Le piante delle sponde: la vegetazione ripariale

Le piante delle sponde: la vegetazione ripariale

di Giovanni Damiani – pubblicato sul Volume 2 di Simbiosi Magazine (https://www.simbiosimagazine.it/)

La vegetazione spontanea che si insedia lungo le rive dei fiumi, torrenti e ruscelli, viene chiamata “ripariale”.  La sua struttura forestale è condizionata principalmente dalla vicinanza all’acqua. La troviamo pertanto anche sulle rive dei laghi, degli stagni e in zone umide o soggette ad allagamento e dove la falda freatica è raggiungibile dalle radici delle piante. La componente arborea è costituita, in Italia, soprattutto dalle Salicaceae, una grande famiglia che include tutti i pioppi e i salici. Essa è una componente fondamentale degli ecosistemi fluviali e ha caratteristiche molto particolari, acquisite nel corso dell’evoluzione naturale in prossimità all’acqua, del flusso della corrente, del regime idrologico e, non ultimo, dal clima.

Parliamo infatti di piante che hanno la capacità di avere il proprio apparato radicale in immersione perenne o per lunghi periodi nell’acqua, senza che le radici marciscano, e per questo vengono chiamate “freatofite”. Questa è una caratteristica importante, perché la falda freatica in prossimità di un corso d’acqua o di un lago è quasi sempre affiorante o giacente a poche decine di centimetri di profondità.  Gli ambienti di acque correnti poi sono soggetti a scariche di piene e a esondazioni, con energie fortissime che tendono a trascinare via ogni cosa.  Vicino a essi nessuna specie arborea a legname duro e rigido e che non abbia un solido ancoraggio nel terreno potrebbe sopravvivere e prosperare: a ogni piena le piante verrebbero spezzate ed eliminate fin dalla giovane età.  

L’energia cinetica delle acque nel corso dell’evoluzione ha quindi avvantaggiato il tipo di vegetazione particolare adatta a vivere in un ambiente tanto ostile grazie alla flessibilità estrema dei rami e dei giovani tronchi, alla loro resistenza eccezionale alla trazione (vale a dire allo strappo), con solido ancoraggio a terra garantito da apparati radicali assai sviluppati, con diverse ed efficienti modalità di riproduzione e ad accrescimento rapidissimo adatto a fronteggiare i diversi regimi stagionali delle acque. 

Salici e pioppi si riproducono infatti facilmente per polloni e per talea (riproduzione agamica, che praticamente è una clonazione). Attecchiscono con questa modalità anche in luoghi lontani da quello d’origine, perché un tronco sradicato da una piena o dal vento o un ramo verde spezzato e caduto in acqua può dare vita a un nuovo albero anche a molti chilometri di distanza dove sarà stato portato e depositato dalla corrente, in genere presso un’ansa.

Anche la riproduzione sessuata è molto particolare rispetto ad altre essenze forestali. I semi dei pioppi e dei salici, infatti, sono assai minuscoli e leggerissimi. Il frutto è una capsula che contiene semi a forma di bastoncino, in genere in numero di 8 – 10, esili, lunghi uno o due millimetri, privi di albume e quindi  praticamente pressoché privi sostanze nutritive di riserva a differenza, ad esempio, dei frutti dei faggi (fagìole) o delle ghiande delle querce. Essi sono in grado di germinare immediatamente dopo essere stati emessi ma possono restare vitali, in quiescenza,  per un periodo limitato, in genere solo di qualche mese, trascorsi i quali muoiono. I piccolissimi embrioni possono germinare poi solo in condizioni di suoli con elevata umidità. I generi Salix e Populu sono dotati tuttavia di semi non molto longevi.

Le Salicacee sono soggette, in generale, a facile ibridazione. Non è un limite al successo della loro riproduzione sessuale…anzi.  Queste piante infatti impiegano la propria energia vitale per produrre una straordinaria quantità di semi, come possiamo vedere comunemente nei pioppi. Questi sono piante a sessi separati e gli esemplari femminili producono i propri embrioni leggerissimi, circondati da un arillo cotonoso espanso (comunemente chiamati “pappi”), in quantità straordinarie; questi si disperdono “veleggiando” nell’aria e possono essere trasportati dal vento a distanze incredibili; tuttavia per queste piante la modalità di propagazione aerea non è la sola a disposizione, perché ve ne è un’altra che potremmo definire di  “microfluitazione” o di “drift”. Parliamo dei pappi depositatisi sull’acqua dei fiumi, galleggiando sulla superficie, che vengono trasportati a valle e in buona parte terminano il loro viaggio col posarsi su qualche parte del greto ove i semi possono germinare.  Stocasticamente con questa strategia saranno molti i semi “fortunati” che troveranno condizioni idonee di sviluppo, iniziando ad emettere immediatamente una radichetta embrionale che diviene poi un fittone che si accresce in pochi giorni. Così, quando nel nostro clima mediterraneo arrivano le piogge e le piene autunnali-invernali, le plantule che hanno germinato per prima, flessibilissime, e che hanno già acquisito un ancoraggio radicale di 30 – 40 cm o più, piegandosi nella corrente divenuta forte minimizzano la propria esposizione all’acqua, riuscendo a non essere estirpate. 

Tutta la struttura dell’albero sembra adattata allo scopo di una grande produzione di semi e a un accrescimento veloce. Il polline ad esempio è molto piccolo (25-30 millesimi di millimetro) ma molto abbondante e l’impollinazione può essere sia anemofila che entomofila. Osserviamo la foglia di un pioppo: ha un picciolo ben allungato, schiacciato lateralmente, con elasticità “giusta” perché possa oscillare su un piano sub-orizzontale al minimo spirare del vento. L’albero così può permettersi di avere tante foglie a lamine larghe che, come ogni altro albero, sono disposte per captare quanta più luce ma, nel nostro caso, c’è un vantaggio in più dovuto alla facilità e al “tipo” di movimento che fanno sì che  molta luce solare possa filtrare anche negli strati di fogliame inferiori che viceversa rimarrebbero in semi-ombra. Questa particolarità fornisce all’albero maggiore capacità fotosintetica, un “motore biologico turbo” che è alla base della notevole velocità di accrescimento. Vista da lontano la massa delle foglie di un pioppo che oscillano al vento richiama alla mente il brulichio di una folla umana in un mercato o una festa padronale di paese: viene attribuito a questa similitudine il termine  del genere , “Populus” (popolo).  La flessibilità dei rami dei salici è tale che viene sfruttata fin dall’antichità per realizzare, intrecciati finemente, cesti assai leggeri e resistenti, nasse per la pesca fluviale e, in passato, persino per ponti per l’attraversamento dei corsi d’acqua, chiamati “ponti di fascine”. 

In definitiva queste piante assommano in sé una molteplicità di strategie di riproduzione, di crescita e di adattamento che ne determina il successo evolutivo. Se è vero che la presenza del fiume con i suoi episodi di violenza ha determinato la selezione delle caratteristiche uniche di questa vegetazione, è altrettanto vero che essa ha determinato l’aspetto fisico e morfologico dell’ambiente fluviale e del paesaggio. Se non ci fosse questa vegetazione (unitamente a quella erbacea come Fragmites, Tipha, Carex, Scirpus che hanno le medesime caratteristiche di ancoraggio radicale, flessibilità e di resistenza allo strappo), i nostri corsi d’acqua apparirebbero come desolati canali con le ripe franose simili ai canyon del Rio Grande: la violenza delle acque avrebbe eroso, scavato e desertificato tutto l’immediato intorno. 

La vegetazione riparia svolge diverse funzioni essenziali negli ecosistemi acquatici.  Innanzitutto è un efficace filtro -tampone protettivo della qualità dell’acqua. La lettiera riparia è assai spessa, soffice e umificata, in grado di bloccare quasi tutto quello che le acque meteoriche, ruscellando superficialmente, erodono dai terreni circostanti, inclusi gli inquinanti diffusi che vengono trappolati, degradati o, per gli inquinanti persistenti come i metalli pesanti, resi non biodisponibili. Il pabulum microbico della lettiera e dell’humus riesce a scomporre in tempi bevi anche sostanze organiche xenobiotiche normalmente resistenti alla biodegradazione. Un fiume che ha la sua vegetazione integra, inoltre, presenta generalmente acque limpide perché è ridotta o completamente bloccata l’erosione meteorica superficiale dei terreni circostanti.  .  

Inoltre le foglie che in autunno cadono in acqua hanno un ruolo ecologico importantissimo per la vita fluviale: quelle dei pioppi e dei salici sono particolari: presto si rigonfiano divenendo più tenere, poi divengono color marrone perché colonizzate al loro interno da microfunghi che le arricchiscono di elementi nutritivi, e infine costituiscono una dieta ottimale per l’intera copiosa comunità degli organismi invertebrati acquatici detritivori che sono a loro volta alla base, ad esempio, dell’alimentazione dei pesci, del merlo acquaiolo, dell’avifauna limicola e degli anfibi. Gran parte degli apporti trofici negli ecosistemi fluviali deriva dalla vegetazione di sponda, piuttosto che dagli organismi fotosintetici che vivono immersi nella corrente. 

Le funzioni importantissime della vegetazione riparia nell’ecologia fluviale sono ancora tante. Ne fornisco un rapido accenno. Essa fornisce ombreggiamento limitando, nei tratti di alveo fotosintetici, l’eccesso di proliferazione algale e l’abbagliamento delle specie animali che non amano la luce diretta come molti invertebrati e le trote (che sono sprovviste di palpebre) e che predano gli invertebrati.  Protegge inoltre l’acqua dal riscaldamento, sia con la propria ombra e sia per l’evapotraspirazione che è piuttosto elevata; bisogna richiamare il fenomeno fisico per cui il cambiamento di stato dell’acqua da liquida a vapore avviene a spese dell’energia sottratta all’ambiente esterno, cosicchè l’evapotraspirazione funziona come un condizionatore che riduce la temperatura ambientale. Le basse temperature favoriscono un adeguato tenore di ossigeno disciolto a tutto vantaggio per la vita acquatica. La vegetazione dei corsi d’acqua realizza microhabitat per una moltitudine di organismi e favorisce un’elevatissima biodiversità entro l’acqua e sulle sponde; le radici flottanti degli alberi sono microhabitat per molte specie e zone di rifugio per i pesci. È una vegetazione che consolida e stabilizza le sponde, contrastandone l’erosione e il franamento che causano l’interrimento accelerato di zone fluviali di pianura.  Con la sua “rugosità”, unitamente alla vegetazione erbacea e ai salici arbustivi, frena l’impeto della corrente, trattiene più a lungo l’acqua sul territorio mitigando le piene, aumentando i “i tempi di corrivazione” e in definitiva svolgendo un’imponente azione di regimazione che contrasta il rischio idrogeologico. Il permanere dell’acqua rallentata sul territorio inoltre ne favorisce l’infiltrazione laterale e la diffusione all’interno i ghiaioni permeabili delle sponde e quindi la ricarica delle falde.  

La vegetazione riparia intrappola i nutrienti il cui eccesso è assai nocivo per le acque e, per quanto riguarda quelli azotati, attraverso le reazioni nitro-denitro li scompone fino al livello di azoto elementare che viene restituito all’atmosfera. Favorisce inoltre la transizione acqua – terra di specie animali: insetti come le libellule, le effimere, svariate famiglie di ditteri, ma anche vertebrati come tutti gli anfibi, molti rettili… Lo svolgersi del ciclo della materia, tanto più efficace quando maggiore è la biodiversità nell’ecosistema, aumenta l’efficienza dell’autodepurazione biologica tipica delle acque correnti e la cui “funzionalità” è oggi alla base delle finalità della normativa introdotta dalla Direttiva Quadro sulle Acqua (Framework Water Directive 60/2000/CE e della normativa italiana D.Lsl 152/2006 e s.m.i.). 

La fascia ecotonale acqua-terra perennemente umida o di acque bassissime o a inondazione periodica, ricca anche di vegetazione erbacea che ha le radici o i rizomi immersi nell’acqua e la parte restante aerea, come la cannuccia d’acqua, le tife e i carici (chiamata “elofitica”) è quella a più alta efficienza autodepurativa. Questi ambienti infatti vengono oggi “copiati” e riprodotti artificialmente, come veri e propri impianti di depurazione degli scarichi fognari che in Italia sono noti come “fitodepuratori”, raccomandati peraltro dalla normativa per le caratteristiche di basso impatto ambientale e alta efficienza, economicità di gestione e perfetto inserimento nel paesaggio in cui risultano non percepiti alla vista. 

Le fasce ripariali costituiscono i principali habitat di rifugio per la fauna e sono “corridoi ecologici” naturali del territorio per i mammiferi lungo le sponde, per l’avifauna migratrice che memorizza, per orientarsi, le linee dei corsi d’acqua come riferimenti geografici, mentre all’interno delle acque il corridoio fluviale consente le migrazioni interne dei pesci. 

Alcuni ricercatori che studiano gli ambienti fluviali e le zone umide (wetlands) hanno definito questi ambienti “supermarkets of biodiversity”: ambienti ricchissimi di specie. Essi, per gli aspetti della biodiversità,  sono la nostra “Amazzonia”.  Quanto conta la vegetazione riparia sulla buona dotazione di biodiversità, sulla stabilità ecosistemica, sulla resilienza e sulla “funzionalità”, aspetti che garantiscono insieme anche benefici ecosistemici, è cosa che sfugge alla normale comprensione. Cito un esempio illuminante. In Abruzzo fiumi di acque sorgive oligominerali, purissime, come il Vera (Paganica-L’Aquila), il Tirino superiore (Bussi e Capestrano- Pescara) hanno livelli naturalità elevati e di biodiversità straordinari, con presenza di specie rare, come plecotteri, estinti altrove per la loro sensibilità ai disturbi ambientali, ed endemismi. A pochi chilometri nello stesso areale il fiume Giardino (la cui portata è ridotta a causa di captazione della sorgente ad uso acquedottistico), con acque oligomineali e perenni, è privo della quasi totalità delle specie rispetto ai predetti fiumi. 
La differenza sta nel fatto che il Vera e il Tirino superiore hanno ripe vegetate ed alveo naturali, mentre il Giardino ha sponde prive di qualsiasi vegetazione arborea e sponde ed alveo sistemati con il cemento. Quanti danni fanno le sistemazioni degli alvei e delle sponde con il cemento e con  le gabbionate, le cosiddette “regolarizzazioni” di corsi d’acqua, i tagli indiscriminati della vegetazione riparia, che ancora oggi vengono effettuate, per giunta con denaro pubblico! 

Mentre scrivo un albericidio è in atto nel Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, in provincia dell’Aquila, e stragi simili mi vengono segnalate in Romagna e in altre parti d’Italia. Alla base di queste azioni riprovevoli c’è la frammentazione delle competenze, l’interesse a lucrare sul legname, spesso l’ignoranza spinta di funzionari pubblici che rivestono ruoli-chiave nei processi amministrativi, l’assenza di controlli, autorizzazioni date con leggerezza stravagante, errate convinzioni idrauliche (velocizzare le acque perché non esondino localmente, ma aggravando il rischio idraulico a valle), incapacità di cogliere lo spirito e il dettato della Direttiva Quadro Europea delle acque, che ha come obiettivo il ripristino di flora e fauna a un buon livello di integrità ecologica e idromorfologica per garantire il potere autodepurativo degli ambienti acquatici.

La normativa vigente imporrebbe l’esatto contrario di quanto è in atto: la riqualificazione ecologica dei corsi d’acqua, e la restituzione ai fiumi del proprio spazio vitale. Ma questa è materia per un altro articolo. Ovviamente lungo i nostri corsi d’acqua non troviamo solo Salicaceae: importante è la presenza, ad esempio, dell’Ontano nero (Alnus glutinosa), del Sambuco (Sambucus nigra) e diverse altre specie tra cui poco noto è probabilmente l’Oleandro (Nerium oleander) che in fiumi della Sardegna dà luogo a fioriture spettacolari. Man mano che ci allontaniamo dall’acqua troviamo alberi a legname sempre più duro, passando per i frassini (Fraxinus excelsior e F. oxycarpa), olmi (Ulmus minor) ma anche aceri campestri, fino ad arrivare, nelle zone oramai abbastanza asciutte, alle querce, ai faggi e altre specie di habitat completamente diverso.  

Che fare per la riqualificazione dei fiumi e il restauro del paesaggio? Tra le tante cose basterebbe solo un provvedimento di effettiva tutela delle sponde per una fascia spessa circa 150 metri, o per quanto possibile, per vedere rinascere o comunque migliorare di molto la qualità dei nostri fiumi e il paesaggio senza spendere un solo euro. La vegetazione riparia infatti è talmente rapida nel ri-colonizzare spontaneamente i suoi spazi e ad accrescersi che in pochissimi anni con la sola tutela avremmo già risultati sorprendenti. 

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SUL DEPOSITO NAZIONALE PER I RIFIUTI RADIOATTIVI 

SUL DEPOSITO NAZIONALE PER I RIFIUTI RADIOATTIVI 

a cura di Giovanni Damiani 

(già Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente e Autorità di sicurezza nucleare e  radioprotezione) 

Premessa 

Il presente documento ha finalità di discussione e confronto. E’ rivolto al pubblico, in particolare al  mondo dell’Associazionismo, e vuole contribuire a fornire un quadro per la comprensione  dell’importanza epocale del percorso avviato per l’individuazione del sito per la costruzione del  Deposito Unico Nazionale per i rifiuti radioattivi italiani. Intende stimolare una partecipazione responsabile e cosciente. Pertanto contiene le informazioni essenziali su questo tema, scritte in  maniera il più possibile piana e chiara, e -soprattutto- formula proposte. Non affronta problemi  più vasti legati alla materia nucleare, quali l’assetto istituzionale italiano, la sproporzione economica  e tecnologica tra nord e sud del Paese, il carico di insediamenti tecnologici e il loro impatto regionale nelle varie situazioni, il tema delle alternative energetiche rinnovabili ed effettivamente sostenibili  che sono urgenti e necessarie per fronteggiare la crisi climatica, sociale, occupazionale ecc.. E’  volutamente monotematico perché possa essere utile oggi, rispetto all’iter in corso, per il  posizionamento del Deposito. Aver recintato l’argomento finalizzato a un preciso -importantissimo passaggio di un iter che in questi mesi costituiscono un appuntamento d’importanza storica, non  significa cedere ad una valutazione riduzionista, ma al contrario, si vuole contribuire ad inquadrare  le scelte attuali , tecniche e politiche, nella loro complessità. 

Il programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi 

In quanto programma è stato sottoposto a procedura di V.A.S. (Valutazione Ambientale Strategica)  conclusa con decreto VAS n. 340 del 10 novembre 2018. Il documento, di 58 pagine, articolato in sette capitoli, è consultabile on line:  

https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/rifiuti_radioattivi/programma_confo rmepdfa.pdf:  

Se ne consiglia la lettura per approfondimenti.  

Il percorso della consultazione 

La Commissione europea nel novembre 2020 ha notificato all’Italia (insieme ad Austria e Croazia)  l’attivazione di una procedura di infrazione per non aver ancora adottato un programma nazionale  per la gestione dei propri rifiuti radioattivi, conformemente alle norme dell’Ue, e in particolare alla  direttiva 2011/70 Euratom sul combustibile esaurito degli impianti nucleari e sugli altri rifiuti  radioattivi. Gli Stati membri erano tenuti a recepire la direttiva entro il 23 agosto 2013 e a notificare  i loro programmi nazionali alla Commissione entro il 23 agosto 2015.  

 Si parla inutilmente della necessità di sistemare questa tipologia di rifiuti dal 1968. Il tentativo  di imporre manu militari e con un commissario che poteva agire extra ordinem la realizzazione del  deposito Unico Nazionale per i rifiuti radioattivi a Scanzano Ionico (MT) nel 2003, senza nessun  riguardo e adeguata informazione per la popolazione, fu giustamente respinta a furore di popolo  con manifestazioni tra le più straordinarie verificatesi in Italia, concluse con la marcia delle 100mila  persone. Oggi non ostante il periodo di pandemia, l’argomento è stato ripreso e iterato in termini  frettolosi e con diverse importanti lacune per via di una documentazione che era da tempo nei cassetti e che non è stata aggiornata. I tempi stretti per evitare le pesantissime possibili sanzioni  dell’Unione Europea rischiano pure di sacrificare la partecipazione effettiva del pubblico, che  dev’essere adeguata, profonda, sostanziale e non burocratica, come passaggio ineludibile per un  argomento di così tanta importanza. 

E’ stata resa nota da parte di SOGIN con l’assenso dei Ministri per lo Sviluppo Economico e il Ministro  dell’Ambiente, del Territorio e del Mare, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (di  seguito con l’acronimo CNAPI) per la realizzazione del Deposito Nazionale per i Rifiuti Radioattivi con  annesso Parco tecnologico. 

Dal 5 gennaio 2021 è stata avviata la fase di consultazione, della durata di 60 GIORNI1(documento  per la consultazione), alla quale è possibile iscriversi online;  

Entro 120 GIORNI dalla pubblicazione, si terrà un seminario nazionale a cui parteciperanno vari  soggetti tra cui l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (di seguito  chiamato con l’acronimo ISIN2), Enti Locali, associazioni di categoria, sindacati, università, enti di  ricerca, portatori di interesse qualificati. 

Dopo il Seminario Nazionale, Sogin raccoglierà NEI SUCCESSIVI 30 GIORNI le ulteriori osservazioni  trasmesse formalmente a Sogin e al Ministero dello Sviluppo Economico e redigerà la proposta di  Carta Nazionale delle Aree Idonee (in seguito con l’acronimo CNAI). 

La CNAI verrà nuovamente sottoposta ai pareri del Ministro dello Sviluppo Economico, dell’ente di  controllo ISIN, del Ministro dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministro delle  Infrastrutture e dei Trasporti. 

In base a questi pareri, il Ministero dello Sviluppo Economico convaliderà la versione definitiva della  CNAI, che sarà quindi il risultato dell’integrazione nella CNAPI dei contributi emersi e concordati  nelle diverse fasi della consultazione pubblica. 

Come si arriva all’individuazione del sito idoneo definitivo 

Con l’approvazione della Carta Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), Sogin aprirà la successiva fase di  confronto finalizzata a raccogliere le manifestazioni d’interesse, volontarie e non vincolanti, da parte  delle Regioni e degli Enti Locali il cui territorio ricade anche parzialmente nelle aree idonee a ospitare  il Deposito Nazionale con annesso Parco Tecnologico. 

Nel caso in cui non venissero espresse, da parte di Enti Locali, manifestazioni d’interesse, o qualora  queste fossero pervenute ma successivamente ritirate, Sogin “dovrà promuovere trattative bilaterali  con le Regioni nel cui territorio ricadono le aree idonee”.  

In caso di insuccesso delle trattative bilaterali (mancata intesa), verrà convocato un tavolo  interistituzionale, come ulteriore tentativo di pervenire a una soluzione condivisa.3  

Non è specificato, dai documenti ufficiali, cosa accadrebbe in caso di assenza assoluta e ripetuta di  manifestazione d’interesse per cui riteniamo che non sia escluso che si agirebbe d’ufficio. 

Dopo l’individuazione del sito sono necessarie altre due procedure 

Il progetto del Deposito dovrà essere sottoposto a V.I.A. (Valutazione dell’Impatto Ambientale)  Nazionale, sulla base di un S.I.A. (Studio d’Impatto Ambientale) redatto dalla SOGIN in qualità di  proponente. Dovrà contenere opzioni a confronto sulle scelte effettuate, un quadro programmatico  che verifichi l’aderenza a tutte le norme esistenti, ai trattati internazionali, alla pianificazione  territoriale, e previsioni d’impatto su aria, acque superficiali e sotterranee, suolo, rumore, flora,  fauna, ecosistemi, salute pubblica, elettromagnetismo, accessibilità, eventuale cumulo con altri  progetti o insediamenti impattanti fino all’impatto percettivo dalle varie visuali. La V.I.A. , corredata  anche da un documento di sintesi non tecnica, richiede obbligatoriamente il diritto di  partecipazione del pubblico, di Enti, delle categorie interessate quali Sindacati, Associazioni di  protezione Ambientale, ecc…) che possono visionare il progetto e formulare osservazioni alle quali  va data risposta. Richiede altresì il parere obbligatorio delle Regioni, delle ARPA e delle  Soprintendenze competenti per territorio. Il parere di compatibilità ambientale VIA è reso con  Decreto, può contenere prescrizioni e compensazioni vincolanti e prevedere verifiche di  ottemperanza. Fra le prescrizioni particolare attenzione può essere rivolta anche agli aspetti  percettivi-visuali relativi all’inserimento delle opere nel paesaggio con coperture a verde secondo il  modello vegetazionale spontaneo naturale di luoghi. 

Il progetto dovrà altresì ottenere il parere dell’ISIN per tutti gli aspetti radiologici e di radioprotezione  sanitaria e ambientale del Deposito, con riguardo ai lavoratori, alle popolazioni interessate e  all’ambiente in area vasta con prescrizioni sulle cautele connesse da adottare. 

Qual’è l’origine dei rifiuti radioattivi italiani e dove si trovano attualmente? 

I rifiuti provengono: 

➔ Dalle quattro centrali elettronucleari chiuse a seguito del referendum del 1987 e consistono  in elementi di combustibile irraggiato, rifiuti gestionali, parti radiologicamente contaminate  esito del decommissioning (vale a dire dello smantellamento) in corso4

➔ Dagli impianti di ricerca e/o di riprocessamento (Eurex in Saluggia – Vercelli; ITREC in  Rotondella – Matera , OPEC e IPU in Roma alla Casaccia; ma esistono altre casistiche come  Fabbricazioni Nucleari (FN) di Bosco Marengo (Alessandria) e laboratori in ambito  universitario.  

➔ Dai reparti di medicina nucleare e di radiologia medica (cosiddetti “medicali”). ➔ Dall’industria (gamma-grafie per la verifica delle possibili imperfezioni interne delle saldature  meccaniche, dalla produzione di lastre in macchine a controllo numerico ottimizzato…). ➔ Da materiali dismessi del secolo scorso (sorgenti di gamma-grafia di officine meccaniche  dismesse, parafulmini radioattivi, aghetti di Radio o sorgenti usati in medicina, sorgenti di  Cobalto60 usate in passato per l’irraggiamento di sementi e tuberi [problema: vagabonding5 di materiale radioattivo che può potenzialmente verificarsi con il recupero di ferro, acciaio o  alluminio destinati al riciclo]. 

Ne deriva che quando parliamo di materiali radioattivi non dobbiamo pensare solo alle centrali  elettronucleari di potenza, agli impianti di riprocessamento dei combustibili irraggiati di quelle  centrali, ma ci riferiamo a un mondo assai più vasto che ha prodotto in passato e continuerà a  produrre in futuro anche se in maniera molto ridotta per la chiusura delle centrali nucleari, rifiuti  radioattivi che è necessario gestire. 

Non tutti gli impianti sono affidati a SOGIN, com’è visibile dalla figura che segue. 

Le Linee Guida che regolano le valutazioni per il sito e per il deposito 

La GUIDA TECNICA n. 29 dell’ISPRA (emanata nel 2014 e approvata dall’Agenzia Atomica  Internazionale – IAEA – nel 2013) reca: Criteri per la localizzazione di un impianto di smaltimento  superficiale di rifiuti radioattivi a bassa e media attività. 

La GUIDA TECNICA n. 30 dell’ISIN (emanata a metà novembre 2020) reca: Criteri di sicurezza e  radioprotezione per i depositi di stoccaggio temporaneo di rifiuti radioattivi e di combustibile  irraggiato. ( si noti il plurale: depositi). 

AREE INDIVIDUATE DA SOGIN POTENZIALMENTE IDONEE  

Delle 67 aree individuate dalla Sogin , 22 sono nel Lazio, 14 in Sardegna, 11 in Basilicata, 4 al  confine tra Basilicata e Puglia, 1 in Puglia, 8 in Piemonte, 4 in Sicilia, 2 in Toscana. 

La Sogin ha anche aggiunto una lista più ristretta di 23 luoghi come “aree verdi”, cioè i posti ritenuti  più favorevoli per realizzare il Deposito dei rifiuti radioattivi:  

8 in Piemonte tra le province di Torino e Alessandria (territori comunali di Caluso, Mazzè,  Rondissone, Carmagnola, Alessandria, Quargento, Bosco Marengo)

2 in Toscana tra Siena e Grosseto (che comprendono territori comunali di Pienza, Campagnatico); 

7 nel Lazio in provincia di Viterbo (comuni di Montalto di Castro, Canino, Tuscania, Tarquinia,  Vignanello, Corchiano); 

6 in Basilicata-Puglia tra Matera e Bari (nei territori dei comuni di Altamura, Matera, Laterza e  Gravina di Puglia). 

Le novità nella carta CNAPI riguardano l’inclusione di siti nella Sardegna e nella Sicilia, regioni che  nella precedente ricognizione del 1999, eseguita dalla commissione presieduta da Carlo Bernardini,  erano state escluse per valutazioni riconducibili ai rischi del trasporto dei rifiuti su distanze lunghe e  per giunta via mare.  

Nel 2003 il generale Carlo Jean, presidente della SOGIN e Commissario della stessa, in audizione  parlamentare affermava che l’esclusione delle isole non era stata determinata dai rischi del  trasporto, bensì dalla volontà di evitare contestazioni da parte di Greenpeace lungo il percorso del  trasferimento del materiale radioattivo. Lasciava così intendere che le isole erano (o potevano  essere) rimesse in gioco confermando implicitamente le indiscrezioni che davano per candidata la  Sardegna ad ospitare il Deposito. Dopo mobilitazioni in Sardegna e iniziative parlamentari, il primo  ministro Berlusconi intervenne dicendo che la Sardegna turistica veniva da lui esclusa per i rifiuti  radioattivi.  

Come sono classificati i rifiuti radioattivi 

Il DLsl 45 del 2014 che recepisce la Direttiva 2011/70 EURATOM ha applicazione col regolamento di  cui al DM 7 agosto 2015 che riporta gli standard IAEA6che classifica i rifiuti radioattivi in 5 categorie7

a vita molto breve 

ad attività molto bassa 

a bassa attività 

a media attività 

ad alta attività 

La vecchia classificazione indicata nel Decreto Legislativo 31/2010, suddivideva i rifiuti radioattivi in  Ia, IIa e IIIa categoria rispettivamente caratterizzati da bassa, media e alta attività.  

La Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia, nell’aprile del 1999  aveva approvato, all’unanimità, un documento di indirizzo per il Governo in cui si proponeva la scelta  di uno o più depositi di superficie per i rifiuti nucleari di IIacategoria cui tempi di decadimento  radioattivo, fino al raggiungimento dei livelli simili a quelli del fondo naturale della crosta terrestre,  richiedono circa 300 anni. Proponeva lo smantellamento accelerato delle centrali nucleari italiane e  la collocazione dei rifiuti ad alta attività nel medesimo deposito per alcuni decenni, “viste le piccole  quantità dei volumi da sistemare”.  

Mentre per i rifiuti delle categorie Ia e IIasi ipotizzava una collocazione affrontabile realisticamente  alla luce delle attuali tecnologie, per quelli ad alta attività la commissione non formulava proposte  definitive perché allora come oggi non esiste una soluzione accettabile. 

In definitiva nel Deposito Unico Nazionale:  

• possiamo escludervi la collocazione i rifiuti a vita molto breve la cui radioattività decade a  livelli accettabili nel giro di giorni o di mesi e divengono presto rifiuti innocui ordinari. • abbiamo possibilità tecnologiche di sistemare, definitivamente, dopo averli trattati  (inertizzati in matrici solide come ad es. in cementi speciali) quelli ad attività molto bassa e  bassa. 

• abbiamo problemi da risolvere per quelli a media attività e problemi ancora più impegnativi  per i rifiuti ad alta attività i cui tempi di dimezzamento sono estremamente lunghi. Si tenga  presente che nella trasduzione fra la vecchia classificazione e quella nuova in 5 classi, i rifiuti  di media e di alta attività vanno considerati nella stessa, impegnativa, categoria. 

Gli elementi che costituiscono il cocktail dei rifiuti ad alta attività sono in determinate percentuali  isotopi creati artificialmente attraverso i fenomeni di fissione che avvengono in un reattore nucleare.  Il Plutonio 239, che è quello a maggiore presenza, decade di un millesimo della sua attività iniziale in  240 millenni. L’Uranio 235 che pure esiste in natura, dimezza la sua attività in 700 milioni di anni, ma  con l’arricchimento in protoni nel reattore diviene in buona parte Uranio238 che ha un tempo di  dimezzamento (e non di decadimento!) di circa 4,5 miliardi di anni, pari all’età del pianeta Terra.  Nella catena dei decadimenti dalla filiera dell’Uranio238 si formano Torio234, Uranio 234, Torio 230 e  Radon che è un gas radioattivo che esala dai terreni e viene a costituire la “radioattività naturale” con cui abbiamo a che fare, a macchia di leopardo, in aree un po dovunque nel Paese. Alla fine dei  decadimenti si origina il Piombo206 finalmente stabile e privo di attività radiologica.  

I tempi descritti rendono improponibile e non accettabile l’ipotesi di una sistemazione dei rifiuti  di questo genere in depositi geologici “definitivi”.  

La Terra ha le sue dinamiche geologiche attive, lente ma inesorabili, i continenti si spostano, le  montagne si formano, si alzano e si disfano, le falde acquifere e il corso dei fiumi cambiano  significativamente in tempi simili. Il mare Adriatico, ad esempio, mostra una tendenza per cui fra  circa 58 milioni di annisi stima che non esisterebbe più e la costa italiana sarà unita a quella balcanica  albanese, croata, bosniaca e slovena. Come si può pensare, di fronte ai tempi di emivita dei  radioisotopi ad alta attività, di realizzare un deposito sotterraneo geologico profondo, pretendere  che possa essere “definitivo”, che duri in sicurezza diversi milioni di anni o un miliardo di anni?  

Oggi in Europa le scorie radioattive ad alta attività sono allocate in una ventina di siti ma nessuno di  essi è definitivo. I tentativi fatti in Germania di sistemazione in depositi geologici profondi (miniere  di salgemma) sono falliti. 

Il progetto più avanzato in questo campo è quello di Olkiluoto in Finlandia per collocare i rifiuti a 400  metri di profondità e progettato per durare 100 millenni. Il costo iniziale previsto, di 3 miliardi di €,  sono lievitati ad oggi a 10 miliardi e la prevista entrata in funzione nel 2009 è stata riposizionata, per  adesso, al 2023. Altri Paesi (Svezia, Inghilterra, Francia, Repubblica Ceca, Svizzera, Romania) si  trovano ancora in fase di valutazione. La Cina si è dotata di 2 depositi “definitivi” per l’alta attività e  nel mondo 4 sono in via di realizzazione.  

Per quanto riguarda invece i rifiuti a bassa e media attività esistono in Europa diversi depositi  nazionali definitivi: a Drigg (vicino Sellafield in Inghilterra, ove c’è un impianto in cui si trovano  diverse barre italiane di combustibile irraggiato per il riprocessamento e l’inertizzazione, e i cui  residui diminuiti in volume e solidificati ci verranno rimpatriati), uno in Spagna a El Cabril, due nella  Penisola Scandinava, poi in Slovenia, Belgio, Romania, Slovacchia, Ungheria.  

La questione della sistemazione dell’alta attività invece appare effettivamente irrisolta e lontana  dall’esserlo. 

Una prima considerazione è d’obbligo: bene hanno fatto gli italiani a interrompere la produzione di questa tipologia di rifiuti ad emivita lunghissima e altissima pericolosità, col loro voto sul referendum  d’iniziativa popolare che l’8 e 9 novembre 1987 vide circa il 72% di Si all’uscita dal nostro Paese dalla  generazione dell’energia elettrica da fonte nucleare. Oggi i rifiuti italiani di alta attività sono tutto  sommato modesti a confronto di altri Paesi che sono in condizioni assai peggiori. 

La seconda considerazione d’obbligo è che è largamente motivato, ad oggi, dire NO alla previsione  di un ipotetico, futuro, sito geologico definitivo di profondità per la sistemazione dei rifiuti a  lunghissima emivita di attività. 

I quantitativi dei rifiuti radioattivi italiani da sistemare 

Rifiuti a vita molto breve: non richiedono sistemazione in un apposito deposito definitivo. Si lascia  che la radioattività decada tenendoli in sicurezza e divengano in poco tempo rifiuti comuni privi di  vincoli radiologici. 

Rifiuti ad attività bassa e molto bassa esistenti: (che hanno un tempo di decadimento a livelli per  cui il rischio da radioattività diviene minimo accettabile in circa 300 anni)…………..……….. 33000 m3   Ad attività bassa e molto bassa previsti per il futuro 8…………..………………………..……….……… 45000 m3 Totale capienza del deposito nazionale per questa tipologia……………………………………..…..78000 m3 

Nel Deposito Nazionale, inoltre, saranno stoccati «temporaneamente» i rifiuti a media e alta attività, ossia  quelli che perdono la radioattività in migliaia di anni , per…………………………………………………………… 17000 m3 

Questi comprendono 400 m3residui dal riprocessamento delle barre di combustibile irraggiato delle  centrali italiane, spedite da tempo in Francia e in Inghilterra e che verranno restituiti per contratto  approvato dal Parlamento, e dalle barre non riprocessabili.  

 TOTALE GENERALE 95000 m3 

Per la loro sistemazione definitiva è dichiarato che «richiedono la disponibilità di un deposito  geologico» [criticità! n.d.r.]. 

La Direttiva 2011/70/EURATOM stabilisce che ogni Paese ha la responsabilità di sistemare i propri  rifiuti radioattivi entro i propri confini nazionali. 

La direttiva prevede anche la possibilità di costruire uno o più depositi di profondità condivisi fra  Paesi europei con quantità limitate di rifiuti a media e alta attività.  

In considerazione degli elevati costi di realizzazione e di gestione di un deposito per tale tipologia di  rifiuto, alcuni Paesi stanno valutando l’opportunità di una sistemazione definitiva comune dei propri  rifiuti a media e alta attività, ma nulla di concreto o di impegnativo è dato di registrare.  L’Italia persegue la strategia, richiamata in ambito europeo, del cosiddetto ‘dual track’, ossia l’analisi  di fattibilità di un deposito da realizzare all’estero e condiviso fra più Paesi (possibilità che allo stato  attuale appare inesistente ma che è giusto tenere in ipotetica considerazione data la relativa  modesta quantità dei nostri rifiuti a lunga emivita) e, in parallelo, in caso l’ipotesi estera non risulti  praticabile, lo studio di una soluzione “definitiva” a livello nazionale. C’è da chiedersi, in merito, cosa significa la parola “definitiva”. 

Un deposito unico nazionale “temporaneo” ma di “lunga durata” 

Abituati a ragionare su tempi storici e non geologici, sembra un ossimoro chiamare una cosa  temporanea e nel contempo dire che è di lunga o lunghissima durata, ma i tempi del decadimento  radioattivo sono inevitabilmente talmente lunghi che i due concetti possono in realtà coesistere.  Un deposito siffatto consente di stoccare in sicurezza i rifiuti la cui attività radiologica si esaurisce in  circa 300 anni ma può ospitare (com’è previsto “temporaneamente”) anche quelli a media e alta  attività derivanti in massima parte dall’esercizio delle installazioni nucleari e la cui emivita radiologica  si protrae per migliaia o decine di migliaia di anni.  

Nel caso dell’Italia, come già avviene in Europa (Paesi Bassi, Svezia e Svizzera), i rifiuti a media e alta  attività verranno conferiti a un’apposita struttura centralizzata, pesso il Deposito Unico Nazionale,  denominata “Centro Stoccaggio Alta Attività” (acronimo CSA). 

La proposta di Deposito Unico Nazionale di superficie con annesso CSA e Parco Tecnologico prevede le seguenti caratteristiche: 

– Estensione 150 ettari (di cui 110 occupati dal Deposito e 40 dal Parco Tecnologico) 

– 90 grandi contenitori in cemento armato, detti “celle”, in cui verranno collocati grandi  contenitori in calcestruzzo cementizio speciale cosiddetti “moduli” entro cui saranno  alloggiati i contenitori metallici contenenti i rifiuti radioattivi già condizionati (ovvero in forma solida, racchiusi in matrice inerte che potrebbe essere vetrosa o di ceramica o  cementizia a seconda dei casi). In pratica sono tre contenitori inseriti l’uno dentro l’altro,  come le bambole souvenir russe “matrioska”. 

– Nel Deposito Nazionale italiano sarà realizzato un complesso di edifici (CSA – Complesso  Stoccaggio Alta attività), idoneo allo stoccaggio «temporaneo» dei rifiuti a media e alta  attività italiani tra cui i residui derivanti dal riprocessamento del combustibile nucleare  esaurito, inviato in Francia e nel Regno Unito e che dovranno rientrare necessariamente in  Italia, in conformità a specifici accordi internazionali. 

– Costo previsto 900 milioni di € che in base alle esperienze simili condotte all’estero  potrebbero lievitare di tre volte.  

Considerazioni critiche 

1) Le scelte che siamo chiamati a fare in questo periodo storico costituiscono la tessera di un  mosaico mondiale la cui definizione condizionerà, in materia di controllo della radioattività di  origine antropica, le generazioni umane che dovranno venire nel futuro della Terra. Quindi  grande dev’essere la responsabilità nel non commettere errori non sanabili. La rilevanza  nazionale e temporale e il livello di complessità richiedono pertanto che ad occuparsene debba  essere l’intero governo e non delegare, come avviene, la gestione del procedimento e persino  le trattative bilaterali con le Regioni e con gli Enti Locali a SOGIN che è un organismo tecnico ed  esecutivo. Ad esempio aspetti legati alla normativa sui beni Culturali, pur richiamata nelle  Guide Tecniche, non sono poi inseriti chiaramente nei criteri di esclusione per l’individuazione  del sito, né è sviluppato adeguatamente il tema occupazionale. Analogamente non sono  sviluppati i rischi legati al trasporto, sia su lunghe tratte che via mare su cui pare siano stati fatti  passi indietro rispetto alle previsioni del 1999 che escludevano Sardegna e Sicilia. 

2) L’informazione al pubblico, ancorchè migliorata rispetto alla debacle del 2003 quando si tentò di imporre il sito di Scanzano Ionico sollevando un moto popolare di protesta, è ancora  largamente insufficiente: gli atti istruttori e il progetto sono visionabili unicamente nelle sedi  delle 4 centrali nucleari italiane in corso di smantellamento (Caorso, Trino Vercellese, Latina e  Garigliano) e presso la sede nazionale della SOGIN in Roma. Compatibilmente con le necessità di sicurezza nazionale9 non sono stati resi pubblici e messi online, e per quanto possibile resi  accessibili a chiunque, tutti gli atti e i documenti che afferiscono al procedimento. Non sono  disponibili “sintesi non tecniche”, del tipo in uso nelle procedure di V.I.A. per consentire anche  ai cittadini non addentro alla materia di capire e valutare. 

3) Non sono previsti meccanismi permanenti istituzionalizzati per una partecipazione e controllo  –qualificato e non generico- del pubblico, attraverso proprie rappresentanze, nelle scelte che  si andranno a compiere e successivamente nel governo e gestione del Deposito e del Parco  Tecnologico; 

4) La carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) appare datata e necessita di  verifica per un suo eventuale aggiornamento. 

5) La valutazione nella scelta deisiti potenzialmente idonei è stata effettuata unicamente secondo  la Guida Tecnica dell’ISPRA n. 29, redatta nel 2013 e pubblicata nel 2014 e all’epoca unico  strumento regolatorio esistente. Non è stata condotta una rivalutazione secondo il disposto  della recente Guida Tecnica dell’ISIN n. 30 (Criteri di sicurezza e radioprotezione per i depositi  di stoccaggio temporaneo di rifiuti radioattivi e di combustibile irraggiato), pubblicata il 10  novembre 2020, solo due mesi prima dell’avvio della consultazione. La scelta del sito non può prescindere all’essere armonizzata con quanto disposto nella recente Guida Tecnica almeno per  i punti: 4.3 (condizioni operative e categorie di eventi); 5.1 Criteri e requisiti generali di  progetto; 5.2 Eventi di riferimento e requisiti specifici di progetto. In definitiva, per questo  punto, si ritiene che la qualità del sito debba essere valutata anche in confronto con i requisiti  del progetto dal momento che l’una cosa (il sito) influenza l’altra (il progetto) e viceversa.  

Conclusioni 

Anche se è doloroso e impopolare (a volte è meglio essere impopolari che anti-popolari) occorre  prendere atto che la realizzazione di un deposito nazionale unico di superficie per TUTTI i rifiuti  radioattivi prodotti in Italia, esistenti e futuri, è cosa necessaria, indispensabile, responsabile e  INELUDIBILE . Sono rifiuti prodotti in Italia ed è impossibile non occuparsene sul suolo nazionale  anche perché soluzioni condivise a livello europeo non esistono se non nell’espressione di vaghe intenzioni.  

Nel nostro Paese l’inventario di questo materiale è sufficientemente controllato anche se  attualmente ci sono carenze di sicurezza in diversi siti tra i circa venti in cui sono stipati: sono più idonei quelli provvisori realizzati presso le centrali dismesse10, meno o molto meno idonei in altre  circostanze. Tuttavia inviare i nostri rifiuti all’estero significherebbe correre il rischio di perderne il  controllo com’è avvenuto e continua ad avvenire per i rifiuti elettronici e per le plastiche con cui le  società opulente continuano a creare vergognosi inammissibili disastri ambientali e umanitari in  Africa. Altrettanto inaccettabile è la previsione -che in passato sembrava strada da favorire- di  inviare i nostri rifiuti radioattivi in Russia ove le cautele ambientali e sanitarie in materia sono di gran  lunga meno attente delle nostre. Politicamente ed eticamente tocca a noi sistemare in sicurezza i  nostri rifiuti. Ne abbiamo capacità, competenze, tecnologia, possibilità. 

Proposte 

Perché la realizzazione del Deposito possa essere accettata pienamente o con mugugno dalle  popolazioni e una scelta definitiva possa essere difesa con motivazioni oggettive e inoppugnabili, verificabili, occorre che vengano apportati miglioramenti procedurali e in particolare: 

→ prolungare adeguatamente i tempi della consultazione pubblica che non può essere accettata  compressa nel limite di 60 giorni, in periodo di lockdown ove è impossibile anche viaggiare per  visionare o acquisire documenti e in aggiunta in periodo di crisi istituzionale con il governo, che  dev’essere il principale interlocutore, che cambia i suoi ministri e probabilmente le sue direzioni  generali.  

→ Garantire la più assoluta trasparenza nelle scelte, l’accesso agli atti fornendo risposte a ogni  singola obiezione da parte di cittadini singoli o associati. 

→ Prevedere ampi meccanismi di partecipazione e di possibilità di verifica continuativa da parte  dei cittadini, associazioni di categoria, attraverso persone qualificate da loro designate, prevedendo  anche -se richieste- il rimborso delle spese ai rappresentanti del volontariato del Terzo Settore per  la partecipazione a riunioni e sopralluoghi. 

→ vedere coinvolto l’intero governo della Repubblica per una scelta di questa rilevanza: meno  SOGIN (che comunque è sempre una S.p.A.) e più Stato, in maniera complessiva e integrata. 

→ Prendere in considerazione, nella procedura per l’individuazione finale del sito, contestualmente  entrambe le Guide Tecniche, la n. 29 e la n. 30 in quanto oggettivamente interconnesse. 

→ ESCLUDERE ESPLICITAMENTE che possano essere autorizzati eventuali depositi definitivi privati,  ad eccezione di quelli destinati ad ospitare radionuclidi a vita molto breve che comunque devono  rispettare i criteri delle Autorità regolatorie. Questo significa che i soggetti privati attualmente autorizzati al ritiro o alla detenzione di rifiuti radioattivi rientranti nelle categorie del Deposito Unico  Nazionale, devono vedersi imposto l’obbligo di conferire il materiale raccolto o detenuto al Deposito  Unico Nazionale, secondo le specifiche a loro impartite. La pericolosità di questo genere di rifiuto e  le esigenze di sicurezza impongono infatti che la loro custodia definitiva sia pubblica. 

ESCLUDERE FIN DA SUBITO l’ipotesi di un collocamento definitivo in deposito geologico  profondo dei rifiuti a media ed alta attività perchè non è concepibile concretamente e  realisticamente che possano essere realizzate opere che durino, e in isolamento, svariati milioni di  anni. Per meglio comprendere l’entità dei tempi di cui si parla si consideri a confronto che i  dinosauri sono estinti “solo” 65 milioni di anni fa e per quanto riguarda l’umanità, che le piramidi  egizie, tra le grandi opere più antiche conosciute, sono “vecchie” di circa 4500 anni e la grande  muraglia cinese di “solo” 2200 anni. E’ impossibile prevedere come sarà il mondo fra milioni di anni,  quando le lingue attuali saranno pressochè certamente estinte e un sito realizzato oggi per  contenere sostanze tanto pericolose dovrebbe essere segnalato con ideogrammi comprensibili ai  posteri piuttosto che con iscrizioni. 

→ PREVEDERE l’INTERIM STORAGE di lunghissima durata, nel Deposito Unico Nazionale, dei rifiuti  ad alta attività e con emivita radiologica di millenni. Oggi disponiamo di contenitori, cosiddetti  cask, di metallo speciale per rifiuti radioattivi ad elevata attività. Questi contenitori sono stati  realizzati in programmi di ricerca multidisciplinare internazionali, sottoposti a numerosi test anche  spettacolari, per verificarne la capacità di resistere ad urti violentissimi, a cadute da aereo, ad  attacco aereo e missilistico e validati e selezionati dalla IAEA referente indipendente dell’ONU. Una  delle proprietà tra le più importanti di questi contenitori è quella di schermare la radiazione nucleare  evitando che arrivi a fuoriuscire al loro esterno. Così che possono essere ispezionati, movimentati o  rimossi senza necessità per gli operatori di protezioni individuali. Possono essere tenuti sigillati  garantendo sicurezza per i lavoratori del deposito, per la popolazione interessata nell’area vasta e per l’ambiente. Tali cask, cilindrici, hanno tre coperchi di chiusura successivi e la superficie esterna  ondulata che facilita la dispersione del calore che si produce inevitabilmente al loro interno in  conseguenza del lento decadimento radioattivo. Calore che nel Deposito dev’essere rimosso, così  come avviene nelle centrali nucleari che hanno ambienti a pressione negativa, con ventilazione  afferente a un camino. 

Allo stato attuale l’unica soluzione credibile è che i rifiuti ad elevate attività vengano mantenuti  entro I cask, sistemati in una zona idonea del Deposito, controllati militarmente, fino a quando  non si troverà, per loro, da parte delle generazioni future, una soluzione migliore. 

Dalla ricerca abbiamo indizi che possono farci sperare, moderatamente, che in futuro possano  essere scoperte tecnologie per ridurre significativamente o far decadere la radiazione nucleare. Va  detto che comunque per adesso questo è un sogno: siamo ben lontani dal poter considerare tali  indizi prossimi ad esiti conclusivi. Si segnala in merito l’esperimento che ha meritato l’assegnazione  del premio Nobel a Carlo Rubbia per cui bersagli bombardati con protoni ad altissima energia  producono urti anelastici contro i nuclei atomici degli elementi transuranici che si spezzano in  frammenti producendo altri e diversi radionuclidi e altri protoni attivi nel contribuire al  bombardamento. Il fenomeno di transmutazione, denominato più gergalmente “spallazione”, fa  pensare che si possano “incenerire” Ie scorie radioattive trasmutandole in nuovi e diversi  radionuclidi a minore emivita e quindi più “trattabili” per una loro sistemazione definitiva.  

Effetti simili sono stati ottenuti anche con laser ad altissima energia, ma anche questo risultato  rappresenta solo un indizio di possibilità che comunque non porta al decadimento radioattivo delle  masse ma a una loro trasmutazione in divesi radionuclidi che conservano comunque un elevato  grado di radioattività anche se inferiori alle condizioni di partenza.  

Allo stato attuale è solo il fattore “tempo” che garantisce il decadimento radioattivo spontaneo e  siccome i tempi per taluni elementi sono lunghissimi, l’unica soluzione possible è tenere custoditi  i rifiuti ad alta attività irraggiante in sicurezza entro i propri cask rimuovibili, ispezionabili,  sorvegliati, manutenuti. 

→ Acquisire al patrimonio pubblico e per finalità sociali le aree liberate con il decommissioning.  SOGIN, S.p.A. a pressochè completa partecipazione pubblica su fondi del Ministero dei Tesoro (fondi derivanti dalle accise sulle bollette elettriche degli italiani) ha il compito di smantellare le  centrali nucleari italiane fino al raggiungimento delle condizioni di un “green field”, vale a dire  lasciando al posto dell’ex centrale nucleare un campo verde privo di vincolo radiologico.  Probabilmente la “mission” assegnata a SOGIN è esagerata: nelle centrali nucleari le palazzine  degli uffici amministrativi, i locali mensa, l’aula delle riunioni, edifici che mai hanno avuto a che  fare con la radioattività e che talvolta sono pure di notevole pregio costruttivo con elementi di  particolare eleganza, potrebbero essere non demoliti, ma acquisiti dallo Stato ed assegnati ad  Associazioni per finalità sociali11. In ogni caso e’ giusto chiedere che alla fine delle operazioni di decommissioning, le aree liberate da vincoli radiologici devono essere acquisite al patrimonio dello  Stato dal momento che il loro recupero viene pagato con cospicui fondi pubblici e non dall’ENEL, al  tempo proprietaria degli impianti e “titolare”della contaminazione. Si tratta anche di evitare che  su un terreno bonificato con fondi pubblici possa successivamente verificarsi speculazione privata. 

→ Precisare la natura e le funzioni del Parco Tecnologico su cui si può esprimere consenso a  condizione che esso sia meglio definito come una struttura frequentata, viva, con ricercatori, stagisti  e persino con persone residenti nel complesso. Anzi, si ritiene che la frequentazione della struttura  debba essere ampliata ed incentivata ad esempio introducendovi un “museo nazionale  dell’energia” che copra tutta l’evoluzione tecnologica dell’umanità dalla scoperta del fuoco,  passando per l’energia idraulica, poi del vapore e quindi dell’era della “piro-tecnica”, del nucleare di fissione, fino alle più moderne scoperte e applicazioni del fotovoltaico, dell’idrogeno e delle celle  a combustibile. Può essere un luogo che ospiti laboratori di ricerca dell’ISPRA e dell’ENEA (magari  per la riduzione dell’attività delle scorie nucleari…), laboratori di metrologia o di analisi chimico fisiche rare d’eccellenza, del CNR o di Università. Un sito di Deposito popolato verrebbe infatti  percepito non come tetro cimitero di scorie pericolose da cui stare il più lontano possibile,  circondato dal perenne sospetto di essere causa di tutte le patologie che possono verificarsi  nell’area vasta interessata, ma come una struttura viva, frequentata, polo culturale e promotore di  cultura e sviluppo umano. Ovviamente la frequentazione larga dovrà essere resa anche accettabile  sotto il profilo della sicurezza (in senso militare del CSA – Complesso Stoccaggio Alta attività, ma le  due esigenze possono trovare soluzioni adeguate. 

Andrebbe anche preso in considerazione il recupero del calore derivante dal condizionamento del  deposito: il flusso di aria tiepida potrebbe essere indirizzato all’interno di serre per la coltivazione  dei fiori o per un vivaio forestale, strutture che potrebbero essere realizzate in prossimità del  Deposito Unico Nazionale.  

In ogni caso in questa fase iniziale del percorso verso il Deposito Unico Nazionale per i rifiuti  radioattivi, occorre dispiegare il massimo della trasparenza, informazione, consentire e promuovere  la partecipazione del pubblico, essere aperti al dialogo e a verifiche pubbliche sulle opzioni per  pervenire alla scelta motivata del sito più idoneo (o, meglio, del meno inidoneo) e non accontentarsi  di una ubicazione magari “più disponibile” perchè più accettata, ma carente di idoneità.  Opposizioni aprioristiche e non motivate non sono eticamente accettabili. 

della centrale del Garigliano che ha locali spaziosi e luminosi e una scala interna autoportante, disegnata da un grande  architetto italiano e unica nel suo genere.

 

Esempi di casks per i rifiuti nucleari ad alta attività

1 Dai ministeri è stato diffusa la notizia di una probabile proroga, data la crisi di governo e la pandemia in atto. All’atto  della chiusura di questo documento (12 febbraio 2021) non si registra alcun provvedimento ufficiale in merito.

2ISIN istituito con Dlgs n. 45/2014 subentra all’ISPRA dal cui Dipartimento Nucleare-Rischio Tecnologico e Industriale  (oggi ex) eredita personale e le funzioni. Precedentemente le funzioni sulla sicurezza nucleare e la radioprotezione  erano state: dal 1982 al 1984 dell’ENEA-DISP; dal 1994 al 2002 dell’ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione  dell’Ambiente); dal 2002 al 2008 dell’ISPRA. Attualmente ISIN è allocato presso in Ministero dell’Ambiente, e non più  nell’ambito tecnico-scientifico più generale dell’ISPRA ove sarebbe stato più logico e naturale che rimanesse. La  tendenza dei ministeri a divenire strutture elefantiache concentrando in sé funzioni tecnico-scientifiche parziali e  improprie, sottratte alle Istituzioni preposte e a volte in concorrenza con esse, andrebbe messa in seria discussione.

3La CNAPI, il progetto preliminare, i documenti per la consultazione pubblica e altri materiali di approfondimento  sono disponibili sul sito www.depositonazionale.it, curato da Sogin.

4La Centrale elettronucleare di Latina, a gas e grafite, è la più antica delle centrali italiane e al tempo della sua  costruzione la più importante d’Europa e tra le prime al mondo. Costruita dal 1958 al 1962, è entrata in funzione nel  1963 e chiusa nel 1987- La Centrale del Garigliano è stata in esercizio dal 1964 al 1982; La Centrale di Caorso dal 1981  al 1986. Quella di Trino Vercellese è la più recente: costruita dal 1991 al 1997, entrata in esercizio nel 1998, è stata  fermata per “arresto forzato” nel 2009 e si è rinunciato al suo raddoppio; questa centrale non è raffreddata ad acqua,  ma è dotata di due caratteristiche grandissime torri per il raffreddamento ad aria. 
5 Alla fine del maggio 1998 in Italia del nord, nel sud-est della Francia ed in Svizzera è stato rilevato un temporaneo  significativo aumento del livello di Cesio 137 presente nell’aria. La radioattività risultò provenire da un’acciaieria di  Algeciras (Spagna – Cadige), nei pressi di Gibilterra, ove una sorgente nascosta tra le lamiere incidentalmente finì nei  forni della fonderia. Un incidente simile si era verificato molti anni prima in Italia a Saronno. Nel 1989, nella fonderia di Rovello Porro (Como) un carico di alluminio radioattivo proveniente dall’Europa dell’Est è stato inavvertitamente fuso,  immettendo nell’aria e nelle acque sostanze radioattive. Come sempre avviene in questi casi, dopo la scoperta, la  fonderia venne chiusa e bonificata: alcune tonnellate d’asfalto, di terra e di detriti contaminati vennero prelevati e  trasferiti nella discarica nucleare di Capriano del Colle.
6IAEA è l’International Atomic Energy Agenzy , organismo autonomo che si rapporta, come Agenzia specializzata, con  il Consiglio di sicurezza dell’ONU. Produce rapporti periodici per l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza delle  Nazioni Unite, alla stregua di un’agenzia specializzata. Nata nel 1957 per gli sviluppi dell’uso pacifico del nucleare e per  la sua sicurezza, nel tempo ha abbandonato l’impegno nella promozione del nucleare per concentrarsi esclusivamente  sulla sicurezza, incolumità, scienza e tecnologia, verifica e salvaguardia. Svolge tre compiti principali: ispezioni  periodiche degli impianti nucleari esistenti per assicurarne l’uso pacifico; fornire informazioni e consulenze per migliorare gli standard per la sicurezza e di fungere da luogo d’incontro e interscambio per addetti ed esperti nelle  tecnologie nucleari.
7Sostituisce la vecchia classificazione ENEA-DISP del 1987
8Le sorgenti nucleari che rientrano in questa categoria continueranno necessariamente ad incrementare nel tempo  perché derivanti dagli ospedali ove sono impiegate sorgenti per diagnosi e cura, dall’industria di precisione per la  qualità dei prodotti e per la sicurezza, ad es., delle componenti dei mezzi di trasporto.
9I materiali più pericolosi devono necessariamente essere custoditi in sicurezza anche di tipo militare per evitare in  ogni modo che possano in ipotesi finire nelle mani di terroristi.
10 L’ “idoneità” a mantenere i rifiuti presso la centrale ove sono stati prodotti è una forzatura necessaria accettabile solo  in via molto temporanea. Questo perché c’è incompatibilità di requisiti tra un sito ove sorge una centrale nucleare e un  sito idoneo per ospitare un Deposito Definitivo per i rifiuti radioattivi a media e alta attività. Infatti una centrale  dev’essere necessariamente collocata nelle vicinanze di acqua (fiume o mare) necessaria per il raffreddamento, mentre  tale vicinanza è tra i criteri di esclusione nella scelta di un sito di deposito definitivo che deve durare per secoli o svariati  millenni.
11 Nel Decommissioning sarebbe anche assai opportuno conservare, a fini museali, parti pregiate della meccanica  dell’impianto. Ad esempio le giranti delle turbine che sono “pezzi unici”, realizzati da industrie italiane, con le centinaia  di alette saldate perfettamente da mani abilissime, esempi di realizzazione “artigiana” ma di qualità costruttiva e di  perfezione meccanica meritevoli di essere esposte. Allo stesso modo sarebbe una sciocchezza demolire la palazzina

FINE

Febbraio 2021 

Solidarietà e un ringraziamento alla Consigliera Silvia Noferi (M5S) che ha difeso le tesi ambientaliste in Consiglio della Regione Toscana

Solidarietà e un ringraziamento alla Consigliera Silvia Noferi (M5S) che ha difeso le tesi ambientaliste in Consiglio della Regione Toscana

I boschi visti come un cancro. Ridicolizzate le tesi ambientaliste dall’asse PD-Lega-Fratelli d’Italia

I boschi visti come un cancro. Ridicolizzate le tesi ambientaliste dall’asse PD-Lega-Fratelli d’Italia. Lega e PD hanno
presentato due mozioni identiche per chiedere di modificare la Legge che tutela le foreste protette dal Codice del
Paesaggio. Solo il Movimento 5 Stelle ha votato contro alle due mozioni che mostrano la stessa visione liberista ed
economicista dello sfruttamento delle risorse naturali in dispregio alle leggi dello Stato.


Il Consiglio di Stato ha recentemente sancito in un ricorso presentato da Italia Nostra e da altre associazioni per la
Pineta del Tombolo, che anche i boschi sono beni culturali e pertanto meritano di essere tutelati dalla
Soprintendenza. Le mozioni di PD-LEGA- Fratelli d’Italia, chiedendo al Governo di intervenire, mirano a eliminare
l’autorizzazione paesaggistica per il taglio nei boschi “di riconosciuto interesse pubblico” per favorire aziende che
operano nel settore della selvicoltura meno attente alle esigenze ambientali.


“Il parere della Soprintendenza in realtà – ha puntualizzato la consigliera del Movimento Cinque Stelle Silvia Noferi –
non istituisce niente di nuovo ma anzi chiarisce importanti aspetti legislativi che sono stati volutamente ignorati dal
Settore Forestazione della Regione Toscana, sebbene siano stati sollevati da tempo in varie sedi. La responsabilità di
questa situazione di stallo è stata quindi solo degli uffici regionali, che non hanno voluto adeguarsi al cambiamento
già predisposto anche dal TUFF in vigore dal 2018 (D.Lvo 03/04/2018 n 34 – Testo unico in materia di foreste e filiere
forestali). Nel frattempo, tutti i tagli approvati ed eseguiti in aree tutelate dall’art 136 del codice sono stati illegali.”
La lungimiranza e il senso della realtà sembrano non arrivare nell’aula del Consiglio regionale, dove si sono sentite le
argomentazioni più ridicole riguardo agli alberi visti come una sciagura, un cancro “che ha quasi raggiunto i crinali”
devastando le piante di mirtilli e la fauna, o peggio paragonati all’insalata che una volta tagliata ricresce
rapidamente! Le tesi ambientaliste difese dalla Consigliera, sono state tacciate di “estremismo, ortodossia, cose
d’altri tempi, assurde, folli, da non poter essere ascoltate”, tanto che il Presidente del Consiglio le ha permesso di
replicare per “fatto personale”: a lei va quindi tutto l’appoggio e la solidarietà di Italia Nostra.


Evidentemente nessuno si è accorto in Consiglio regionale che in Toscana ci sono problemi gravissimi di
inquinamento ambientale, di mala gestione forestale, che aumenta il rischio idrogeologico e degrada il paesaggio,
mettendo a rischio tutte le altre economie montane. Le argomentazioni opposte dai consiglieri di maggioranza, se
seguite, non andrebbero altro che ad aumentare il rischio idrogeologico in Toscana, laddove la superficie forestale è
vista come minaccia e non come protezione del territorio. Si confonde evidentemente la cura del bosco, la sua
preservazione, con il non controllo ed il taglio colturale non regolamentato. Il Consiglio Regionale mette dunque in
stato d’accusa il principio costituzionale della tutela discendente dall’art. 9 della Carta, accusando di ingerenza
burocratica le funzioni dello Stato garantite dalla Soprintendenza, quando, invece, ha avvallato, sino alla sentenza
del Consiglio di Stato, procedure di governo dei boschi in palese contrasto con la normativa vigente nazionale. Non è
dunque possibile avallare vie illegittime di gestione del territorio da parte di organi legislativi regionali.

Non possiamo neanche barattare soluzioni tecniche di gestione del bosco, come quelle proposte dalla
Soprintendenza, con allocuzioni che denotano confusione, non conoscenza, approssimazione nelle materie trattate,
sino ad espressioni di ingiuria, come sopra citato.


Mariarita Signorini
Vicepresidente Italia Nostra Toscana

LA STRATEGIA EUROPEA DI BIOECONOMIA: SCENARI, IMPATTI, TERRITORIALI, OPPORTUNITÀ E RISCHI

LA STRATEGIA EUROPEA DI BIOECONOMIA: SCENARI, IMPATTI, TERRITORIALI, OPPORTUNITÀ E RISCHI

IMPATTO SULLA BIODIVERSITÀ

Giovanni Damiani

Il destino delle società contemporanee è stato affidato all’economia e alla finanza, al liberismo globalizzato nell’illusione che questi fossero in grado di autoregolarsi, correggersi da errori e dare un futuro di progresso basato sulla previsione di una crescita continua.  La crisi ecologica, economica e sociale in corso e le disuguaglianze accresciutesi enormemente ci mostrano quanto questa previsione si sia rivelata errata e quanto tempo abbiamo perso per avviare una transizione programmata e poco traumatica. Adesso la transizione energetica ed ecologica, del vivere e del produrre, è sempre più difficile e a tratti si annuncia anche dolorosa. Si parla, oramai, di RESISTENZA, di ADATTAMENTO e di MITIGAZIONE mentre il tempo utile per agire sta per scadere e l’urgenza fattasi estrema non ci consente più di commettere errori. 

La conversione ecologica della società riguarda prioritariamente i settori dell’economia (con i suoi pesanti risvolti sociali),  del clima, della biodiversità.   Essa non può che fondarsi sull’uso di risorse naturali rinnovabili,  in sostituzione delle fonti fossili e su metodi,  stili di vita, tecnologie  e organizzazione sociale compatibili con l’ambiente, con la salute degli ecosistemi  a livello locale e globale.    

Importanza strategica in questa transizione va assegnata alle risorse biologiche, biomasse e derivati provenienti dalla fotosintesi.

L’Europa ha finalmente delineato la macrostruttura di una linea politica per una «bioeconomia sostenibile», «circolare» che intende «rafforzare il collegamento tra economia, società e ambiente».

Ma gli scenari finora delineati presentano rischi (anche di clamorosi fallimenti) e criticità su troppe questioni irrisolte o indefinite, nonché contrasti nei confronti di linee politiche avviate dalla stessa Unione Europea in altri settori tra cui il tema epocale della BIODIVERSITA’ che è intimamente legato a quello del CLIMA.

 Le specie che risultano estinte in Italia, negli anni più recenti, sono 6 sono (lo storione comune e quello ladano, la gru, la quaglia tridattila, il gobbo rugginoso; e un mammifero, il pipistrello rinolofo di Blasius).

Minacciate di estinzione in tempi probabilmente imminenti sono 161 (138 terrestri e 23 marine. Fonte: ISPRA)

Secondo la “lista rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) nel mondo 1.199 mammiferi (il 26% delle specie conosciute), 1957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%) sono minacciati di estinzione imminente.   Il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute, organismi a noi zoologicamente più vicini per la loro appartenenza alla famiglia deli Ominidi nella Classe dei Primati,  è in pericolo di estinzione.

Stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa su scala globale a causa delle attività umane, tanto che nel 2000 è stato coniato il termine “antropocene” dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen, per designare l’era attuale in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre.

Tutti gli indicatori e gli indici esistenti, senza eccezione alcuna, mostrano una situazione di grave pericolo per la biodiversità e per gli habitat connessi.

Per gli agrosistemi la situazione è ancora peggiore: il numero delle estinzioni documentate di piante di interesse alimentare o come fonte di materie prime per prodotti pregiati, è pari al doppio della somma complessiva di quelle dei mammiferi, uccelli e anfibi. 

Quando parliamo di biodiversità dobbiamo tenere ben presente che esistono ampie lacune conoscitive, anche in Italia e in Europa, che riguardano le comunità biologiche del suolo, la vita acquatica, gli insetti, il mondo dei funghi e dei batteri, la loro autoecologia, le relazioni tra le componenti biotiche degli ecosistemi e tra loro e il mondo chimico-fisico.   Pertanto i dati già preoccupanti riportati in letteratura sono riferibili a una parte del biota, vale a dire a quello che conosciamo o pensiamo di conoscere ma la complessità dei sistemi naturali è talmente grande da sfuggire alle indagini scientifiche anche molto accurate.   Batteri e microfunghi, ad esempio, sono artefici ubiquitari della scomposizione finale della materia morta  o degli escreti dei viventi  (detrito organico).   Dobbiamo a questo regno biologico vastissimo e quasi negletto le reazioni dei processi catatabolici con i quali vengono scisse le molecole organiche complesse in molecole minerali più semplici e stabili, con conseguente liberazione di energia e messa a disposizione di nutrienti indispensabili per la vita delle piante. Si stima che al mondo esistano ameno 30 milioni di specie microbiche e noi ne sappiamo coltivare circa un migliaio e ne conosciamo appena qualche decina di migliaia.

L’esistenza del ciclo di materia sostenuto da un flusso di energia solare negli ecosistemi dipende completamente dall’efficienza dei microbi saprobici per cui la loro importanza è pari a quella della fotosintesi mentre noi animali negli ecosistemi siamo utili per la velocizzazione dei cicli biogeochimici e per la quantità di materia posta in circolo, ma non tecnicamente indispensabili. Potremmo auto-espellerci da Gaia e gli ecosistemi continuerebbero ad esistere, con lentezza dei cicli, in maniera semplificata, ma rigogliosamente e senza di noi.

A livello della comunità microbica cade anche il determinismo genetico, già caduto a livello di genoma non codificante e con la scoperta dell’epigenetica perché assume forte evidenza l’importanza dei mutevoli  fattori ambientali e delle contingenze nell’adattamento e nell’evoluzione ontogenetica, filogenetica e antropologica.  La scala dell’organizzazione della materia, con l’entropia negativa crescente, inoltre, ci mostra che non esiste l’ambiente.  E’ più corretto parlare di AMBIENTI, ECOSISTEMI, tra loro correlati ed interagenti, sempre in fase evolutiva e quindi, nel tempo, mai identici a sé stessi.   Questo non vale solo per il mosaico di ecosictemi visti “in orizzontale”, ma anche verticalmente.   Il DNA ha come ambiente la cellula che è il suo “ecosistema”; lo stesso vale per un mitocondrio che tra l’altro ha un proprio DNA; un organo non è un insieme di cellule….ma è  l’ambiente in cui si trovano e operano le cellule; un individuo non è un insieme di organi nè di cellule….ma è molto di più ed è inserito in un ecosistema che può essere naturale oppure semiurbano o urbano.   Noi stessi siamo l’ecosistema del nostro microbioma intestinale (e non solo), ove il numero dei batteri simbionti che influenzano il nostro essere è superiore a quello di tutte le altre cellule del nostro organismo.  Ai vari livelli di organizzazione della materia, lungo una scala verticale,  nei vari “ambienti”, si producono proprietà  e regole aggiuntive che non erano presenti nei livelli inferiori a minore contenuto di entropia negativa. Un ecosistema pertanto non è la somma di tutti i suoi componenti ma è molto di più grazie all’integrazione della infinità di ambienti che lo compongono. La biodiversità non è la quantità delle specie presenti in un ecosistema, ma è molto di più.

Il concetto di natura e di biodiversità si sono mostrati assai più complessi di quanto si riteneva solo 20 anni fa.  Oggi appare come un mosaico pluridimensionale che include il parametro tempo, di ambienti mai completamente chiusi ma comunicanti e interattivi, con proprio ordine interno caratterizzato da grande complessità, con vari livelli di organizzazione e varie modalità di comunicazione che garantisce l’integrazione e la resilienza.  Solo recentemente abbiamo scoperto che il livello epigenetico condiziona gli organismi, lo stato di salute, gli ecosistemi con meccanismi di complessità estrema e non conosciuti. Le mutazioni adattative dettate dai meccanismi epigenetici infatti, si sono rivelati assai più veloci di quelle genetiche interpretabili u scala di generazioni con Charles Darwin, Gregory Mendel, James Watson e Francis Crick e Jaques Monod. L’ENTROPIA DEI SISTEMI ECO-BIOLOGICI non si misura con la materia, bensì con l’ordine interno al sistema esaminato, vale a dire con il livello di complessità dato dalla ricchezza e caratteristiche delle sue componenti e dalle relazioni tra le parti (quindi dalla comunicazione attraverso segnali telemediatori acustici, visivi, olfattivi ed elettromagnetici) e con quelle con il biotopo.  L’ecosistema è un mosaico di ambienti. 

A livello attuale delle conoscenze le cause della perdita di biodiversità possono essere così individuate:

  • la perdita degli habitat (conversione agricola industriale dei suoli, edificazione, infrastrutture);
  • eccessivo sfruttamento delle risorse; 
  • frammentazione dello spazio minimo vitale per le specie;
  • inquinamento;
  • interferenze endocrine
  • interferenze nei segnali telemediatori di comunicazione (suoni, colori, forme, sostanze aerodisperse che costituiscono “odori”, campi elettromagnetici)

Su tutto agisce la crisi climatica che produce riscaldamento globale, colpisce gli ambienti acquatici e il suolo con siccità e incendi, consente l’espandersi di parassitosi, provoca scompensi nell’autoecologia, eventi estremi ricorrenti,  la comparsa di specie aliene nei nostri habitat.   Per quanto riguarda quest’ultime i dati del Mediterraneo sono illuminanti.

Complessivamente, ad oggi, nel Mediterraneo sono intruse 565 specie alloctone:

  • ? 132 appartenenti al regno vegetale
  • ?25 celenterati,              ?16 briozoi, 
  • ?141 molluschi,              ?59 anellidi,
  • ?60 crostacei,                 ?12 ascidiacei, 
  • ?120 pesci.

Di queste, 185 specie sono già intruse nei mari italiani

Fonte: Commission Internationale pour l’exploration Scientifique de la Mèditerranèe

Come si pone la Strategia europea sulla bioeconomy di fronte a questo quadro?

Il peccato originale del documento “Una bioeconomia sostenibile per l’Europa” risiede nel fatto che viene individuata come destinataria degli interventi, l’industria, e il rilancio della competitività.    Da questa premessa non possiamo aspettarci molto di buono sul tema della biodiversità.  A livello agroalimentare, per esempio, chi custodisce la variabilità genetica e ha consentito la sopravvivenza di cultivar diversificati, non è certo l’industria che invece persegue la standardizzazione dei prodotti, la massima uniformità possibile e rincorre criteri di vendita competitiva su aspetti estetici dei prodotti quali colore e dimensioni e il minor numero possibile di addetti. Custode della biodiversità è invece la costellazione di produttori agricoli, di aziende artigiane tradizionali che operano sulla base di antichi saperi e che sono detentori di genotipi, anche se questi non garantiscono loro crescita importante dei profitti. Le pratiche agricole di questo tipo sono il risultato di secoli o millenni di ricerca applicata, di sperimentazioni ancorchè empiriche mosse non solo dal desiderio di conoscenza o dal legame con a tradizione, ma dalla necessità di sopravvivenza e di adeguare il loro operato alle condizioni ecologiche locali. I cultivar sono stati trasmessi nel tempo tra le generazioni e le buone pratiche connesse per tradizione orale e  il tutto è stato storicamente  condiviso  in forma cooperativa e per tradizione orale mentre il miglioramento dei prodotti è avvenuto nel rispetto delle leggi della natura, con gradualità nel tempo.    La strategia europea non considera questo grande ed effettivo giacimento di saperi né i detentori diffusi di genotipi locali coltivati in situ, mentre rischia addirittura di minacciarne l’esistenza.  Infatti focalizza, tra gli strumenti attuativi, il tema della certificazione. Ma se la certificazione riguardasse solo i prodotti industriali a cui pare rivolgersi la strategia in forma esclusiva,  potremmo creare un mondo in cui ciò che è prodotto all’infuori della sfera industriale diviene marginale e perente (se va bene), residuale (e destinato all’estinzione, se va male), o addirittura illegale (se va come vorrebbe una certa industria che non ama di certo la concorrenza, anche dei “piccoli” produttori).   Pensate cosa rischierebbe l’Italia dal punto di vista della cultura culinaria, dei prodotti tipici locali di difficile certificazione, del paesaggio agrario.  L’importanza per l’umanità della conservazione dei genotipi d’interesse agronomico non è nuova: il botanico  Nikolai Vavilov, tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso raccolse semi in 65 Paesi e fondò l’istituto che oggi è ancora attivo e conserva 350 mila specie a San Pietroburgo. Resistette con i suoi collaboratori all’assedio nazista senza toccare un solo seme mentre morivano di fame ma fu poi eliminato da Stalin. Oggi l’Istituto  Svalbard Global Seed Vault in Norvegia conserva in un bunker tra i ghiacci 7 milioni di campioni di colture da tutto il mondo. Ma quei ghiacci vanno sciogendosi. In ogni caso è solo questa la salvezza della biodiversità agronomica? Non è meglio rivolgersi alla terra, a valorizzare l’opera degli agricoltori?

Inoltre, una bioeconomia dovrebbe introdurre quanti più possibili meccanismi di cooperazione piuttosto che competitività e, per giunta, misurata come oggi avviene con il P.I.L. che notoriamente include esclusivamente gli aspetti quantitativi dei mercati mentre ignora completamente indicatori di benessere individuale e sociale  nonchè dell’ambiente . La cooperazione, le simbiosi, sono strategie vincenti in natura e nel sociale (Georgeschu Roegen).

La Strategia Europea non fa accenno alla necessità di ridurre i consumi attraverso beni durevoli né considera il fine vita dei prodotti e il loro destino rispettosi dei cicli ecologici. Per quanto riguarda la riduzione dei consumi  il rischio più grande è quello del consumo di suolo.  Se si pensa di sostituire l’impiego dei combustibili fossili, soprattutto per autotrazione, con biofluel (benzine ottenute dalla trans-esterificazione degli oli vegetali,  biogas e biocarburanti in genere)  senza ridurre drasticamente i consumi attuali, occorreranno immense distese di monocolture industriali a solo scopo energetico e il sacrificio di ambienti ed ecosistemi, con connesso incremento della perdita di biodiversità.  Procedere poi al trattamento dei rifiuti organici dell’era “bio” in impianti di gassificazione è  di scarsa efficienza termodinamica, comporta l’introduzione di una complicazione tecnologica inutile rispetto , ad es., al compostaggio aerobico, nonché impiego di risorse  e fornitura di prodotti climalteranti.  

Non prende in considerazione la necessità di ridurre la nostra insostenibile impronta ecologica, possibile  con l’avvio di un processo di abbandono della proprietà privata dei beni per transitare alla fruizione di «servizi» (Paul Hawken, Amory Lovins, L. Hunter Lovins).   Perché possedere in proprio un’automobile, un trattore, quando è possibile che restino in proprietà del produttore e che sia possibile averli a disposizione solo quando serve, a prezzi bassi, pagando solo le ore di uso e quindi il solo servizio reso?  Ciò farebbe cessare l’obsolescenza programmata dei beni costringendo il produttore a progettarli per il massimo della durabilità,  stroncherebbe il consumismo, costringerebbe a realizzare prodotti più performanti e porterebbe ad un’evoluzione tecnologica, ottimizzazione e prezzi accessibili, esattamente com’è avvenuto nel campo delle fotocopiatrici.

L’unità di analisi della Strategia continua a non essere costituita dal benessere degli individui e del complesso della società mentre in bioeconomia vanno valutati insieme a questo le relazioni fra i sistemi biologici ai vari livelli con quelli economico-sociali (G. Bateson).

In economia, a partire da quella famigliare, è decisivo conoscere e tenere sotto controllo l’ammontare del capitale, stimare le rendite, controllare le uscite, avere contezza, in definitiva,  della consistenza economica e del suo trend.  Fare diversamente comporta il rischio di fare prelievi eccessivi e di staccare assegni a vuoto con le conseguenze del caso.  Inoltre viene considerato il merito delle spese in relazione al benessere e alla soddisfazione che possono comportare.  Nella strategia della bioeconomia invece non si pone al centro la quantificazione e il monitoraggio dei flussi di prelievo dal mondo biologico per commisurare l’entità dei prelievi delle risorse alle capacità biogeniche, vale a dire di rigenerazione negli ecosistemi nei tempi dovuti.  Eppure ciò dovrebbe essere alla base della sostenibilità, assieme all’attenzione di prelevare ciò che è la “rendita” possibile dagli ecosistemi senza distruggere il capitale che quella rendita produce.  Intuizioni in tal senso sono oramai datate (l’economista Herman Daly e formulò nel 1972) ma non le vediamo trasposte nella strategia sulla bioeconomy).   La misurazione della “competitività” effettuata col P.I.L.  nulla dice dei riflessi dell’economia sul benessere dei cittadini.

L’Unione Europea produce documenti ricchi di principi generali e condivisibili  ed enfatizza l’integrazione fra tutti i settori d’intervento. Purtroppo in fase di applicazione tali principi spesso si rilevano generici e arrivano persino a produrre l’effetto contrario rispetto alle finalità originarie per cui erano stati postulati.  Un esempio è l’Agenda 2030, stilata in sede delle Nazioni Unite e fatta propria dall’Unione Europea. L’importante il documento determina gli impegni sullo sviluppo sostenibile che dovranno essere realizzati entro il 2030, individuando 17 obiettivi globali (SDGs – Sustainable Development Goals) e 169 target, prevede, d’interesse per il nostro discorso sulla biodiversità,  che:

  • L’agricoltura (Obiettivo 2) ha un ruolo di primo piano all’interno di qualsiasi prospettiva di sviluppo sostenibile, dal momento che è un settore intrinsecamente legato a questioni quali l’occupazione, l’alimentazione, l’aria, i cambiamenti climatici, le risorse idriche, il suolo e la biodiversità;  
  • Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni” (obiettivo 7);
  • Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti (obiettivo 8).        
  • Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (obiettivo 12).    
  • Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (obiettivo 13), 
  • Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile (obiettivo 14).   .   
  • Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno e fermare la perdita di diversità biologica (obiettivo 15).

L’Unione però dispone incentivazioni statali all’impego delle biomasse legnose ad uso energetico-industriale che oltre a contraddire i predetti principi perché apre ai disboscamenti,  si pone in contrasto con numerose direttive, dalla Direttiva Habitat 92/42/CEE  passando per la Framework Water Directive (FWD 60/2000/CE) che istituisce un quadro europeo per la difesa dell’acqua, ancorato molto alla difesa e al ripristino della biodiversità degli ambienti acquatici)  alla 2007/60/CE  concernente la difesa dalle alluvioni.  Il disboscamento contrasta inoltre con gli impegni sul clima assunti con gli accordi nel corso della  COP 21 di Parigi nel dicembre 2015.

Il rischio della Strategia sulla bioeconomy, pertanto, è che si possa procedere alla sostituzione dei combustibili fossili per produrre energia con le biomasse legnose, cellulosiche e organiche in genere.

Questo rischio va monitorato e scongiurato per i seguenti motivi:

Bruciare massivamente legno o materia organica, non è neutrale rispetto alle emissioni di carbonio in atmosfera, come si vuol far credere da parte di settori che lucrano su queste attività, appoggiati da qualche accademico, ma è, al contrario, fortemente aggravante della crisi climatica .  L’anidride carbonica emessa, infatti, non è solo quella che deriva dal legno combusto e quindi dal carbonio accumulato dall’albero attraverso la fotosintesi. Vanno considerate le emissioni prodotte nelle fasi del cantiere forestale per l‘approvvigionamento delle biomasse: consumi di carburante per le macchine operatrici, per l’apertura di piste nel bosco, per il taglio dei tronchi e dei rami, per l’accatastamento, per l’esbosco, trasporto, per il carico su camion fino alla nave o ferrovia dirette alla centrale elettrica, per lo scarico, per la cippatura e riduzione i pellet… Se solo si analizza il bilancio complessivo delle operazioni di filiera già si vede che la presunta neutralità non esiste, ma c’è di più. L’uso energetico delle biomasse :

? richiede approvvigionamento notevole di materia prima perché il legno ha un basso potere calorifico;

?  non considera il fattore tempo di rinnovazione del bosco e il tempo di perdita di funzione: mentre la combustione aggrava immediatamente la crisi climatica, alberi piantati ex novo dovranno crescere e passeranno decenni prima che possano svolgere le stesse funzioni di quelli distrutti (ecosistemiche e di assorbimento della CO2) e tutto questo tempo invece per fronteggiare la crisi climatica non c’è;

?  non considera, per le biomasse legnose, che buona parte del carbonio non si trova solo nel tronco e nei rami ma anche nel suolo: la lettiera e l’humus assorbono carbonio fino ad 8 volte più che il legno e lo immobilizzano per tempi lunghissimi;

?  non considera la quota, rilevante, di carbonio esalato dalla respirazione delle radici dell’albero, che non interessa l’aria ma viene assorbito nel sottosuolo perché si discioglie come acido carbonico nell’acqua  e questo acido debole, nell’interazione con le rocce, regola il ciclo dell’acqua dal punto di vista quantitativo e qualitativo;

?Sottrae carbonio ai suoli ove costituisce fattore di fertilità, per immetterlo in atmosfera ove è già in  concentrazioni eccedenti i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale.  Così il suolo “muore di fame” e  l’atmosfera  “di indigestione”.

Inoltre la combustione delle biomasse legnose produce inquinamento atmosferico soprattutto da PM10 e da PM2,5 ,  più di qualsiasi altra fonte producendo migliaia di morti premature/anno.

Una strategia sulla bioeconomy dovrebbe pertanto, per coerenza e affidabiltà, intanto revocare gli incentivi statali alle biomasse e rinunciare soprattutto all’utilizzo energetico industriale del legno  e chiarire, senza possibilità di equivoci,  che il suo uso va ammesso e incentivato per tutte le finalità nobili, in sostituzione della plastica, come materiale da opera per cantieristica navale, infissi, pavimenti, tetti, case, strumenti musicali…  Basterebbe scrivere che il legno va utilizzato in qualsiasi modo purchè il carbonio in esso contenuto resti il più possibile allo stato solido.  Sostenibilità significa rispettare il patrimonio arboreo esistente e incrementarlo a partire dagli ambienti urbani e periurbani. E’ possibile, secondo calcoli attendibili, lasciare indisturbato alla libera evoluzione naturale almeno il 50% del patrimonio forestale italiano perchè le foreste non sono solo serbatoi di legname, ma svolgono una molteplicità di funzioni sul clima, sul ciclo dell’acqua, sulla qualità dell’aria e sono scrigno di biodiversità.   Il restante 50% può fornire utilità se gestito con criteri di selvicoltura ecologica, nel rispetto delle funzioni ecosistemiche anche potenziali, della biodiversità, del paesaggio.

Una bioeconomia effettiva, in conclusione, non può basarsi sull’uso energetico delle biomasse siano esse solide, liquide o gassose. Intraprendere una strada simile significa tra l’altro un ritorno al passato, al medio-evo quando c’era solo il legno per riscaldarsi, cuocere i mattoni, lavorare il ferro e il vetro. Significa ancora  e distrarre l’attenzione, gli sforzi, i finanziamenti e gli interventi dalla rivoluzione energetica del futuro che bussa alle porte e che è basata sull’impiego dell’idrogeno  quale vettore energetico, prodotto per elettrolisi  dell’acqua da fonti pulite, appropriate e rinnovabili.

L’ANNULLAMENTO DEL PIANO PAESAGGISTICO DEL LAZIO GETTA NUOVE OMBRE SUL TSM

L’ANNULLAMENTO DEL PIANO PAESAGGISTICO DEL LAZIO GETTA NUOVE OMBRE SUL TSM

Anche le forzature sulla disciplina dei paesaggi montani hanno contribuito all’annullamento del Piano  Territoriale Paesaggistico Regionale del Lazio; una occasione per ripensare le strategie per le montagne del  Lazio e arrestare la devastazione del Terminillo  

La Corte Costituzionale, con sentenza pubblicata pochi giorni fa, ha annullato il Piano Territoriale  Paesaggistico Regionale (PTPR) del Lazio, e lo ha fatto perchè la Regione Lazio ha violato il principio di leale  collaborazione tra istituzioni.  

Il testo del PTPR concordato con il MiBACT come legge impone, infatti, avrebbe dovuto essere approvato tal  quale dal Consiglio Regionale, che di converso ha licenziato un testo modificato in più parti e contenente  norme che scardinano l’obbligo di copianificazione Stato-Regione e che allentano le tutele di molti beni  paesaggistici tra cui le aree montane, dove il PTPR manomesso avrebbe consentito la realizzazione di impianti  sciistici, impianti di innevamento artificiale e attrezzature ricettive al di sopra della fascia dei 1200 metri.  

Questa disattenzione nei confronti della tutela paesaggistica della montagna purtroppo non sorprende.  

Da anni – attraverso le ripetute osservazioni presentate nell’ambito delle procedure di VIA del progetto  Terminillo Stazione Montana (TSM) – il Comitato del #noTSM ha rilevato come la Regione Lazio interpretasse  in maniera ingiustificatamente estensiva le norme del PTPR, e come tali interpretazioni collidessero in  maniera sostanziale anche con le Direttive Comunitarie, il tutto per consentire la realizzazione di un progetto  devastante per il paesaggio e per l’ambiente, economicamente fallimentare e posto fuori dal tempo dal  climate change.  

Duole constatare che fino ad oggi questa insensibilità regionale è stata sostanzialmente condivisa dalla  Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Province di Frosinone, Rieti e Latina, che ha già  emesso parere paesaggistico positivo sul TSM nonostante al tempo di formazione dell’atto fossero in vigore  le norme più restrittive di quelle successivamente manomesse dalla Regione Lazio.  Il nostro auspicio è che questa vicenda spinga la Regione Lazio a considerare con maggiore consapevolezza  la tutela paesaggistica del suo territorio, e che tale consapevolezza si estenda anche alle strutture periferiche  del MiBACT.