolo forestale

Gli effetti del ceduo sul suolo forestale

Il governo a ceduo ha diverse criticità: 1. dopo il taglio, la perdita di suolo e nutrienti per erosione in special modo quando localizzato in zone di pendenza, 2. la perdita di nutrienti con l’asportazione della massa legnosa tagliata. Tutto questo avviene ciclicamente in modo molto ravvicinato ogni 15-20 anni (turni dei cedui) e è particolarmente impattante nei cedui matricinati, di fatto dei tagli rasi con rilascio di qualche pianta, che lascia il terreno scoperto all’azione battente delle piogge. Piogge sempre più violente (nubifragi) a causa dei cambiamenti climatici in atto, con evidente aumento dei rischi erosivi se non addirittura l’innesco di movimenti di massa (frane). Non essendo praticato nessun intervento di reintegro dei nutrienti, neanche nelle situazioni pedoclimatiche più fragili, la perdita di fertilità nel tempo è una costante.  Una tale situazione è in contraddizione con quanto ora si auspica in merito all’impiego delle foreste come accumulatori di CO2 atmosferica e conservazione della biodiversità.

Nella letteratura nazionale pochi, per non dire nessuno (probabile che mi siano sfuggiti), hanno trattato l’argomento delle asportazioni di nutrienti nel corso delle utilizzazioni, in genere e ancor meno in particolare per il ceduo.  L’articolo di André e Ponette (2003), in allegato, tratta l’argomento in questione. In mancanza di una indagine simile su popolamenti forestali nazionali, i risultati del lavoro dei due autori può servire come orientamento generale degli effetti del fenomeno.

Nella tabella che segue sono riassunti alcuni risultati ottenuti da André e Ponette (2003). Si tratta di un ceduo sotto fustaia (fustaia di Quercus petreae, ceduo di Carpinus betulus) dove è stata stimata la concentrazione di alcuni nutrienti nella biomassa epigea, tenendo distinte le varie parti delle piante. Sono riportate le concentrazioni di azoto (N) e fosforo (P). Si rimanda alla pubblicazione per gli approfondimenti.

Le piante di rovere compongono il piano dominante a fustaia, hanno notevoli dimensioni e la loro età è stimata in 100-120 anni. Le 154,4 tonnellate di sostanza secca (t) epigea delle piante di rovere ad ettaro contengono kg 379,8 e kg 28,7 rispettivamente di N e P, le quantità che verrebbero asportate se tutta la massa fosse rimossa. Se invece fossero asportati solo i tronchi scortecciati verrebbe asportato solo il 26% di N (kg 99,2) e il 15% di P (kg 4,4) corrispondenti al 50,7 % (t 78,2) della massa epigea, quella di maggior valore mercantile. Questo è dovuto al fatto che il durame ha una concentrazione bassissima di N e P. In ognuna delle 60 t di durame ci sono mediamente kg 0,97 di N e 0,01 di P. Nell’alburno mediamente sono maggiori (kg 2,26 N e kg 0,22 P) e ancora di più nella corteccia (kg 5,68 N e kg 0,48 P). Sappiamo che maggiori sono i diametri maggiore sarà la percentuale di durame in quanto legata all’età della pianta. Inoltre fino a certi diametri piante anche di notevoli dimensioni possono essere scortecciate direttamente al momento del taglio con mezzi meccanici (bracci idraulici muniti di cesoie che tagliano, sramano, scortecciano e depezzano) oppure manualmente, lasciando sul letto di caduta le parti eliminate asportando solo il durame e l’alburno.

È improbabile che la legna da ardere venga scortecciata e impossibile il legno cippato. Ma è proprio la massa legnosa di minor diametro quella che ha la maggior concentrazione di N e P. I rami di rovere su una biomassa di t 69,0 che insieme alle t 7,1 della corteccia corrispondono a poco meno del 50% della totale epigea, contengono kg 280,3 di N e kg 24,3 di P, quasi 3 volte in più di N e 6 volte di P dei tronchi del fusto scortecciato. Se riportiamo il dato ad 1 t, vediamo che in 1 t di rami più corteccia vi sono kg 3,7 di N e kg 0,31 di P.  Ipoteticamente, visto che stiamo parlando di materiale legnoso ottenibile con turni molto lunghi (le piante hanno mediamente 100-120 anni), possiamo ipotizzare che nel corso di un secolo l’azotofissazione dei batteri possa compensare la perdita di N (tutto da dimostrare).  A questa possiamo supporre che vi possa essere anche un apporto con le piogge e, in particolari situazioni edafiche e di giacitura, da falda superficiale (2-3 metri), da esondazioni, da polveri del deserto. Per il P è molto più difficile in quanto non esiste la fissazione batterica né pioggia, possono sussistere le altre 3 possibilità ma solo in situazioni ancora più ipotetiche che per l’N.

Se consideriamo il caso del ceduo, la situazione si fa ancora più difficile. La biomassa epigea di carpino corrisponde a circa t 37 e contiene kg 118,3 di N e circa kg 10 di P, dovuto alle ridotte dimensioni del materiale condizionato dalla giovane età. Se riportiamo il dato a t, in 1 t abbiamo mediamente kg 3,20 di N e kg 0,27 di P, il tutto per ottenere un assortimento di scarso valore mercantile. L’asportazione in questo caso (in Belgio) avviene a cicli di 25-30 anni. La quantità asportata, in 100-120 anni come nel caso della rovere, va moltiplicata almeno per quattro. I tempi di reintegro dei nutrienti per via “naturale” si riducono e la quantità asportata aumenta. Nel caso di un ceduo inoltre, ma anche in quello di una fustaia sottoposta a taglio raso, se posta in pendice, (come capita in Italia frequentemente) dobbiamo considerare la perdita di suolo, di N e P per erosione che avverrà fino a quando non si sarà ricostituito un manto arboreo. L’erosione nel caso di un ceduo è maggiore in quanto avviene a cadenze più ravvicinate di una fustaia specialmente nei casi in cui i turni sono più brevi (15-20 anni). Inoltre in caso di cedui su pendice l’ipotesi che si possano avere apporti di N e P per esondazione è nulla, per falda superficiale molto improbabile, specialmente in certi contesti geologici (vedi terreni derivati da calcare fessurato).

In particolare per il P l’adozione di sistemi selvicolturali che riducano al minimo la sua asportazione sarebbe auspicabile, visto che tradizionalmente non sono previste concimazioni se non qualche volta al momento della piantagione. In questa ottica conservativa appare manifesto che il ceduo, in particolare quello matricinato, è una pratica che dovrebbe essere superata e sostituita dalla fustaia, come dovrebbe essere superato il taglio raso. Inoltre, sempre nella stessa ottica, l’asportazione dovrebbe essere solo di piante in cui sia elevata la presenza di durame e che siano scortecciabili sul letto di caduta. È evidente che queste indicazioni di massima dovrebbero essere contestualizzate in base alle condizioni edafiche e di giacitura ma dovrebbero essere la linea generale.

Abbiamo bisogno di legno (legname da opera) per manufatti duraturi che conservino la CO2 nel tempo, non per bruciarlo. Se proprio non si può fare a meno di legno da bruciare, almeno usiamo i residui a cascata di quello di scarto prodotto della lavorazione di quello da opera.  Per produrre energia termica ed ancora di più elettrica abbiamo molte alternative alla biomassa.

André F., PonetteQ. 2003 Comparison of biomass and nutrient content between oak (Quercus petraea) and hornbeam (Carpinus betulus) trees in a coppice-with-standards stand in Chimay (Belgium) UniversitéAnn. For. Sci. 60 (2003) 489–502 489 © INRA, EDP Sciences, 2003  DOI: 10.1051/forest:2003042

Le proposte dell’Europa sulle bioenergie sono solo vuota retorica verde

Le proposte dell’Europa sulle bioenergie sono solo vuota retorica verde

La Direttiva europea sulle energie rinnovabili non protegge il clima, le foreste e la salute umana

La Forest Defenders Alliance, gruppo di associazioni che proteggono le foreste di cui fa parte l’italiana GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane, esprime forte delusione per quanto emerso nelle bozze della Direttiva sulle Energie Rinnovabili (RED). Nonostante la forte opposizione di oltre 100 associazioni, di molti scienziati e di oltre 250mila cittadini, la Commissione Europea continua a promuovere la combustione del legno delle nostre foreste per produrre energia.

Parte del pacchetto “Fit for 55”, la revisione della direttiva dovrebbe contribuire al raggiungimento degli obiettivi europei di riduzione del 55% delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030.

La combustione di biomasse forestali è fortemente controversa perché emette più CO2 per unità di energia rispetto ai combustibili fossili, e gli stessi scienziati della Commissione Europea hanno riconosciuto che le foreste ricrescono troppo lentamente per compensare le emissioni causate dalla combustione del loro legno nel lasso di tempo che l’Europa si è data per il contenimento delle emissioni.

La scienza ha da tempo lanciato l’allarme: l’intensificarsi dei tagli boschivi per la produzione di biomasse a uso energetico sta danneggiando gravemente le nostre foreste, e gli scienziati chiedono di cambiare lo status delle biomasse forestali all’interno della direttiva europea, smettendo di considerarle una fonte rinnovabile.

Le associazioni temono che la nuova direttiva non riduca la pressione e lo sfruttamento intensivo delle foreste, come invece sarebbe indispensabile fare per permettere il ripristino degli ecosistemi e la mitigazione del cambiamento climatico, e che la prolungata dipendenza dalla combustione di legno non consentirà all’UE di ridurre le emissioni climalteranti.

Le modifiche della nuova direttiva rispetto a quella precedente sono:

  • Gli stati membri della UE non potranno più dare incentivi per l’utilizzo a scopo energetico di legname di qualità, ceppaie e radici. Ma, secondo quanto dichiarato dalla stessa Commissione Europea, questi materiali costituiscono solo una piccola parte delle biomasse forestali utilizzate per la produzione di energia
  • A partire dal 2027, gli stati membri non potranno più dare incentivi a impianti a biomasse forestali che producano esclusivamente energia elettrica, a eccezione delle centrali che si trovano in regioni particolarmente dipendenti dai combustibili fossili, o che utilizzino sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Il provvedimento però consente di continuare a bruciare biomasse forestali all’interno di vecchie centrali a carbone, in particolare nei paesi europei fortemente dipendenti dal carbone.
  • La Commissione Europea adotterò un atto delegato sull’applicazione del principio a cascata delle biomasse, e su come ridurre l’utilizzo di legname di qualità per la produzione di energia. Si tratta di un passo nella giusta direzione, che riconosce l’importanza di dare priorità agli utilizzi nobili del legno rispetto alla combustione per produzione di energia, ma si tratta solo di un piccolo passo, in quanto circa metà del legno prodotto in europa viene bruciato a scopi energetici, e le modifiche alla direttiva non fanno nulla per affrontare questo problema
  • Cambiano i criteri di sostenibilità della direttiva RED, che nella revisione chiedono che gli interventi di taglio tengano in considerazione il mantenimento la qualità del suolo e la biodiversità, evitando il prelievo di ceppaie e radici, salvaguardando le foreste primarie, evitando la conversione da foresta a piantagione di alberi, minimizzando i tagli a raso estensivi e incoraggiando il rilascio di legno morto sul sito di taglio. Queste direttive, però, riguardano solo una piccola parte del legno bruciato per scopi energetici, in quanto le foreste primarie costituiscono solo il 3% delle foreste europee, mentre le ceppaie e le radici già adesso raramente vengono utilizzate per la produzione di energia.  
  • La nuova direttiva impone criteri di sostenibilità alle centrali al di sopra di 5MW, soglia che prima era fissata a 20MW. Purtroppo, questi criteri di sostenibilità non affrontano il problema centrale, ovvero che la raccolta e combustione del legno per produrre energia aumenta le emissioni e compromette le foreste. Mentre la strategia europea per la biodiversità chiede di ridurre lo sfruttamento delle foreste, nessuna delle modifiche proposte alla RED va nella direzione di una riduzione della raccolta del legno. Al pari della versione precedente della direttiva, il nuovo documento persiste nel sostenere che la combustione di biomasse forestali riduce le emissioni in confronto all’utilizzo dei combustibili fossili, ignorando quanto affermato dagli stessi scienziati della Commissione Europea.

L’aumento della quota di energia rinnovabile a scapito delle foreste è un errore di proporzioni globali. Quando la UE sostiene di ridurre l’utilizzo di combustibili fossili e le emissioni, ma brucia sempre più foreste, l’unico risultato è l’aumento delle emissioni e il deterioramento delle foreste europee.

È tragico che la Commissione Europea non abbia colto l’opportunità di fare una riforma significativa della sua politica sulle biomasse. Il rifiuto dei politici europei di riconoscere i fatti scientifici sull’utilizzo delle biomasse forestali è paragonabile al negazionismo sul cambiamento climatico.

La Commissione ha compreso che gli incentivi alla combustione di legname di qualità vanno ridotti. Ora la stessa logica deve essere applicata a tutta la biomassa forestale, in quanto la combustione di tutte le qualità di legno aumenta le emissioni su lassi di tempo rilevanti per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico. L’industria delle bioenergie sta facendo enormi guadagni a spese dei contribuenti europei, che pagano inconsapevolmente per il taglio e la combustione degli alberi e la distruzione delle ultime aree verdi. Significativa in questo senso è la lettera inviata pochi giorni fa dalle associazioni italiane del settore delle bioenergie ai ministri Patuanelli e Cingolani, che, criticando la Strategia Forestale Europea, sostiene che la filiera legno-energia sia sostenibile e contribuisca alla lotta contro il cambiamento climatico e chiedendo un maggiore spazio (e, presumibilmente, maggiori incentivi) per le bioenergie. È completamente da respingere la richiesta delle associazioni del settore delle bionergie di considerare la gestione forestale una questione di pertinenza nazionale. Il riscaldamento climatico e la perdita di habitat e biodiversità sono fenomeni globali e che impongono di ragionare a livello globale.

Qualunque tipo di legno venga bruciato, lo sfruttamento intensivo delle foreste per la produzione di energia danneggia gli ecosistemi forestali e la loro biodiversità. La revisione della direttiva RED vieta i tagli nelle foreste primarie, ma dato che queste ultime costituiscono solo il 3% del patrimonio forestale europeo, la direttiva lascia senza protezione il restante 97%.

In un momento di crisi climatica e rapida estinzione delle specie, non è più possibile tollerare altri passi falsi nella gestione delle foreste e nella produzione di energia. La rapida estinzione di moltissime specie, molte non ancora adeguatamente studiate, è letale per l’umanità al pari del cambiamento climatico. Se non ci concentriamo da subito sulle energie realmente rinnovabili come il sole e il vento, ma continuiamo a distruggere foreste, perderemo per sempre un numero inaccettabile di habitat e specie, e con loro tutti i benefici ecosistemici che questi offrono all’umanità.

Le foreste sono molto di più che alleate contro la crisi climatica. La loro presenza è fondamentale per la nostra salute: le foreste mantengono pure l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo. La triste realtà è che finora le politiche europee hanno incoraggiato la combustione del legno delle nostre foreste e accelerato il deterioramento del patrimonio forestale europeo. Per rimediare ai danni fatti è necessaria una riduzione dello sfruttamento delle foreste per la produzione di legname, ma la revisione della direttiva RED non porterà a questo.

Le foreste non sono rinnovabili, sono ecosistemi che possono essere ripristinati ma non ricreati. Si possono piantare alberi, ma non si possono ricreare foreste. Abbiamo bisogno di bruciare meno legna e di meno monoculture forestali.

Un modo efficace per ridurre la conversione delle foreste in monoculture è rimuovere gli incentivi che stanno trainando la domanda di legname per le centrali a biomasse forestali. Invece, la Commissione Europea sceglie di supportare sia l’offsetting che l’energia dalla combustione di biomasse forestali.

“Fit For 55” non protegge a sufficienza le foreste e non contrasta in modo adeguato il cambiamento climatico. Abbiamo un bisogno disperato di politiche oneste che includano tutte le emissioni nelle nostre statistiche. Chiediamo ai membri del Parlamento Europeo di essere all’altezza della situazione quando toccherà a loro votare.

Le biomasse forestali pongono inoltre gravi problemi di inquinamento dell’aria e costituiscono una minaccia alla salute umana. La combustione di legna produce grandi quantità di polveri sottili, che secondo le stime uccidono circa 400mila europei ogni anno. La combustione di legno emette anche carbonio, azoto, metalli pesanti, mercurio e furani. Questo tema è stato completamente ignorato nella proposta di modifica della direttiva RED.

È quindi vitale che l’Europa riduca rapidamente la sua dipendenza dalle foreste per produrre combustibile, rimuovendo le biomasse forestali dalle energie rinnovabili. Le associazioni si appellano al Consiglio Europeo e al Parlamento Europeo affinché fermino lo sfruttamento intensivo delle foreste a scopi energetici e si assicurino che i target di energia pulita vengano raggiunti tramite tecnologie realmente pulite e a basse emissioni.

Calce nel Mediterraneo per combattere la crisi climatica? Le nostre serie perplessità

Calce nel Mediterraneo per combattere la crisi climatica? Le nostre serie perplessità

Non è un film che ricorda Fritzcarraldo (di Herzog, 1982) ove l’eroico inseguimento della realizzazione di un sogno colossale viene portato avanti ad ogni costo e a prezzo di sacrifici incredibili.  E’ una proposta vera che a noi non convince.    
Il 5 di Febbraio un’equipe del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca finalizzata ad abbattere l’eccesso di CO2 in atmosfera per contrastare la crisi climatica:  il metodo sarebbe quello di spandere nell’intero mar Mediterraneo e in prospettiva negli oceani del pianeta Terra, magari approfittando di un “passaggio” offerto dalle navi che attualmente  viaggiamo per il globo, calce idrata (idrossido di Calcio)

Vediamone i fondamenti.

 L’anidride carbonica, si sa, è in massima parte assorbita dai mari e dagli oceani non solo perchè in quanto gas si discioglie in acqua ma anche perché reagendo con essa, in buona misura cambia stato: smette di essere gas e si trasforma in acido carbonico. Questo si ionizza dando luogo a una reazione di equilibrio che complessivamente può essere così rappresentata:  CO2 + H2O ↔ H2CO↔  H+   + 2 HCO3 .  In pratica la CO2 non si comporta come un gas qualsiasi, ad esempio al pari dell’ossigeno, che si scioglie in acqua fino a quando la sua concentrazione è arrivata a saturazione (per la legge di Henry) e resta lì come ossigeno disciolto.  La reattività  della CO2 una volta entrata in acqua la fa sparire dallo stato gassoso, in quantitativi significativi, e la fa trasformare soprattutto in ione idrocarbonico (vale a dire in bicarbonato) così liberando “spazio” per lo scioglimento in acqua di altra anidride carbonica. Se a questo equilibrio sottraiamo lo ione idrocarbonico, realizziamo una forzante per cui altra CO2 verrà assorbita dall’aria, e andrà a disciogliersi in quelle acque ove si è liberato spazio. In definitiva tanto più sottraiamo ione idrocarbonico dai nostri mari e tanto più liberiamo spazio perché questi possano assorbire CO2. Ma come sottrarre, a costi non proibitivi in assoluto, lo ione idrocarbonico? Semplice, lo sappiamo da oltre un secolo: basterebbe somministrare calce per trasformarlo in Carbonato di Calcio:  

                                                                               Ca(OH)2  + H2CO3    → CaCO3   +  2 H2O .

                                                                  Calce spenta+ ac. Carbonico → Carbonato di Calcio  + acqua

In questo modo il carbonato di Calcio, insolubile, precipiterebbe verso i fondali.

Fin qui sembra tutto facile ma la fattibilità è altra cosa. Gli stessi autori della ricerca, Stefano Caserini, noto per il suo impegno nella lotta alla crisi climatica, e Mario Grosso, dicono che occorrono altre ricerche, anche in relazione all’impatto ambientale.

Le nostre severe perplessità riguardano:

Il materiale di base.  

Per produrre calce, in quantitativi così elevati, occorrerebbe realizzare cave gigantesche di roccia carbonatica. Forse servirebbero montagne intere. E conseguenti impiego di esplosivi, di macchine operatrici, di camion per il trasporto, di mulini di triturazione, il tutto per tempi lunghissimi.

La produzione della calce (Ossido di Calcio) richiede tantissima energia.

L’idrossido di calcio si ottiene dalla calce e questa a sua volta si ottiene “cuocendo” la roccia carbonatica frantumata, a 900-1000° C:  dove prendiamo l’imponente quantitativo di energia necessaria?  Se la risposta fosse (com’era stato ventilato per quella ricerca) che la prendiamo dalle biomasse forestali, siamo di fronte ad un assunto errato secondo cui bruciare legna sarebbe a bilancio neutro rispetto alla CO2; sappiamo che non è così: questa è una pratica fortemente emissiva, climalterante oltre che tra le più inquinanti. E sottrarrebbe alla terraferma gran parte delle foreste che assorbono – gratuitamente- CO2 fissandola a terra nel legno, nelle radici, nella lettiera, nell’humus (la maggior parte!) e nel ciclo sotterraneo delle acque.  Occorre tenere in conto, rispetto alla questione climatica, anche e soprattutto il fattore tempo: quando bruciamo un albero di 70 anni, ad esempio, le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono praticamente immediate e andiamo a peggiorare la situazione climatica  già alterata… ma perché un albero piantato per sostituire quello bruciato  possa svolgere la stessa funzione di assorbimento di CO2, occorre che cresca, che passino svariati decenni e noi tutto questo tempo per agire non lo abbiamo.  E’ necessario ridurre ora le emissioni. Per non parlare del disastro che si avrebbe ai danni della biodiversità e degli ecosistemi connessi.

La cottura delle rocce libera essa stessa tanta CO2

CaCO3 + calore → CaO   + CO2

Ovvero: ogni molecola di calce viva (CO da cui si ricava l’idrossido di Calcio) prodotta, ne libera una di anidride carbonica!  In termini di massa questo vuol dire che ogni tonnellata di calce viva prodotta libera 846 chilogrammi di CO2.   Questa emissione andrebbe ad aggiungersi a quella prodotta per il calore. E’ evidente che occorrerebbe trovare un sistema aggiuntivo (dispendioso e costoso) per sequestrare questa produzione imponente di CO2 che per certo non può essere liberata in atmosfera. Che farne? Iniettarla, attivando compressori (energivori)  nelle profondità della terra? Magari in suoli vulcanici che la immobilizzano? In quantitativi imponenti, ove troviamo tanto spazio di deposito?

La trasformazione dell’ossido di Calcio in calce idrataè anch’essa problematica.

È una reazione semplice (basta immettere l’ossido di calcio nell’acqua) ma piuttosto violenta, che libera forti quantità di calore e quindi occorrerebbero impianti adeguati da cui magari si potrebbe recuperare il calore prodotto.  Poi l’idrossido di calcio dev’essere trasportato fino alle navi e poi per i mari  (tal quale, così  trasportando anche l’acqua con i relativi costi? Oppure disidratato ma a spese di altre fonti di energia per essere poi reidratato in mare?). 

Lo spandimento in mare non garantisce una omogeneizzazione della calce su larghe superfici.

Si rischia di avere aree ad alta concentrazione di calce che danneggi la flora e la fauna marina pelagiche. La diffusione, si sa, è un fenomeno lentissimo e questo rischio è assai concreto soprattutto in condizioni di mare calmo.

Il rischio di inquinamento da materiali solidi in sospensione e poi sedimentabili.

Come esito dello spandimento della calce si produce carbonato di calcio, praticamente insolubile, che tende a precipitare assai lentamente.  In definitiva in mare si formerebbe una polvere sottilissima, biancastra, della stessa natura chimica della roccia finemente triturata fino a livello molecolare, che tende a stratificare nel tempo verso il fondo. Questa polvere tende ad aggregarsi come avviene in natura quando si formano rocce sedimentarie.  Il rischio più forte che questo fenomeno potrebbe produrre è quello di seppellire  le forme di vita bentonica ma, ancora di più, di intasare le branchie e gli apparati respiratori di tutti gli organismi filtratori.  I molluschi lamellibranchi, ad esempio, sono sensibilissimi ai fenomeni di inquinamento fisico che comportino il cambio della granulometria dei fondali in cui sono immersi o ancorati e la loro scomparsa per soffocamento si rifletterebbe fino a vertici delle catene e delle reti alimentari.

Si andrebbe ad agire su un equilibrio planetario: occorre molta cautela.

Lo ione idrocarbonico contribuisce a contrastare le modifiche di pH delle acque: è in definitiva un “tampone”. L’immissione di calce effettivamente correggerebbe l’acidificazione che la CO2 ha prodotto nei nostri mari con danni incredibili in atto, i cui effetti più vistosi sono riscontrabili nello sbiancamento delle barriere coralline e morte dei coralli.  Ma questa “correzione”, peraltro di dimensioni planetarie, richiederebbe ingentissimi quantitativi di idrossido di Calcio e poi ha un punto di arrivo certo, giusto e misurabile come riferimento?

Problemi di diritto internazionale.

Agire su mari che bagnano una moltitudine di nazioni, con una operazione di scala planetaria, non è cosa facile: non c’è solo la questione dei costi su cui la ricerca appare concentrata, ma occorrerebbero consensi vastissimi, convenzioni e collaborazioni difficilmente ottenibili.  Inoltre tutta quella calce occorrente non sarebbe producibile solo in Italia…

CONCLUSIONI

Con tutto il rispetto per la Ricerca che noi di GUFI sosteniamo e riteniamo non sia mai abbastanza, e con il sincero rispetto per persone come Caserini e Grosso impegnati come pochi nella lotta alla crisi climatica, riteniamo che la strada intrapresa sconti un peccato di riduzionismo, sia francamente eccessiva nei propositi e che rechi un rischio aggiuntivo, che sarebbe epocale, per le nostre foreste qualora fossero confermate come fonte energetica.  I boschi e le foreste non sono un insieme di alberi e serbatoio di energia producibile come calore: sono ecosistemi che regolano la vita di tutta la Terra. Noi riteniamo che gli alberi, i boschi e le foreste evolute siano invece i nostri principali alleati nella lotta al riscaldamento globale. E che quindi vadano lasciati il più possibile a svolgere le loro funzioni ecologiche, e i loro benefici ecosistemici, anche sulla salute.