San Rossore, l’unità del tutto e la mente dell’astronauta

San Rossore, l’unità del tutto e la mente dell’astronauta

Una colata di cemento minaccia ancora l’area contigua al Parco di San Rossore, all’interno della quale il Governo aveva previsto la costruzione di una cittadella militare. Un progetto che è ora in forse ma non è ancora stato del tutto cancellato, nonostante le forti proteste dei cittadini e delle associazioni che hanno fatto una grande manifestazione il 2 giugno, festa di quella Repubblica la cui Costituzione prescrive la difesa dell’ambiente e della biodiversità come bene comune.

Nonostante gli spiragli aperti circa l’abbandono dell’idea di realizzare l’opera all’interno del Parco Regionale, in un’area di grande pregio naturalistico e agricolo, ricco di fauna, resta alta la preoccupazione sulla realizzazione dell’opera in sé stessa, anche se il progetto dovesse essere spostato appena oltre i confini protetti. Si tratterebbe in ogni caso di consumo di suolo, disturbo per la biodiversità degli agro-ecosistemi e di nuovo smacco al territorio naturale, ora tutelato dalla Costituzione e alla luce della nuova Strategia europea sulla biodiversità per il 2030, che prevede l’estensione al 30% della superficie terrestre e marina protetta.

Si evidenzia poi il pessimo utilizzo dei fondi del PNRR (che finanzia la discussa opera militare), che destina briciole alla conservazione della biodiversità e ulteriori importanti fondi alla Difesa, che pure nel bilancio ordinario dello Stato conta già su ingenti risorse. Il Green Deal, solennemente annunciato e fortemente promosso, non può essere una simulazione ma deve rappresentare ovunque, in Toscana e in ogni parte del mondo, un cambiamento concreto.

Non solleviamo certo obiezioni sulla necessità della difesa della Patria, discutendone democraticamente i modi, ma c’è da dire che l’idea di “difesa” che anima questa scelta è inaccettabile perché riduttiva, limitata e parziale. Anche noi GUFI ci riteniamo, per nostre competenze, “addetti alla difesa”, ma non la recintiamo all’interno del perimetro contingente e militare: difendiamo i boschi, le foreste, il patrimonio comune da cui dipende la vita di tutte le generazioni che verranno e per questo difeso dall’art. 9 della Costituzione che peraltro è stato oggetto di estensione recente tra i princìpi fondamentali e irrinunciabili, agli ecosistemi ed alla biodiversità.      

Il caso è emblematico della miopia dell’essere umano, che non riesce a pensare in termini globali e a vedere la Terra per quello che è: un unico grande ecosistema di cui tutti facciamo parte e da cui dipende la sopravvivenza di ognuno di noi. Le ragioni dell’ambiente vengono costantemente messe in secondo piano di fronte alle esigenze umane, come se un ambiente sano non rientrasse tra queste esigenze.

Il 2022, con il ritorno della guerra in Europa, ci sta dimostrando più che mai quanto sia forte questo antropocentrismo e quanto le divisioni tra noi umani riescano sempre a essere più forti degli appelli all’unità dei popoli nel fronteggiare le minacce del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità.

Nel 2019 i temi ambientali erano (finalmente) sulle prime pagine di tutti i giornali, anche per merito delle proteste di organizzazioni come i Fridays for Future ed Extinction Rebellion. Se ancora eravamo ben lungi dal prendere misure adeguate per arginare la catastrofe in corso, si cominciavano a vedere maggiori segnali di consapevolezza nell’opinione pubblica e sui media e qualche timido provvedimento politico a livello internazionale. Tutte cose che, seppur ancora insufficienti, potevano far sperare in un cambio di direzione dell’umanità.

Tutto questo è stato spazzato via negli ultimi due anni: la pandemia prima e la guerra poi hanno monopolizzato la nostra attenzione e il tema dell’ambiente è tornato a essere, di nuovo, l’ultima delle nostre preoccupazioni. Mentre la nostra casa brucia, siamo troppo occupati a ucciderci tra noi per fermarci anche solo il tempo necessario a spegnere l’incendio. Chiunque esca vincitore si troverà comunque con una casa in cenere, ma sembriamo non curarcene.

Questa poca lungimiranza è uno dei grandi difetti dell’essere umano, che con tutta la sua intelligenza non riesce a pensare oltre all’immediato e a ragionare sul lungo periodo.

Ma ciò che è più grave è che sembriamo vedere solo quello che ci divide e non quello che ci unisce. Non riusciamo ad acquisire la consapevolezza di essere un’unica specie. La nazionalità, l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, la religione, le opinioni politiche: sono infiniti i modi che ci siamo inventati per dividerci (e discriminarci, e spararci) tra di noi, per non vedere che siamo tutti, innanzitutto, terrestri. Sentirci terrestri ci obbligherebbe a ricordarci che sono tali anche piante e animali non umani, e a rinunciare ai nostri atteggiamenti predatori nei loro confronti. Ci obbligherebbe a specchiarci in ogni altro essere vivente e rinunciare alla violenza e alla prevaricazione. Ci obbligherebbe a considerare un’area naturale protetta più importante di una base militare.

Le pandemie causate dal degrado ambientale, le guerre e il riscaldamento globale hanno la stessa matrice, nascono dalla stessa fallacia logica: non riconoscere l’unità del tutto, il nostro essere non solo connessi, ma dipendenti da tutto il resto.

Ma è davvero impossibile per l’essere umano ragionare diversamente?

È interessante notare come la consapevolezza dell’unità del tutto sia invece estremamente presente nei (pochissimi) esseri umani che hanno goduto di una visione d’insieme che la maggior parte di noi non sperimenterà mai, cioè gli astronauti. Molti di loro, al ritorno sulla Terra, hanno dichiarato che guardarla da lontano, così piccola e fragile nell’universo, ha completamente cambiato la loro prospettiva: un fenomeno chiamato “overview effect”.

“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini.
(Jurij Gagarin, osservando la terra dall’astronave Soyouz)”

Guardare il mondo dalla Cupola è indescrivibile. Si ha il senso di fragilità del pianeta Terra, con la sua atmosfera sottilissima, e dell’incredibile bellezza di questo gioiello sospeso nel velluto nero dello spazio.
(Luca Parmitano, astronauta italiano)

Nello spazio sviluppi una coscienza globale immediata, un sentimento verso le persone, un’intensa insoddisfazione verso la situazione del mondo e una compulsione a fare qualcosa per questo. Da qui fuori sulla Luna, i politici internazionali sembrano così insignificanti. Tu vorresti prendere uno di loro per la nuca, trascinarlo fuori a un quarto di milioni di miglia dalla Terra e dirgli “Guarda questo!”.
(Edgar Mitchell, astronauta statunitense dell’Apollo 14)

La maggior parte di noi non andrà mai nello spazio, ma dobbiamo imparare dalle parole di chi ci è stato, e acquisire quella visione d’insieme che è l’unica cosa che può fermare ogni tragedia, dalle guerre al riscaldamento globale.

Estendiamo, quindi, il concetto di “difesa” anche alla natura e le nostre azioni di conseguenza: chiediamo al Governo un ripensamento che porti a ridimensionare il progetto (francamente appesantito da cose che nulla hanno a che fare con le esigenze militari), a rivederne la localizzazione e la ratio.  Lavoriamo per una difesa integrata, e lasciamoci influenzare dall’ overview effect.

Il Valore del bosco: due scuole di pensiero

Il Valore del bosco: due scuole di pensiero

di Bartolomeo Schirone

Sugli incendi forestali, come su altri temi che riguardano le foreste, oggi si danno per assunti e scontati alcuni concetti che fino a qualche anno fa non lo erano per nulla. E non mi riferisco all’opinione pubblica in generale, ma proprio al mondo forestale.

Io sono laureato in Biologia, ma ho cominciato ad occuparmi di argomenti forestali quando ero ancora studente universitario e per svolgere delle ricerche bibliografiche frequentavo la biblioteca dell’Istituto di Selvicoltura della mia università.  Poi, il mio interesse per quelle discipline aumentò progressivamente fino a farmi decidere che era quello in settore al quale dovevo dedicarmi. Anche perché il mio mentore era Ervedo Giordano, un perfetto professore di selvicoltura scomparso l’anno scorso, la cui cultura generale e apertura mentale nei confronti dei temi scientifici erano veramente rare e nascevano anche dal fatto che aveva davvero viaggiato per mezzo mondo e conosciuto ambienti e persone di ogni tipo1). Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta e, a livello europeo, si potevano distinguere nettamente due diversi approcci alla gestione del bosco: quello che per comodità potremmo definire di impostazione tedesca, e che oggi impera nella maggior parte dei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, e quello a prevalente matrice francese.

Nel primo caso, l’impostazione è di tipo economico-produttivistico e interpreta il bosco come una realtà che deve essere dominata, uniformata e quasi geometrizzata per fornire un solo prodotto, quello legnoso, nella maggiore quantità e migliore qualità possibile. A tal fine, l’insieme delle tecniche colturali adottate rendono la selvicoltura nordica qualcosa di veramente molto simile all’agricoltura. In pratica, si taglia il bosco, si ara il terreno e si mettono a dimora nuove piantine forestali tutte uguali e disposte con grande precisione su file parallele, grazie anche alla meccanizzazione spinta di tutte le operazioni. Alla fine del ciclo colturale, il bosco si taglia e si ricomincia daccapo. In effetti, i boschi svedesi o finlandesi, apparentemente molto belli, sono in assoluto tra i più poveri di biodiversità.

Il secondo approccio alla gestione della foresta, che ha visto i francesi tra i massimi teorizzatori, è di stampo decisamente più naturalistico nel senso che cerca, per quanto possibile, di rispettare l’ecologia dei popolamenti forestali e, soprattutto, non prevede l’ossessivo ricorso alla piantagione successiva ai tagli di utilizzazione, ma dà spazio alla rinnovazione naturale del bosco, quella che si genera a partire dai semi liberati dagli alberi stessi.

A questo secondo indirizzo si è sempre ispirata la Scuola Forestale Italiana che, a partire dal primo dopoguerra, aveva già assunto un suo specifico profilo e aveva espresso figure di elevato spessore scientifico a cominciare dal capostipite, quell’Adolfo di Bérenger, tedesco di nascita, francese di famiglia, austriaco di formazione e italiano per cultura e vocazione, che promosse la fondazione del Regio Istituto forestale  (inaugurato a  Vallombrosa nel 1869 e di cui divenne il primo direttore), segnando l’inizio della selvicoltura in Italia.  Ma va subito sottolineato che Di Bérenger non era un semplice forestale: aveva un laurea in filosofia, era poliglotta, era un fine cultore della storia e della letteratura greca e latina che studiava direttamente dai testi in lingua originale, aveva un diploma in Scienze Naturali, era un capace botanico e un ecologo sapiente tanto da intrattenere proficui rapporti culturali – e di amicizia personale – con George Perkins Marsch, considerato da molti come il primo ecologista americano, il quale giunto in Italia come ambasciatore degli Stati Uniti, trascorse i suoi ultimi giorni proprio a Vallombrosa.

La Scuola Forestale Italiana nasce, quindi, in un’effervescente e feconda atmosfera culturale in cui il confronto tra forestali, botanici, naturalisti, ecologi e altri intellettuali era continuo, corretto e costruttivo e i ruoli degli uni erano molto spesso scambiabili con quelli degli altri. E devo dire, in tutta onestà, che quest’aria si respirava ancora negli anni Settanta nonostante qualche tendenza all’arroccamento corporativo dei forestali che, negli anni del Fascismo, si erano in qualche modo “militarizzati”, per così dire. Però il dialogo tra esponenti del mondo forestale e di quello dei naturalisti continuava proficuo perché ambedue le categorie avevano come riferimento concettuale e principio informatore delle loro attività la conservazione delle foreste. La differenza di visione si riduceva, per dirla con il mio amico Spada, nell’ordine delle azioni: Conservare per rinnovare vs Rinnovare per conservare.

È certo che l’obiettivo comune a tutti i forestali di quegli anni, docenti universitari o dipendenti dell’Amministrazione Forestale dello Stato era il medesimo: aumentare le provvigioni dei nostri boschi, estenderne le superfici e aumentarne la complessità. Il modello di riferimento, teorizzato da Lucio Susmel, era la fustaia mista disetanea. Si mirava, per quanto possibile, a ridurre le superfici delle tagliate e, pur nella consapevolezza che il governo a ceduo era una realtà inevitabile per alcuni territori, si promuovevano le conversioni. Egualmente, si studiava ancora il carbone da legna, ma la navigazione seguiva la rotta che portava all’incremento della produzione di legname da opera e non di legna da ardere. E che ciò fosse possibile, lo si dimostrava. Non mi stancherò mai di ricordare, infatti, che Parchi nazionali come quello delle Foreste Casentinesi o del Gargano sono stati istituiti per conservare Foreste restaurate, plasmate e sapientemente gestite dai Forestali dell’allora Azienda di Stato per le Foreste Demaniali.

Lo spirito di quei tempi si ritrova ancora negli Atti del Secondo Convegno Nazionale di Selvicoltura tenutosi a Venezia nel giugno del 1998.  L’accento è sempre sul valore dei boschi legato alla loro conservazione che sola può garantire un futuro che vada oltre il prodotto. Ad esempio, nella sua mirabile relazione, Alfonso Alessandrini, allora Direttore Generale delle Foreste e dell’Economia Montana presso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, già parla di progetti di restauro dei boschi italiani, da condurre addirittura con gli industriali del legno per aumentare le provvigioni, per ridare dimensione alle foreste. E gli fa eco, nello stesso convegno, Franco Arquati, industriale del legno, che parla di restauro forestale, conversioni all’alto fusto e occupazione giovanile. Per contro, Alessandrini si scaglia contro la pianificazione ossessiva del territorio e degli interventi forestali. Sue parole: “In Italia c’è un fervore, quasi ossessivo di pianificazione, di carte. C’è il rischio di fatti ripetitivi ed invasivi se non offensivi” e continua parlando di “esigenza di ambiente naturale”.

Tale idea della foresta e del ruolo dei forestali non si è persa del tutto, ma non posso non osservare che accanto a questa scuola di pensiero, ovvero ai suoi ultimi epigoni, ne sta crescendo prepotentemente e con gran vigore un’altra che propone una visione affatto differente, una che arriva a dire che i boschi sono troppi e sottraggono terreno alle attività produttive. La svolta, o diversificazione, come vogliamo chiamarla, si è avuta proprio a partire dall’inizio degli anni Duemila e la ragione non sono riuscito a capirla fino in fondo. Forse è collegata con la nascita e il prodigioso sviluppo delle nuove tecnologie digitali che consentono di fare in brevissimo tempo e con grande comodità operazioni che prima richiedevano grande dispendio di energie. La conseguenza è che il lavoro forestale è diventato sempre più un’attività in smart working non impegnando il ricercatore o il professionista in lunghe “sessioni” in natura. La frequentazione del bosco è diventata un complemento non sempre necessario e non sempre gradito.

Gli esiti di questa nuova visione della foresta si ritrovano tutti nella legge n.34 del 2018 “Testo Unico in materia di Foreste e di Filiere Forestali”, detto TUFF, e nella recente Strategia Forestale Nazionale che ad essa si collega. Si tratta di un provvedimento che, per la prima volta rispetto a tutti i precedenti analoghi, ha suscitato l’indignata protesta del mondo degli ecologi, dei naturalisti e dei botanici a partire da ben tre ex presidenti della Società Botanica Italiana, anche perché nessun rappresentante di queste categorie di esperti è stato chiamato a collaborare alla stesura della legge nonostante non si possa dire, né si era mai detto prima, che il bosco sia di competenza esclusiva dei forestali. Ma alla protesta si sono uniti anche non pochi vecchi forestali e docenti, compreso il sottoscritto, per l’impronta produttivistica di stile nordico posta al centro delle attività forestali.

Ma cosa c’è di discutibile in questi testi? A mio avviso molte cose, ad iniziare dalla terminologia utilizzata perché, nel tentativo di cercare nuovi percorsi semantici che evidenziassero il carattere innovativo del prodotto, si è peccato di imprudenza. Infatti, l’insieme delle azioni mirate a conservare e migliorare i boschi italiani – come enunciato nell’art. 1, Principi – nella prima bozza della legge viene definito “Gestione attiva” della foresta. Subito dopo viene spiegato che la “Gestione attiva” non è altro che il complesso dei tagli possibili. Poi, forse anche sull’onda delle proteste, ci si rende conto che l’espressione “Gestione attiva” non è la più conveniente e si scrive che “gestione attiva delle foreste” è espressione equivalente a “gestione sostenibile delle foreste”. Ora, premesso che il vocabolario italiano non agevola tale equivalenza, io ritengo che si sia commesso un errore di fondo. Le modalità di taglio del bosco (la cosiddetta gestione attiva secondo il TUFF) sono uno degli oggetti principali della selvicoltura, scienza empirica che nasce dall’esigenza di guidare gli interventi di prelievo legnoso dal bosco senza degradare il medesimo, anzi garantendone la perpetuazione. La selvicoltura, che raccoglie un plurisecolare patrimonio di esperienze, si pone proprio l’obiettivo di trarre un utile dalla foresta danneggiandola il meno possibile ossia assicurando la conservazione dell’efficienza dei meccanismi che ne regolano gli equilibri vitali. In altri termini, la selvicoltura è di per sé sostenibile e non può essere altrimenti. Chi non pratica una selvicoltura sostenibile, ossia la selvicoltura tout court, non è un forestale, ma un incompetente di madre culturale ignota. D’altra parte, il famigerato aggettivo “sostenibile”, nasce e può trovare applicazione solo in ambiente economico e industriale, lì dove si continua ad evocare il famoso quanto ambiguo “sviluppo sostenibile”. Non per nulla, l’aggettivo “sostenibile” non è stato adottato nel mondo delle scienze d base e di quelle che si riferiscono agli organismi viventi. Non esiste certamente una matematica o una fisica sostenibile, ma nemmeno una biologia sostenibile e nemmeno una medicina e chirurgia sostenibili. Immaginate una “clinica oculistica sostenibile”; a uno che per sbaglio va in una clinica oculistica che non reca la dicitura sostenibile che fanno? Gli cavano un occhio? Cerchiamo quindi di essere più precisi e coerenti altrimenti ci facciamo male da soli. Di recente ho sentito parlare addirittura di corsi di laurea in Gestione Sostenibile delle Foreste. Ma perché? Esistono in qualche università italiana corsi di laurea in Gestione Insostenibile delle Foreste? Non capisco davvero cosa si voglia intendere. La selvicoltura, quella con la S maiuscola, ancorché finalizzata alla produzione legnosa, non può non essere sostenibile e di conseguenza il vero forestale conosce solo la gestione sostenibile della foresta. Punto.

Non posso e non voglio dilungarmi, perché il tempo non lo consente, sui tanti altri aspetti che fanno divergere il vecchio pensiero forestale da quello più giovanile, ma non posso evitare un accenno ai cosiddetti servizi ecosistemici ai quali sia il TUFF che la Strategia Forestale Nazionale fanno ampio riferimento. Negli anni Settanta si parlava di tre funzioni del bosco: produttiva, protettiva e culturale-ricreativa. Adesso queste funzioni sono state addirittura suddivise in sottocategorie e si parla di almeno quattrodici tipologie di servizi ecosistemici. Dopodiché si offrono dei suggerimenti per gestire il bosco in modo che esso possa garantire questi servizi. Ora, sorvolando anche sul fatto che il bosco non è nato per erogare servizi, agli esperti che si sono impegnati nella stesura di questi testi è sfuggito, a mio parere, che l’ecologia e la stessa termodinamica avvisano che l’insieme dei servizi ecosistemici può essere fornito solo da un ecosistema integro. Tanto più è perturbato il bosco, tanto meno può risultare servizievole. Ciò significa che sarebbe opportuno approfondire l’argomento per arrivare a produrre un abaco che metta in relazione lo stato della foresta con gli eventuali ecoservizi che la stessa può erogare perché la generalizzazione può essere fuorviante. Infatti, gli ecoservizi offerti da un ceduo a turno breve sono ben pochi, almeno così credo.

Il problema di fondo, comunque, è che dopo tanti anni di evoluzione positiva delle idee sulla natura degli ecosistemi forestali e del rapporto uomo-bosco, si è tornati ad una visione di tale rapporto che considera l’uomo soggetto esterno e dominante, tanto che tocca sentire nuovamente circolare, anche in ambienti universitari, la fandonia secondo cui “il bosco ha bisogno dell’uomo” perché senza la selvicoltura il bosco muore. E il paradosso è che tutte le indicazioni fornite dal TUFF e dalla Strategia Forestale Nazionale non portano, come volevano i vecchi forestali, verso un incremento della complessità – che forse potrebbe richiedere l’intervento dell’uomo – ma verso una semplificazione sempre maggiore dei soprassuoli. La forma di governo prevalente sta tornando ad essere il ceduo perché i popolamenti invecchiati non vengono convertiti a fustaia, i turni si accorciano, le superfici assoggettate al taglio diventano più ampie e anche la lotta agli incendi boschivi ormai si risolve prima di tutto in nuovi tagli, una delle principali declinazioni della recentissima quanto aberrante selvicoltura “preventiva”!

Questa è, a mio avviso, la più triste e pericolosa conclusione di questa vicenda: per questo tipo di gestione attiva e preventiva del bosco basta un taglialegna, il forestale non serve più. Qualcuno dirà che questo è il futuro di tutte le professioni, compreso l’intero mondo della scienza. È vero, come stiamo già osservando, il lavoro del ricercatore non servirà più perché verrà sostituito dall’intelligenza artificiale. Nel frattempo, però, mi piacerebbe si usasse ancora l’intelligenza naturale.

  1. Molto devo anche al prof. Raffaello Giannini, all’epoca il più giovane Ordinario di Selvicoltura d’Italia, che, per far capire lo spirito del tempo, era anche il Delegato regionale del WWF per la Puglia.
Proteggere i boschi cedui che hanno passato il turno di taglio

Proteggere i boschi cedui che hanno passato il turno di taglio

La direttiva dei Carabinieri Forestali e come il cittadino può farla rispettare

Recentemente è stato attaccato molto duramente il comando dei Carabinieri forestali per una direttiva operativa, firmata dal Comandante in persona, in cui si danno disposizioni alle stazioni forestali di perseguire come taglio illegale di fustaia le utilizzazioni in cedui che hanno superato di una volta e mezzo il turno minimo fissato dalle leggi regionali (diversi da una regione all’altra, ma mediamente intorno ai 20 anni per i cedui di querce, 25 per quelli di faggio e 15 per quelli di castagno). 

Intendiamo esprimere piena solidarietà ai Carabinieri forestali contro questa dura presa di posizione del settore delle ditte forestali e appoggia le linee di politica forestale a favore del taglio raso espresse da molte regioni e dallo stesso Ministero dell’Agricoltura.

La nostra Associazione saluta invece con molta soddisfazione questa chiara e netta presa di posizione dei Carabinieri Forestali a tutela delle funzioni ecologiche dei boschi, che pone finalmente argine al dilagare produttivistico delle politiche forestali regionali, in tutto inclini a favorire gli operatori economici della filiera delle biomasse.

Il vertice dei Carabinieri forestali è stato accusato di scarsa collaborazione istituzionale, per avere imposto una lettura unilaterale della legge forestale senza consultare le regioni. Noi crediamo Invece che i Carabinieri, giustamente, abbiano inteso rispondere e fare riferimento soltanto alla legge, applicando una lettura del tutto in linea anche con le recenti ed importantissime modifiche costituzionali a favore dell’ambiente. Pensiamo piuttosto che la scarsa collaborazione istituzionale venga proprio dalle regioni, che continuano ad approvare leggi eversive del nostro ordinamento costituzionale. Non da ultima regione Toscana, che ha approvato una discutibilissima modifica della legge forestale, in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, con il codice della tutela del paesaggio e con lo stesso testo unico forestale, già impugnata dal governo di fronte alla Corte Costituzionale.

Auspichiamo adesso che i reparti dei Carabinieri forestali, in tutte le loro articolazioni territoriali, applichino fedelmente quanto disposto dal loro vertice.

Invitiamo inoltre tutti i cittadini a collaborare con gli organi di controllo, segnalando i tagli di bosco ceduo in cui risulta probabile l’avanzata età degli alberi. Per questo motivo intendiamo dare alcuni consigli pratici per rendere la segnalazione di ogni cittadino uno strumento efficace in mano ai Carabinieri forestali.

Per verificare l’età di un bosco è necessario contare gli anelli delle ceppaie recise sui Polloni del ceduo, facendo attenzione ad escludere le matricine tagliate. Quest’ultime si riconoscono bene perché la loro ceppaia ha la chiara forma di un cono molto schiacciato, mentre la ceppaia dei Polloni evidenzia maggiori irregolarità. Osservando una ceppaia è facile riconoscere le sezioni di taglio di ogni singolo Pollone e, con un po’ di attenzione, distinguere gli anelli di accrescimento. Per avere un dato più attendibile, è buona regola contare gli anelli di almeno cinque o sei ceppaie sparse sull’aria di taglio. Per facilitare l’individuazione degli anelli è meglio portarsi dietro un pezzo di carta vetrata non troppo fine e, eventualmente, spargere sulla sezione di taglio un po’ di terriccio raccolto intorno, o versare sopra dell’acqua in modo da evidenziare meglio la discontinuità degli anelli di legno.

Il secondo passo da fare è quello segnare la ceppaia con un segno evidente ed indelebile, ad esempio con una bomboletta di vernice spray spruzzata fuori dalla sezione di taglio. Il terzo passo è quello di scattare una foto più nitida possibile alla sezione di taglio, in modo che gli anelli possano essere contati anche dalla foto. Prima di scattare la foto e buona regola poggiare sulla sezione di taglio del pollone un oggetto che permetta di avere un’idea delle dimensioni dell’albero tagliato punto la miglior cosa sarebbe usare un righello graduato. Se si ha un pennarello indelebile, è buona regola numerare ogni ceppaia scrivendo la cifra In modo tale che non disturbi la conta degli Anelli. A questo punto è possibile scattare la foto, più nitida possibile, avendo cura di inquadrare tutti gli elementi elencati: il righello, il numero, e anche il segno di vernice, che sarà molto importante in seguito per ritrovare la ceppaia dentro all’area di taglio e riconoscerla. Sarebbe ottimale associare ad ogni foto un punto di coordinate note, preso appoggiando un semplice smartphone sulla ceppaia e utilizzando una delle tante applicazioni GPS che si scaricano dal web (ad esempio “stato GPS”).

Una cosa molto importante da non dimenticarsi è quella di prendere la posizione dell’area che si sta esaminando. Per far questo è sufficiente aprire, ad esempio, l’applicazione di Google Maps, aspettare che il GPS ci indichi la posizione sulla mappa (generalmente un punto di colore blu), tenere premuto per 3 secondi il dito su tale punto, creando così un segnaposto, toccando in basso il pulsante di condivisione e scegliendo l’opzione di “copia negli appunti”. Poi si apre una app per appunti, ad esempio “blocco note”, e si incolla il link di Google Maps che ci porta a quella posizione. 

Adesso la cosa migliore è organizzare tutto su un file word, scrivendo una breve relazione su quello che si è visto, e incollando le foto prese, magari corredate da una breve didascalia dove si indicano gli anelli contati e le coordinate della ceppaia. Poi si incolla il link della posizione del cantiere forestale ricavata da Google Maps. A questo punto la segnalazione può anche essere mandata per mail all’indirizzo della più vicina struttura dei Carabinieri forestali, avendo cura di indicare tutte le proprie generalità: nome cognome data e luogo di nascita, indirizzo di residenza e numero di telefono dove è possibile essere contattati per maggiori chiarimenti. Bisogna poi allegare all’email anche una copia di un documento valido.

Dobbiamo imparare a collaborare bene ed efficacemente con le istituzioni, senza limitare la nostra azione di cittadinanza attiva soltanto alla pubblicazione di post sui social, che sono comunque importanti per segnalare le criticità incontrate durante la nostra attività quotidiana.

La caccia al lupo non è la soluzione

La caccia al lupo non è la soluzione

Dr. Osvaldo Locasciulli, zoologo

Sono rimasto profondamente contrariato dalle gravi affermazioni di questi giorni del Ministro Roberto Cingolani in cui apre alla possibilità di abbattimento dei lupi.

Coloro che hanno un minimo di conoscenza di zoologia e della biologia della specie sanno che il lupo si pone al vertice della catena alimentare e non si porterà mai numericamente al di sopra delle disponibilità trofiche del territorio, perché le sue popolazioni aumentano o diminuiscono in relazione alla disponibilità alimentari.

La gestione dei predatori apicali è estremamente delicata e decisioni inappropriate hanno con grande probabilità delle conseguenze negative molto significative sugli ecosistemi, sul benessere e sulla economia delle persone e delle aziende che in questi territori risiedono e operano. È quindi irrinunciabile che questi argomenti vengano trattati da personale professionalmente competente, nel rispetto dei criteri scientifici più elementari, piuttosto che su basi emozionali o ideologiche. Ma purtroppo mi risulta che il Ministro della Transizione Ecologica abbia di fatto abolito le competenze che aveva in materia il precedente Ministero dell’Ambiente invece di integrarle e ottimizzarle.

Oggettivamente, animali selvatici, lupi compresi, si avvicinano sempre più agli insediamenti umani, e questo è invariabilmente dovuto a comportamenti scorretti da parte nostra.

Dove invece il problema riguarda le predazioni al bestiame, sarebbe più appropriato che si programmasse l’ampia diffusione dei cani da guardiania pastori mastini abruzzesi, che sono notoriamente molto adatti allo scopo, e di adeguate misure e modalità di custodia del bestiame e prevenzione dei danni, piuttosto che avventurarsi in affermazioni estemporanee, come la proposta di abbattere un predatore apicale, che oltretutto appartiene ad una specie prioritariamente protetta a livello europeo.

Sarebbe inoltre estremamente opportuno occuparsi con urgenza degli incidenti sempre più frequenti tra lupi, ungulati e traffico veicolare, considerando che questo fenomeno non è dovuto a un eccesso di fauna selvatica ma al fatto che l’Italia è gravemente carente nella realizzazione di sovrappassi e sottopassi per la fauna selvatica in attraversamento alle più critiche infrastrutture stradali (addirittura le nuove infrastrutture vengono progettate prive di tali attraversamenti). Di questo argomento il Ministro dovrebbe occuparsi con serietà scientifica, invece di fare affermazioni arbitrarie, quando l’indirizzo dovrebbe essere invece volto ad una maggiore tutela della natura e della biodiversità e a una più efficiente integrazione tra contesto naturale ed antropico, su basi rigidamente scientifiche, per il benessere della collettività.

Vorrei ricordare al Signor Ministro che il lupo appenninico (Canis lupus italicus) fino agli anni ’70 era in grave rischio di estinzione e che le sue affermazioni incentivano l’avversità verso la specie, invece che promuovere conoscenza, integrazione e fruizione sostenibile delle risorse, che dovrebbe essere un obiettivo prioritario del suo Ministero.

Ho studiato i lupi per decenni e, tra le altre cose, ho seguito gli spostamenti di individui dotati di radiocollare. I dati di queste ricerche hanno mostrato che il lupo, insieme al suo branco, si avvicinava frequentemente agli insediamenti umani, ma rimaneva sempre nascosto. Se non avesse avuto il radiocollare, la sua presenza in quei luoghi non sarebbe mai stata rilevata, a causa della naturale diffidenza di questi animali nei confronti degli umani.

Ma se i lupi hanno perso la loro diffidenza nei nostri confronti la colpa è solo nostra!

Mutuando alcune considerazioni del Dr. Andrea Mustoni (zoologo del Parco Naturale Adamello Brenta) sull’orso, ne faccio alcune anch’io:

  1. Più comunicazione si fa, meno animali problematici e eventuali rischi di aggressioni ci sono.
  2. Le persone devono essere coinvolte e adeguatamente informate.
  3. Bisogna creare una cultura del lupo e degli animali selvatici in genere.
  4. Inoltre, se, in alcuni casi specifici, la situazione ha superato i limiti dell’accettabilità, bisogna adottare con urgenza misure di emergenza. Oltre alla sensibilizzazione/educazione, si devono mettere in pratica misure temporanee emergenziali di prevenzione e di dissuasione degli individui problematici.

Per quanto possa essere impopolare, è fondamentale, nelle zone a rischio, migliorare la gestione e il controllo degli animali domestici. Esattamente come per il COVID, si tratta di misure di emergenza temporanee, che, oltretutto, non mi pare che costringano la gente a vivere nei lager, ma, tuttalpiù, a subire una situazione non confortevole per un periodo di tempo limitato!

Contemporaneamente, dovrebbero essere messe in atto misure di dissuasione verso gli animali selvatici, come l’utilizzo di proiettili di gomma.

Preciso che non sono contrario agli abbattimenti. Ma questi devono essere veramente necessari ed effettuati con criteri che non portino alle conseguenze nefaste come quelle innescate dagli abbattimenti degli ungulati. Infatti questi hanno generalmente aumentato i problemi e i danni, soprattutto a causa della conseguente destrutturazione demografica delle popolazioni dei selvatici.

Ma il pericolo maggiore deriva dal fatto che, una volta varcata la soglia, si scatenerà una ridda di richieste di abbattimenti da tutte le parti, per i motivi più futili e strumentali.

Dal punto di vista prettamente tecnico, ritengo che gli abbattimenti debbano assolutamente essere l’ultima spiaggia per i motivi che ho illustrato.

Inoltre, secondo il mio parere, bisognerebbe intervenire immediatamente con misure severe di controllo sulla gestione inappropriata dei rifiuti e degli animali domestici, ogni qualvolta ungulati (ruminanti compresi), lupi e orsi cominciano ad avvicinarsi troppo ai paesi, invece di considerare questi ultimi come un’attrazione turistica.

Mille miliardi di illusioni

Mille miliardi di illusioni

di Giovanni Damiani

Il G20 tenutosi a Roma in questo novembre 2021 ha espresso consenso sulla proposta di piantare, a livello mondiale, 1000 miliardi di alberi entro il 2030 per contrastare la crisi climatica. La proposta, rivolta alla COP 26 di Glasgow, è suggestiva ma espressa in un contesto che presenta severe criticità che, se non affrontate e risolte, la rendono demagogica e di scarsissima efficacia.

Non è stato minimamente stabilito il rispetto dello stock di alberi esistenti, oggi sotto attacco massiccio – incentivato con lauti contributi statali – per la produzione di energia elettrica da biomasse legnose e di pellet per il riscaldamento degli edifici.

Bruciare alberi è aggravante della crisi climatica: come si può concepire che, mentre si intende piantare nuovi alberi, si continuerà a tagliare quelli esistenti nelle città, nei boschi anche evoluti, – con perdita netta della superficie fogliare fotosintetica che assorbe CO2 dall’atmosfera – e continuare, viceversa, ad aumentare le emissioni dello stesso gas-serra per il legame combusto?

I danni alla biodiversità nelle foreste esistenti non sono messi in discussione, saranno aggravati, così come pure l’inquinamento atmosferico e l’alterazione del ciclo dell’acqua, della depurazione dell’aria e danni al paesaggio.

Occorrono, viceversa, politiche di conservazione dei boschi esistenti, disciplinare il prelievo eco-compatibile delle biomasse legnose con esclusione e disincentivazione del loro uso a scopo energetico. In definitiva i nuovi alberi da piantare dovrebbero essere aggiuntivi al patrimonio arboreo e forestale esistente e non sostitutivi.

– Piantare nuovi alberi “entro il 2030” vuol dire che qualora si partisse da subito con un’imponente ed epocale opera di rimboschimento, (cosa improbabile e di cui non si rinviene traccia nella programmazione, nell’individuazione dei soggetti attuatori, nei criteri, nell’individuazione delle aree e nei fondi nei bilanci delle Istituzioni), i nuovi alberi alla data stabilita avrebbero meno di otto anni di età! E i boschi di neo-formazione artificiale sarebbero in fase evolutiva assai fortemente arretrata per il periodo indicato.

Bene quindi piantare nuovi alberi, ma non facciamoci illusioni sul loro contributo, nei tempi strettissimi a disposizione per contenere la temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi, entro la medesima data del 2030.

– Non è stabilita, inoltre, alcuna verifica sul numero degli alberi da piantare: chi tiene la contabilità?

– Domanda d’obbligo: ammettendo pure che tutte le nazioni si mettano, virtuosamente e auspicabilmente, a piantare alberi, quanti di questi sopravviveranno?

Stiamo vedendo come la crisi climatica abbia portato periodi di aridità prolungata, aumento delle aree avviate a desertificazione, aumento degli incendi boschivi e a uragani e piogge di straordinaria intensità, fattori questi in grado di annullare sforzi di forestazione che pure sono necessari.

Non basta piantare, ma occorre quindi anche curare che i nuovi alberi possano crescere ed evolvere.

– Che la proposta lanciata abbia sapore propagandistico è dimostrato dal fatto che, mentre si parla, almeno nel nostro Paese, di piantare nuovi alberi, non si rispettano i boschi di neo-formazione naturale che si sono formati spontaneamente sui terreni abbandonati dalle pratiche agricole di sussistenza del passato.

Infatti il TUFF (Testo Unico per le Foreste e le Filiere Forestali) neppure li considera boschi e ne autorizza il taglio col pretesto di restituire quelle aree a un improbabile ritorno alle pratiche agricole che nessuno richiede!

Questi boschi giovanissimi sono cresciuti senza intervento dell’uomo, gratis, non hanno avuto bisogno di finanziamenti, di vivai, di macchine operatrici e hanno il pregio qualitativo di essere generati da genotipi locali, ecotipi più idonei di altri perché selezionati dall’evoluzione naturale nelle condizioni ecologiche locali. Come si può accettare che, mentre si intende piantare nuovi alberi per nuove foreste, si consenta o si incentivi l’eliminazione di quelle nate spontaneamente negli ultimi decenni? Impedire loro di evolvere nelle successioni secondo le regole della natura?

E come non gridare allo scandalo sul fatto che le Regioni continuano ad autorizzare il pascolo negli ecosistemi boschivi, anche di pregio, fatto notoriamente distruttivo del rinnovamento naturale in quanto le giovani piante vengono brucate?

– Si stima che l’umanità, dalla nascita dell’agricoltura ad oggi, abbia tagliato circa la metà degli alberi del Pianeta da 6000 miliardi agli attuali (forse residui) 3000 miliardi, e che la deforestazione è stata particolarmente intensa nei secoli più recenti, a partire dal XVI. Nel contempo le emissioni di CO2 sono aumentate vertiginosamente, come mai. Se fossero piantati mille miliardi effettivi di alberi (cosa auspicabile) ne avremmo portato il quantitativo sulla Terra a 4000 miliardi con benefici climatici che sarebbero visti tra diversi decenni.

Ma nulla si dice di come far cessare da subito le imponenti deforestazioni in atto, in Amazzonia, in Congo, in Uganda, nel Medio Oriente ove si perdono milioni di Km2 all’anno per profitti economici immediati, né di come fronteggiare la perdita di intere parti di continenti con foreste vetuste o primigenie, a causa degli incendi che richiederebbero di essere fronteggiati con cooperazione internazionale e sforzi cospicui.

L’impegno delle nazioni è quello di rinviare, e di far cessare la deforestazione al 2030 e neppure si dice come raggiungere questo obiettivo!

Da dove verranno i mille miliardi di nuove piante di cui si parla? Quelle dei boschi di neo-formazione lo sappiamo: vengono dagli ecotipi locali, spontanei, ma quelli di cui si parla proverranno dal mercato globalizzato che nulla ha a che fare con le regole della natura.

Si deporteranno varietà geneticamente uniformi, selezionate dalle esigenze commerciali, da una parte all’altra dei continenti, in climi diversi, a rischio non solo di sopravvivenza ma anche di ibridazione con gli ecotipi selvatici, indebolendo nel tempo interi ecosistemi forestali già minacciati dal riscaldamento globale e dal diffondersi di parassitosi.

Un’operazione scientificamente corretta ed ecologicamente accettabile sarebbe invece quella di avviare la realizzazione di vivai pubblici rivolti alla conservazione e propagazione della vegetazione spontanea dei luoghi specifici da riforestare. Insomma se i tempi da qui al 2030 sono strettissimi, l’approntamento di tutto quanto occorrerebbe per la pianificazione, per la raccolta e propagazione dei genotipi autoctoni nei vari luoghi del Pianeta, occupa buona parte di tale tempo, così da arrivare al fatidico 2030 – se fossero fatti sforzi giusti ed imponenti – avendo alberelli piccolissimi la cui superficie fotosintetica sarebbe di scarsa rilevanza per gli scopi di mitigazione climatica che si vorrebbero conseguire.

Anche in questa proposta rispetto alla questione climatica non viene considerato il fattore “tempo” in relazione al fatto che la cattura del carbonio negli ecosistemi forestali non avviene solo a opera della fissazione nel legno: quantitativi altrettanto importanti vengono fissati nel suolo a livello della lettiera e dell’humus e parte finisce nel ciclo dell’acqua sottoforma di ione bicarbonato. Ciò è significativo nelle foreste evolute (ragione fondamentale perché vengano conservate) e per gli alberi adulti, mentre è minimo nei nuovi virgulti.

Le priorità d’intervento andrebbero rivolte nell’immediato alle città e alle aree peri-urbane, per i benefici straordinari che gli alberi forniscono per il contenimento dell’inquinamento atmosferico, delle ondate di calore, per il microclima locale.

CONCLUSIONI

Piantare nuovi alberi è cosa buona e giusta, ma l’efficacia rispetto alla crisi climatica, nei tempi strettissimi di 5- 11 anni a disposizione per contenere il riscaldamento medio globale al di sotto de 1,5 gradi celsius, è di scarsissima rilevanza.

L’operazione è complessa e richiederebbe una quantità di operazioni che, se non improntate a criteri delle scienze ecologiche, rischia di fallire in buona parte o addirittura di produrre danni agli ecosistemi.

Efficacia maggiore, nei tempi a disposizione, è arrestare da subito le deforestazioni in corso e lasciare alla libera evoluzione naturale i boschi di neo-formazione spontanea, eliminare gli incentivi statali all’uso energetico delle biomasse legnose.

Vanno individuati i boschi di tutela, in almeno il 50% del patrimonio forestale nazionale esistente, e disciplinato il prelievo del legno con una selvicoltura ecologica che produca il minor danno possibile ai boschi di produzione. Su tutto va tutelata la biodiversità negli ecosistemi con un’ottica globale attenta anche a tutti i benefici forniti dal mondo delle piante.

Diversamente, i mille miliardi di alberi sono una foglia di fico sulle vergogne dell’inazione dei governi nei confronti della crisi climatica, una suggestiva trovata suadente alle orecchie del pubblico ma demagogica, una promessa d’intenti che si configura come elemento di distrazione di massa.

Occorrono coraggio, creatività, politiche serie ed adeguate e una mobilitazione generale per evitare una catastrofe annunciata sulla Terra, di entità pari a quella dei periodi di guerra, ma stavolta per la pace e maggiore equità. I più validi combattenti, si sa, non sono i bambini: ben vengano quindi gli alberi neonati, infanti verdi, ma non saranno quelli che ci salveranno. Lasciamo lavorare in pace gli alberi adulti che tra l’altro negli ecosistemi sanno cooperare. La crisi climatica si affronta con una molteplicità di azioni da tutte le componenti del vivere e del produrre, e gli alberi sono una delle componenti della soluzione, ma bisogna innanzitutto fermare la deforestazione e il sovrasfruttamento del patrimonio forestale, e programmare eventuali riforestazioni con rigorosi criteri scientifici.