Il gasdotto Sulmona-Foligno, parte del progetto del gasdotto Linea Adriatica, provocherà il taglio di almeno cinque milioni di alberi. La stima del numero di alberi è conservativa, in quanto non tiene conto di tutti quelli che saranno abbattuti per l’apertura delle piste forestali necessarie ai lavori. Il percorso passa attraverso molte aree protette, tra cui diversi Parchi Nazionali e Regionali, che verranno devastati dai lavori.
Il gasdotto passerà inoltre su aree ad alto rischio sismico, e incredibilmente sul tracciato non è stato fatto alcuno studio in tal senso. Si prevede di fare una valutazione sismica “in corso d’opera”: una vera follia a danno di territori che a causa dei terremoti hanno già pagato un prezzo altissimo.
Eppure i metanodotti già presenti nel nostro paese possono trasportare 100 miliardi di metri cubi all’anno, risultando quindi già sovradimensionati rispetto al bisogno nazionale. Il gasdotto, infatti, dovrebbe proseguire fino a Minerbio, nel bolognese, e da qui portare il gas in Europa Centrale, servendo quindi altri paesi europei e non l’Italia, che però pagherebbe gli elevati costi economici e ambientali. Non a caso Eni e Agigas hanno definito il progetto “anacronistico”.
In un momento storico in cui è chiara la necessità di combattere il riscaldamento climatico, e si parla continuamente di abbandono delle fonti fossili e di piantare alberi per assorbire CO2 dall’atmosfera, il Governo Italiano progetta di devastare centinaia di km di aree protette per un nuovo gasdotto. Alla luce di queste politiche, i pochi spiccioli dati alle amministrazioni locali per qualche alberatura urbana in più appaiono per ciò che sono: uno specchio per le allodole, per distrarre da politiche che abbattono milioni di alberi che abbiamo già e che non hanno bisogno di essere piantati, e che fanno parte di ecosistemi complessi da cui dipende la sopravvivenza di moltissime altre specie animali e vegetali. Sulle promesse di ridurre le emissioni, poi, stendiamo un velo pietoso.
È questa la transizione ecologica con cui è stato sostituito il Ministero dell’Ambiente? Dove sono le rinnovabili? Dov’è il risparmio energetico? Gli italiani, durante l’inverno, tengono in casa una temperatura media di circa 22 gradi: ben al di sopra dei 20 gradi massimi consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il nostro patrimonio edilizio è vecchio ed energeticamente poco efficiente. C’è molto lavoro da fare, a partire dal consumo energetico di ogni singolo cittadino, ma nuovi metanodotti che distruggeranno parte dei nostri territori naturali più pregiati non sono parte della soluzione. Sono parte del problema.
Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Professore a contratto di “Nature Conservation”, School of Biosciences & Veterinary Medicine, Plant Diversity and Ecosystems Management unit, University of Camerino; via Pontoni, 5 – 62032 Camerino (MC), Italy
Le foreste sono ormai universalmente considerate come sistemi complessi adattativi. La capacità adattativa di questi ecosistemi è direttamente proporzionale alla loro resistenza, resilienza e adattabilità/plasticità. Questi attributi sono, a loro volta, funzione del grado di biocomplessità (compositiva, strutturale e funzionale/relazionale) raggiunto dal sistema stesso.
Perchè una foresta possa raggiungere un elevato livello di complessità è necessario che siano assicurati un adeguato spazio fisico tridimensionale e un intervallo di tempo molto lungo.
Le foreste gestite sono spesso limitate nella superficie (a causa della frammentazione fisica o ecologica) e nell’altezza (a causa di tagli troppo precoci e intensi, che non permettono al piano delle chiome di occupare tutto il biospazio a disposizione); questo le rende più semplificate e quindi meno resilienti. Per quanto riguarda il tempo, frequentemente non si tiene conto della diversità tra tempo dell’Uomo e tempo delle foreste, tentando di accelerarne, in modo innaturale, la crescita e la successione delle fasi strutturali. La velocità è nemica della complessità, specialmente di quella relazionale, sulla quale si basa la capacità delle foreste di rispondere ai disturbi esterni.
Il cambiamento globale e le nuove sfide per il futuro del Pianeta richiedono un deciso cambiamento dei criteri e dei metodi di gestione forestale, considerando anche il grande valore degli ecosistemi lasciati alla libera evoluzione naturale.
Parole chiave: sistemi complessi adattativi; resilienza; biocomplessità forestale; foreste ad evoluzione naturale; spazio e tempo.
Citazione: Bottacci A., 2020 – Lo spazio e il temo per le foreste resilienti. L’Italia Forestale e Montana, 75 (2): 69-81. https://doi.org/10.4129/ifm.2020.2.02
INTRODUZIONE
La foresta è universalmente considerata un sistema biologico complesso autopoietico adattativo (Ciancio e Nocentini, 1996; Puettmann et al., 2009; Mes sier e Puettmann, 2011; Nocentini, 2011), cioè un sistema capace di autogovernarsi nel tempo attraverso le reciproche interazioni dei suoi componenti e di adattarsi alla variazione degli input ambientali esterni conservando la propria funzionalità (Puettman, 2014).
Le foreste seguono un ordine interno naturale, che possiamo definire un “ordine spontaneo” (Clauser, 2003), secondo il quale si accrescono e si sviluppano per stadi successivi, adattandosi all’ambiente nel quale si trovano. Si tratta di sistemi interattivi e compositi, costituiti da molti elementi diversi interagenti tra loro secondo i principi della teoria fisica della Criticità autorganizzata (Piovesan e Schirone, 1995).
Esse seguono sempre il percorso a minor dispendio energetico complessivo, passando da strutture più semplici a strutture più complesse, da uno stato metastabile a un altro, in conseguenza di processi innescati da eventi anche di piccola entità. Questo non avviene in modo totalmente lineare e prevedibile, ma secondo cicli adattativi (crescita, conservazione, collasso e rilascio, riorganizzazione) su diverse scale spaziali e temporali secondo i processi tipici della Panarchia (Gunderson e Holling, 2002; Allen et al., 2014).
Non si raggiunge mai un vero e proprio equilibrio ma il sistema si muove sempre sul confine tra disordine (caos, χάος) e ordine (cosmos, κόσμος), per rimanendo nello stadio dinamico della complessità (Messier e Puettmann, 2011).
La complessità diviene pertanto una condizione necessaria per limitare il rischio di cadere in quelle che Carpenter e Brock (2008) hanno definito “trappola della povertà”, quando il sistema è talmente semplificato da non avere nessuna possibilità di recuperare con le sue sole forze, e “trappola della rigidità”, quando il sistema è totalmente ordinato e diviene pertanto una struttura rigida e statica. In entrambe le condizioni il dinamismo del sistema si blocca. È quindi fondamentale che l’approccio alla gestione degli ecosistemi forestali si basi sui principi della teoria dei sistemi complessi, tenendo conto di tutte le componenti – e non solo della componente arborea -, delle numerosissime interazioni esistenti tra queste e della capacità di rispondere ai disturbi esterni. Nella gestione forestale la semplificazione non è ammessa. Una visione riduzionistica concettuale è fuorviante e foriera di gravi errori (Ciancio e Nocentini, 1996; 2003; Simard e Durall, 2004).
Possiamo considerare la complessità di un ecosistema forestale a tre livelli diversi ma necessariamente integrati tra loro:
− Complessità compositiva, legata soprattutto al numero di specie, animali e vegetali, presenti. Questa ricchezza è massima negli ecosistemi forestali intatti e ne determina il grande valore ambientale (Watson et al., 2018);
− Complessità strutturale, legata alla conformazione fisica della foresta (tipo di occupazione dello spazio, distribuzione dei volumi, rapporti allometrici delle componenti, ecc.). La complessità strutturale influisce positivamente su vari aspetti dell’ecosistema (biodiversità, resilienza, adattabilità, ecc.) (Franklin et al., 2004; Stiers et al., 2018);
− Complessità relazionale/funzionale, legata alla rete di relazioni tra le varie componenti del sistema e tra di esse e l’ambiente nel quale sono inserite. Possiamo includere in questa complessità anche la varietà di nicchie ecologiche presenti (Sabatini et al., 2010). La complessità relazionale è talmente varia e piena di retroazioni da potersi considerare come la componente più difficilmente misurabile o valutabile di un ecosistema (Mayr, 1988). Essa può essere anche espressa in termini di posizionamento dei vari componenti organici all’interno della complessa rete trofica. Questo posiziona mento non è casuale, ma segue un ordine preciso, misurato da quella che viene definita coerenza trofica, che, a sua volta, rende le reti più stabili (Johnson et al., 2014).
A questo proposito è importante anche segnalare i fondamentali studi sulla rete di ectomicorrize che, nel suolo, collega gli apparati radicali di una foresta, fungendo da sistema di comunicazione e di scambio di carbonio e di altre sostanze nutritive (Clemmensen et al., 2013).
Gli studi sulle foreste indisturbate (old growth forests) hanno permesso di comprendere, in modo più preciso e ampio, la biocomplessità naturale, i processi ad essa collegati, nonché i meccanismi che sottendono all’evoluzione dei sistemi forestali (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Blasi et al., 2010; Stiers et al., 2018).
Uno dei risultati fondamentali di questi studi è aver compreso la stretta relazione tra biocomplessità e resistenza, resilienza e adattabilità degli ecosistemi forestali.
Aldilà delle molte definizioni esistenti, ai fini del presente lavoro ritengo che queste tre caratteristiche possano essere riassunte nel seguente modo:
− Resistenza: è la capacità di un ecosistema di mantenere il proprio equilibrio strutturale e funzionale di fronte ad un disturbo esterno.
− Resilienza: è la capacità di recuperare il proprio equilibrio qualora questo venga alterato da un disturbo esterno o anche “la capacità di tollerare disturbi senza collassare in uno stato qualitativamente diverso” (Holling, 1973).
− Adattabilità/plasticità: è la capacità di modificare la propria struttura in conseguenza di un cambiamento ambientale permanente senza perdere la propria funzionalità.
La stabilità di un ecosistema è strettamente legata alla sua capacità adattativa, a sua volta dipendente della sua biocomplessità (Colwell, 1998; Michener et al., 2001; Bottacci, 2014; Bottacci, 2018a). Si deve assolutamente tenere conto di questo assunto quando si vogliano conservare e gestire foreste in modo da tutelarne l’evoluzione e la stabilità dinamica.
Per favorire il raggiungimento e la conservazione di alti livelli di complessità degli ecosistemi forestali, dobbiamo considerare che essa è funzione di due fattori fondamentali: lo spazio ed il tempo (Clauser, 1991). Non tenendo conto di questi due fattori, come avviene troppo spesso in una selvicoltura a preminente finalità economica, si rischia di alterare in modo sostanziale la foresta, inficiandone il futuro, al solo scopo di massimizzare un ricavo attuale, oltretutto relativamente basso in relazione ai costi ambientali alti, come avviene nel caso della forma di governo a ceduo (Clauser, 1989).
LO SPAZIO
Lo spazio è un parametro fondamentale per le foreste. Prima che l’azione antropica riducesse in modo drastico la superficie forestale del nostro Pianeta, le foreste occupavano quasi la metà delle terre emerse, formando, in molti casi, estensioni di milioni di ettari senza soluzione di continuità. Ancora oggi questa riduzione non si arresta, continuando ad interessare, in modo drammaticamente preoccupante, anche le foreste primarie intatte (Potapov et al., 2017). Lo spazio è indispensabile perché si possa sviluppare pienamente la complessità sotto forma di mosaico di fasi del ciclo strutturale (rinnovazione, affermazione, esclusione, maturazione, diversificazione, crollo, ecc.). In questo modo, su una adeguata estensione, la foresta può raggiungere e mantenere uno stato nel quale i disturbi, pur presenti, hanno un’influenza limitata sul cambiamento della struttura generale e, anzi, aiutano a mantenere lo stato di complessità. Solo con una adeguata superficie, al di sopra di quella che si può definire la “superficie minima vitale della foresta”, si può avere l’insieme di piccoli e continui cambiamenti che interessano i componenti di quella data fitocenosi e dei suoi vari strati, che costituisco l’articolato processo della fluttuazione, ampliamente studiato da Faliński nella foresta primeva di Białowieża (Faliński, 1986; Faliński, 1988; Pedrotti, 2007).
La ricerca dei valori di questo parametro è ancora relativamente scarsa, nonostante si tratti di un argomento molto stimolante e basilare per la conservazione e la gestione delle foreste.
Harris (1984), nel suo fondamentale testo sulla frammentazione forestale, colloca tra 2 e 20 ha la soglia minima al di sotto della quale il sistema perde di efficienza.
Uno dei principi fondamentali della Biologia della Conservazione, contenuto nel 3° postulato di Soulé (1986), è il rapporto tra le dimensioni di una comunità e la sua possibilità di sopravvivenza: riducendo la superficie di un popolamento – ed io direi ancora di più il volume da essa occupato – diminuisce la sua vitalità e resilienza (Bellarosa et al., 1991).
Zacharias e Brandes (1989), citati in Bellarosa et al. (1991), hanno evidenziato una relazione lineare tra la superficie di boschetti isolati del Querco-Fagetea in Germania e la frequenza delle specie più rare. Questi autori hanno rilevato che, per avere la saturazione di tutte le specie, comprese le più rare, un popolamento doveva ricoprire una superficie continua non inferiore a 500 ha.
La riduzione delle superfici forestali, oltretutto, innesca le tipiche problematiche della frammentazione degli habitat (Diamond, 1975; Crooks e Sanjayan, 2006). In caso di superfici ridotte, la percentuale di area marginale (più disturbata) aumenta, rispetto a quella occupata dalla core area, agendo negativamente sulle varie complessità, specialmente sulla complessità relazionale.
Per una corretta valutazione dell’influenza dello spazio sulla stabilità degli ecosistemi forestali è fondamentale tenere conto che lo sviluppo strutturale delle foreste non è solo quello bidimensionale della superficie, ma quello tridimensionale del volume. Le foreste, rispetto agli altri ecosistemi terrestri naturali, tendono ad occupare molto più spazio anche in senso verticale, sia verso l’alto, con le chiome che possono arrivare fino ad oltre cento metri, che nel sottosuolo, dove le radici si possono approfondire di molti metri (ad es. fino a 7 m di profondità per le radici strutturali delle foreste tropicali) e rappresentare una notevole frazione della biomassa totale (circa il 20%) (Brunner et al., 2004; Crown, 2005; Galvagni et al., 2006; Lasserre et al., 2006).
Per questo possiamo affermare che le foreste sono soprattutto strutture verticali.
A questo proposito forniscono un’utile informazione gli studi sulle strutture forestali basati su un approccio allometrico, nei quali si mostra che l’occupazione dello spazio tridimensionale non è casuale ma segue un model lo basato sulla legge di potenza, che sottende un comportamento frattale. L’aumento dell’altezza del popolamento (nel caso specifico dell’altezza tipica degli alberi più alti), determina un aumento proporzionale del volume della foresta per unità di superficie. Al fine di massimizzare l’energia solare utilizzata, le foglie devono riempire quanto più possibile questo volume e lo fanno seguendo proprio una strutturazione frattale sia orizzontale che verticale (West et al., 2009; Enquist et al., 2009; Simini et al., 2010; Anfodillo et al., 2013; Sellan et al., 2017). In conseguenza di ciò la produttività di una foresta è funzione anche dello spazio verticale occupato.
Lo sviluppo della foresta nello spazio verticale, che possiamo anche defi nire “spessore ecologico” o “biospazio”, ha anche un valore ecologico. Esso determina gradienti di microclima che vengono occupati da specie e da comunità di specie differenti, contribuendo così ad aumentare la biocomplessità del sistema (Ishii et al., 2004; Nadkarni, 2010). Già molti anni fa Mac Arthur e Mac Arthur (1961) avevano evidenziato una relazione positiva tra altezza del piano delle chiome e ricchezza di specie di uccelli, attribuendola alla presenza di una maggiore disponibilità di nicchie ecologiche. Più recentemente Roll et al. (2015) hanno confermato questa relazione per tutti i vertebrati ed in parti colare per gli anfibi.
Cazzolla et al. (2017) hanno trovato una correlazione significativa tra la ricchezza di specie di piante vascolari e l’altezza media del piano delle chiome (considerato come indicatore del volume) sia a livello globale che macro climatico.
L’intervento umano altera questa stratificazione verticale di habitat e riduce la biodiversità del popolamento, soprattutto diminuendo l’altezza del piano delle chiome e semplificandone la struttura (Brokaw e Lent, 1999). Questo suggerisce l’opportunità di una maggiore attenzione al biospazio negli studi ecologici e nella pianificazione e gestione dei siti naturali. Le foreste intatte, infatti, mostrano come un ampio spessore ecologico (biospazio) favorisca la diversità verticale e contribuisca alla biocomplessità totale dell’ecosistema e, di conseguenza , alla sua funzionalità.
IL TEMPO
Il tempo è stato definito da Clauser (1991) come la quarta dimensione del bosco ed è una dimensione troppo spesso sottovalutata.
Un approccio semplicistico alle foreste tende a mettere in correlazione il tempo solo con l’incremento di volume degli alberi, dando addirittura un significato colturale di maturità alla culminazione dell’incremento stesso, nelle sue varie forme (corrente, medio, percentuale), culminazione che invece avviene sempre ad un’età del bosco molto bassa.
Occorre perciò chiarire che il tempo delle foreste non è il tempo dell’Uomo. Si tratta di due ordini di grandezza diversi. Considerare i tempi della foresta con il riferimento temporale dell’Uomo è uno degli errori fondamentali che hanno commesso e commettono molti forestali.
La lentezza – relativamente ai parametri umani – è la legge per la foresta (Wohlleben, 2016) ed è fondamentale tenerne conto.
Addirittura è stato evidenziato che proprio le piante ad accrescimento più lento sono quelle destinate a vivere più a lungo (Piovesan et al., 2019a; Piovesan et al., 2019b)
Le foreste hanno bisogno di tempo per poter evolvere passando da una fase strutturale all’altra (Leibundgut, 1978), fino allo stadio più evoluto possibile in quel luogo e in quel momento.
Raggiunto questo stadio le variazioni strutturali sono ancora più lente e indotte da disturbi naturali a bassa intensità (crollo di alberi o gruppi di alberi) o a grande intensità (tempesta di vento, incendio naturale, attacco parassita rio, frana, valanga, ecc.). In entrambi i casi, comunque, con tempi di ritorno, generalmente, molto lunghi. Questi disturbi sono importanti per la rinnovazione dell’ecosistema e per il mantenimento di una parte della sua complessità (Yamamoto, 2000).
Oltretutto la foresta non segue il ciclo vitale dei suoi componenti principali: gli alberi. Questi nascono, crescono, invecchiano e muoiono, rimanendo soggetti alle leggi del tempo, la foresta è invece soggetta “a una agitazione eterna” (Stevens, 1990 in Motta, 2018).
Il tempo sottende anche alla biocomplessità strutturale di una foresta. I parametri di altezza e volume sono evidentemente legati al tempo, ma anche lo sviluppo degli apparati radicali o la maturazione sessuale dei singoli componenti. La strutturazione e l’occupazione del biospazio (verticale, orizzontale, sopra e dentro al suolo) sono, come già ricordato, processi fondamentali che la foresta conduce secondo il modello della criticità autorganizzata. Questi processi organizzativi svolgono una funzione sintropica, cioè di bilanciamento della entropia (Schirone, in stampa). Come nel caso dell’entropia (secondo principio della termodinamica), anche la sintropia è funzione del tempo: col trascorrere del tempo, infatti, l’ecosistema aumenta la propria organizzazione funzionale e strutturale, tendendo spontaneamente verso una condizione metastabile, vicina al punto critico (Solé et al., 2002; Solé e Bascompte, 2006).
Il tempo influisce anche su una componente fondamentale dell’ecosistema forestale: il suolo. Il suolo è il frutto di interazioni tra componente organica, componente inorganica e clima, che a loro volta sono funzione del tempo. Un suolo forestale, per raggiungere stadi evoluti, richiede molti anni (talvolta secoli). Recenti studi hanno mostrato l’importanza, per la funzionalità e per la produttività degli ecosistemi forestali, della complessa rete di simbiosi che si formano nel suolo tra gli apici radicali delle piante arboree e le ectomicorrize (ECM) (Simard, 2009; 2018; Steidinger et al., 2019). Lo sviluppo di questa rete è legato alla presenza di alberi vetusti (detti alberi madre) e di un suolo evoluto, fattori questi che sono entrambi funzione del tempo e del non disturbo antropico. Un altro importante parametro dell’ecosistema forestale legato all’età del bosco, e quindi al fattore tempo, è la presenza del legno morto (Travaglini et al., 2012). È ormai universalmente riconosciuto il ruolo della necromassa per la conservazione della biodiversità (WWF Switzerland, 2004; Marchetti e Lombardi, 2006). Lasciare alla foresta il tempo per raggiungere le fasi strutturali più avanzate è fondamentale perché si accumuli in modo naturale una massa di legno morto capace di creare nicchie ecologiche tali da incrementare la biocomplessità e, in particolare, la rete trofica.
CONCLUSIONI
Da quanto detto appare evidente che vi sia un contrasto stridente tra la fondamentale importanza di concedere spazio e tempo agli ecosistemi forestali e le azioni, ancora troppo diffuse, di una “selvicoltura attiva” che prescinde spesso dalla conservazione del capitale produttivo e si concentra principalmente, se non esclusivamente, sul prodotto ritraibile in tempi brevi e sulle più ampie superfici possibili (Bottacci, 2018b), prescindendo spesso dall’attuale conoscenza ecologica e conservazionistica (Chiarucci e Piovesan, 2018).
Quasi sempre si continua a considerare il bosco non come un sistema complesso autopoietico, ma come un semplice insieme di alberi da utilizzare, insieme incapace di sopravvivere senza l’intervento dell’uomo, del quale non si considerano né le esigenze di spazio né quelle di tempo.
Come afferma giustamente Pedrotti (2007), il processo di sinantropizzazione delle foreste produce cambiamenti negativi, che portano alla degenerazione (impoverimento senza compromissione della fitocenosi originaria) e anche alla regressione (forma più grave dove le fitocenosi originarie sono sostituite da fitocenosi meno complesse e a fitomassa minore).
Olaczek (1974), già molti anni fa, considerava, tra le forme di degenerazione degli ecosistemi forestali, il ringiovanimento (juvenalization), cioè il mantenimento delle fitocenosi agli stadi iniziali a causa dei tagli periodici, che limitavano a pochi decenni il tempo a disposizione.
I tagli sono disturbi innaturali che, se si presentano con frequenze accelerate e su superfici ampie, possono innescare questi fenomeni di regressione, costringendo l’ecosistema forestale a permanere nei suoi stadi iniziali, più semplificati e meno stabili.
La biocomplessità è alterata da tagli intensi e ripetuti a breve distanza (con cambiamenti repentini nella struttura e composizione del sistema). È noto che negli ecosistemi forestali naturali o con basso disturbo antropico, la biocomplessità è maggiore anche a causa della presenza di molte specie rare e minacciate, quasi del tutto assenti in quelli gestiti (Christensen e Emborg, 1996).
Anche tenendo conto del ruolo prioritario delle foreste nell’attenuazione del global change, è fondamentale cambiare decisamente i principi di fondo della gestione, tenendo decisamente più in considerazione i parametri che abbiamo discusso nel presente lavoro: lo spazio e il tempo.
Una selvicoltura per le foreste del futuro dovrà innanzi tutto partire da un assunto, che forse a molti forestali apparirà “eretico”: partendo dal principio che, in generale, gli interventi di taglio rappresentano un disturbo innaturale per le foreste e che, d’altro canto, l’uomo ha la necessità di avere a disposizione i prodotti legnosi che le foreste forniscono, la corretta selvicoltura dovrà operare in modo da ottenere quanto serve all’uomo, riducendo al minimo il disturbo all’ecosistema forestale, contenendolo cioè entro i limiti della sua capacità resiliente e dando alle foreste lo spazio e il tempo di cui hanno bisogno.
Per ottenere questo risultato sarà fondamentale, prima di tutto, preservare la continuità ecologica della foresta; continuità sia in senso spaziale (evitando la frammentazione, fisica ed ecologica, dei popolamenti), sia in senso temporale (evitando repentini e frequenti cambi strutturali del popolamento stesso).
Fornendo agli ecosistemi forestali un adeguato spazio (almeno uguale o superiore alla superficie minima vitale) e un tempo indefinito (prescindendo quindi dalla definizione di turni), si potrà attuare anche una gestione che si può definire delle alte provvigioni, ottenendo foreste ricche di biomassa. In esse si potrà ottenere una ripresa importante, pur mantenendo molto basso il tasso di utilizzazione (parametro che, in qualche modo, può essere indicativo dell’entità del disturbo arrecato con i prelievi).
La continuità ecologica e l’intervento antropico nullo o di bassa intensità favoriranno la costituzione di popolamenti sempre più resilienti e quindi, secondo la definizione di selvicoltura data sopra, anche più capaci di supportare e sopportare una gestione con finalità economiche.
Come mostrato, lo spazio ed il tempo influiscono positivamente sulla bio complessità delle foreste; questa, a sua volta, è la base della resilienza che le rende stabili (Rist e Moen, 2013). Per cui la moderna gestione forestale non potrà più prescindere da questi due parametri. Di fronte alla riduzione continua delle superfici forestali della Terra (18 milioni di km2 di superficie forestale persi negli ultimi 8.000 anni) (FAO, 2018), alla loro pericolosa semplificazione e alla minaccia incombente dei cambiamenti climatici, diventa indispensabile liberarsi dalla visione antropocentrica (pericolosa eredità dell’Illuminismo), che attribuisce all’Uomo una capacità di indirizzo superiore anche a quella della Natura stessa, e imboccare la via di una decisa azione di “conservazione del processo naturale”.
In considerazione del loro grande valore, è ineluttabile fare una scelta radicale di rispetto per gli ecosistemi naturali indisturbati (tra i quali, in primo luogo, quelli forestali) (Watson et al., 2018), riservando loro la metà della Terra, come proposto da Wilson (2016), facendo così in modo che non vi siano limitazioni di spazio e di tempo all’espressione delle loro potenzialità.
Gli incendi in natura vengono innescati soprattutto dai fulmini e in questo caso sono assai poco frequenti a ripetersi negli stessi areali. Quelli il cui innesco è operato dall’azione dei vulcani invece tendono a riverificarsi nelle medesime zone. Ne deriva che per la stragrande maggior parte del territorio la frequenza degli incendi per un determinato areale è una cosa assai indeterminata e comunque tendenzialmente molto bassa.
In natura gli incendi sono un’eccezione alle regole che in natura caratterizzano gli ecosistemi. Vanno interpretati come #incidenti piuttosto rari, comunque estranei alle dinamiche della vita le cui basi biochimiche ed ecologico-ambientali si svolgono tipicamente su intervalli di temperature molto bassi. Con la nascita delle scienze ecologiche soprattutto dopo il 1940, si scopre anche che il fuoco può essere uno dei fattori ecologici naturali che esercita una pressione selettiva su una moltitudine di specie all’interno degli ecosistemi e che può favorirne altre, come ad esempio le conifere che hanno strobili cementati dalla resina. In Italia ne è un esempio il Pinus halepensis Mill. 1768 i cui strobili con il calore possono aprirsi e diffondere abbondantemente i semi rinnovellando il bosco ove sono state eliminate altre specie, siano esse pregiate e caratteristiche dei luoghi che magari, invasive. Esistono anche i casi dei semi dormienti che possono essere attivati dall’aumento della temperatura. Anche la corazza altamente termoisolante delle querce da sughero (Quercus suber, Linnaeus 1758) rappresenta una strategia evolutiva-adattativa formidabile per fronteggiare l’incendio, ma se andiamo a ben vedere le fiamme sono comunque sempre occasionali anomalie catastrofiche e non la regola comune. In definitiva anche per specie suddette parliamo di resistenza, di strategie evolutive di sopravvivenza e non certo di normale “ordinaria” autoecologia. Si consideri inoltre che gli incendi causati dai fulmini il più delle volte sono mitigati in quanto associati alle piogge temporalesche, a differenza di quelli causati dall’azione dell’uomo che usualmente si producono in periodi siccitosi persistenti. Quelli ad opera degli umani sono innescati da disattenzione, da incidenti per perdita di controllo, da interessi economici o per motivi offensivi quali ad esempio la vendetta: rarissimi (praticamente non esistono) sono invece i piromani, soggetti malati di patologia psichiatrica che provano piacere para-sessuale esaltante ad appiccare e osservare le fiamme. La totalità degli incendi dolosi è quindi opera delinquenziale di incendiari.
L’uomo ha imparato a sfruttare gli incendi fin dall’antichità quale mezzo per controllare ed impedire distruttivamente la naturale successione delle comunità vegetali spontanee tipiche locali e per realizzare e mantenere un paraclimax artificiale favorevole alle proprie esigenze. La tecnica del fuoco “deliberato” è stata così applicata in svariate parti del mondo sempre a fini utilitaristici per liberare dalla vegetazione arborea ed arbustiva da terreni da adibire all’agricoltura o al pascolo, per provocare, con la pratica dell’addebbiatura, la caduta sul suolo dei nutrienti contenuti nella biomassa e resi minerali nelle ceneri, per favorire battute di caccia e, un po dovunque, per motivi militari.
A partire dalla metà del secolo scorso il fuoco prescritto e controllato è stato impiegato deliberatamente anche negli ecosistemi di prateria per eliminare la necromassa vegetale o comunque le specie erbacee ed arbustive particolarmente infiammabili; negli ecosistemi forestali è stato impiegato per creare preventivamente fasce di discontinuità sia orizzontali che verticali per contribuire al confinamento di potenziali incendi devastanti, risparmiandosi di eseguire nel sottobosco rimozioni manuali o con mezzi meccanici delle biomasse più facilmente infiammabili.
Tale tecnica è quindi assunta da suoi attuali sostenitori come alternativa alle operazioni di manutenzione forestale che si rendesero necessarie, quali potature, diradamenti, pascolo e i suoi sostenitori, per risparmiare sui lavori. Gli stessi non mancano di evidenziare che essa consente di evitare il ricorso all’impiego di diserbanti di sintesi chimica.
Una caratteristica che distingue il fuoco prescritto dalle altre pratiche tradizionali e improvvisate ancorchè in qualche modo controllate, è comunque quella della programmazione: perché questa tecnica possa entrare nei propositi di gestione sarebbe indispensabile l’adozione di una serie di prescrizioni programmatiche fondate su basi previsionali riferibili, inevitabilmente, a molteplici fattori: impatto paesaggistico (generalmente preso in poca considerazione), umidità del suolo e del soprassuolo, calendario d’intervento, frequenza, condizioni del vento, geometria della fiamma, condizioni di sicurezza, effetti probabili sulle componenti biotiche interessate: associazioni vegetali (indi flora e vegetazione), substrato batterico, micorrizico, popolamento degli invertebrati del suolo. L’impatto sul suolo vitale è probabilmente il più delicato e difficile da trattare con qualche completezza.
La pratica del fuoco prescritto è molto controversa in quanto se non ancora può dirsi adeguatamente studiata per i diversi ambienti interessati, lo è ancor meno in Italia ove è stata applicata in pochissime occasioni e per i limiti delle nostre conoscenze.
La crisi ecologica attuale e in particolare del clima e della biodiversità e l’accresciuta sensibilità per i temi ambientali in larghe fasce della popolazione, il progredire delle conoscenze scientifiche e, ancora di più, della consapevolezza di quello che non ancora si conosce sulla funzionalità degli ecosistemi, unitamente al dettato di numerose leggi, Direttive e convenzioni internazionali (per tutte si pensi alle leggi che disciplinano le Aree naturali protette e quelle sulla biodiversità e in particolare la Direttiva 92/43/CEE “Habitat”), impongono di dover abbandonare una concezione esclusivamente utilitaristica, economicistica e riduzionistica nelle azioni umane e di abbracciare una visione che tenga conto della complessità dell’ecologia degli ambienti, in tutte le sue forme, soprattutto per azioni come quelle in argomento che comportano alti fattori di rischio molto severi e una intrinseca carica di distruttività.
Se prendiamo a riferimento il complesso dei princìpi messi a punto dall’Unione Europea e che costituiscono anche la base della normativa vigente in materia ambientale e dei quadri d’azione dell’Unione la tecnica del “fuoco prescritto” non può essere ritenuta minimamente ammissibile.
Contrasta infatti con:
– il principio di precauzione introdotto col Trattato dell’UE, secondo il quale gli stati, al fine di proteggere l’ambiente, devono largamente adottare una serie di misure preventive ancor prima che abbia inizio un processo di degrado ambientale;
– di prevenzione (ar.191 del Trattato di Lisbona) che ha l’obiettivo di evitare i danni ambientali azzerando ogni rischio, con il dovere di predisporre tutte le misure dirette ad evitare alterazioni ambientali;
– di integrazione, introdotto con il trattato di Amsterdam (e che sta diventando un principio fondamentale di tutta l’azione comunitaria in materia di ambiente) che prevede che tutte le discipline riguardanti qualsiasi ambito della vita umana devono essere integrate da una valutazione d’impatto ambientale della disciplina stessa (il che implica che le valutazioni devono tener conto degli aspetti ecologici, economici ed ambientali);
– di correzione alla fonte (art. 191 TFEU ex art. 174 CE) che prevede l’immediata rimozione della causa che ha portato (o può portare) all’inquinamento o al degrado secondo la logica che correggere alla radice fa assumere alla correzione maggiore efficacia.
– Il principo di sicurezza affermato oramai da anni, ancor prima dell’evoluzione della costruzione dell’U.E., ed è trasversalmente presente nella complessa legislazione vigente anche in Italia nelle attività sociali.
Se esaminiamo assieme agli aspetti utilitaristici i princìpi sopra citati, dobbiamo trarre la prima conclusione che il “fuoco prescritto” dovrebbe essere programmato con un effettivo, severo approccio olistico, integrato, e basarsi su una solida base conoscitiva dell’ambiente naturale ed umano coinvolto. Il suo impiego dovrebbe essere valutato anche mettendo a confronto le varie opzioni alternative, inclusa l’opzione zero, così come è in uso da anni nelle procedure di Valutazione dell’Impatto Ambientale (V.I.A.) e di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.), facendo ricorso anche a vari modelli di analisi previsionali.
Oggi, per certo, non disponiamo di una base conoscitiva adeguata per poter programmare operazioni caratterizzate da così grande potenziale distruttivo. Non è possibile, pertanto, prevedere l’impatto effettivo, immediato e nel tempo, nei confronti della biodiversità e delle reti ecologiche caratterizzate da estrema complessità e in gran parte sconosciute. Le nostre conoscenze infatti sono indirizzate per solito alla vegetazione in soprassuolo (ma onestamente non tutta l’autoecologia, specie per specie e pochissimo alle relazioni fra loro e il mondo chimico-fisico, con quello animale e con il regno dei funghi micorrizici); sappiamo ancora pochissimo sulla vita nel suolo, che pure è alla base della fertilità, e sappiamo quasi nulla sulle reti mirabili dei miceli le cui ife sono il tessuto connettivo e di “comunicazione” delle foreste e delle praterie. Fino a qualche anno fa nessuno avrebbe immaginato che un micelio di Armillaria può essere esteso per diversi chilometri o che possa esistere un micelio esteso 10 chilometriquadri. Abbiamo ancora significative carenze conoscitive sul ruolo degli insetti negli ecosistemi forestali. Anche l’impatto sulla fauna superiore è imprevedibile: anfibi, rettili dotati di scarsa mobilità e comunemente nascosti col fuoco sono spacciati, e la stessa mammalofauna, seppur mobile, può trovarsi circondata dalle fiamme e perire.
Negli Stati Uniti, Australia e Sud Africa l’impiego di questa tecnica è stato accompagnato, progressivamente, da studi multidisciplinari, per quanto possibile, sugli aspetti ecologici (flora, vegetazione, fauna, suolo, falde, acque, ecosistemi, paesaggio) protocollari, utilitaristici e legali. Tuttavia gli autori non dichiarano, francamente, di aver raggiunto gli elevati livelli di conoscenza che la questione richiederebbe proprio perché si va ad agire su sistemi complessi e con metodi distruttivi che possono sfuggire al controllo.
Anche in Europa (Francia, Portogallo e Spagna in particolare) ove esperienze di fuoco prescritto sono state avviate verso la fine del 1970 e primi del 1980, sono state condotte ricerche sugli effetti ambientali connessi. Sono stati indagati, in particolare, gli aspetti della prevenzione degli incendi, la formazione del personale addetto, la gestione delle risorse silvo-pastorali e in alcuni casi la conservazione di habitat prioritari ai sensi della Direttiva Habitat. Questi studi appaiono tuttavia inquadrati troppo riduttivamente a finalità utilitaristiche e con l’attenzione rivolta al contenimento dei costi d’intervento rispetto ad altre tecniche alternative (manuali, meccaniche, e con agenti chimici) piuttosto che all’approfondimento dei fattori di rischio associati alla distruzione degli habitat e della qualità del suolo. Si è registrato, ad esempio, come atteso, l’esito di un incremento di nutrienti azotati e fosfatici nel terreno ma anche che questo “beneficio” tende a scomparire presto perché le molecole utili alle piante a causa della loro elevata solubilità sono molto facilmente dilavate alla prima pioggia. Inoltre buona parte dell’azoto, importante macronutriente, con le combustione si disperde nell’aria con i fumi.
Il carbonio delle biomasse vegetali poi, col fuoco va tutto in atmosfera come CO2 a contribuire, con immediatezza, alla crisi climatica. Questa è la prova più lampante della anti-ecologicità del prescritto: esso sottrae carbonio che era immobilizzato al suolo, comparto in cui è prezioso e fattore principe di fertilità, habitat e cibo per numerosi esseri viventi e lo immette nell’atmosfera sottoforma di anidride carbonica ove la concentrazione di questo gas è già in inaccettabile eccesso avendo superato i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale e innescato la crisi climatica. Nella complessità del paesaggio ecologico italiano, inoltre, non appaiono considerati affatto o adeguatamente i temi legati ai corridoi ecologici e alle connessioni ecologiche la cui salvaguardia è invece uno dei fattori essenziali per la conservazione della biodiversità.
Altrettanto poco considerati sono gli aspetti genetici intraspecifici legati alla conservazione della diversità biologica: mentre sappiamo distinguere specie e riconoscere endemismi su basi morfologiche (anche se le ibridazioni e le incertezze rendono spesso questa operazione difficile e tale da richiedere il ricorso a specialisti o all’analisi genetica) poco o nulla sappiamo generalmente della diversità genetica esistenti all’interno delle specie – fenotipicamente apparenti identiche- sulle quali andiamo ad agire con il fuoco. Si deve porre, quindi, anche il problema della salvaguardia degli ecotipi locali, per la salvaguardane la biodiversità genotipica. Ricordiamo che gli ecotipi locali delle specie indigene, presenti in sito da generazioni, se non da tempi immemorabili, hanno caratteristiche genetiche che hanno superato il vaglio della selezione naturale: in quanto sopravvissute, risultano essere le più adatte, le più vigorose e resistenti alle avversità rispetto a individui della stessa specie ma evolutisi in luoghi e condizioni assolutamente diversi o, peggio, di allevamento vivaistico-commerciale.
Andrebbero considerati come non secondari i numerosissimi “servizi ecosistemici” che gli ambienti boschivi e/o forestali svolgono a favore del benessere umano, del clima, del ciclo delle acque, nella purificazione dell’aria: cose difficilissime da valutare e la cui quantificazione richiederebbe tempi lunghi e grandi sforzi di ricerca.
In Italia il fuoco prescritto ha mostrato di essere in grado di migliorare la produzione foraggera in incolti produttivi, di migliorare la gestione di terre destinate al pascolo (cosa del resto già nota per l’azione dei fuochi pastorali storici), e con modalità complesse, di poter arginare gli incendi boschivi ma a prezzi ecologici e spesso idrogeologici generalmente molto pesanti e con danni spesso irreversibili. Basta guardare a riguardo le montagne appenniniche liberate dai boschi in epoche passate e che ,soggette a dilavamento ed erosione metereologica superficiale, mostrano oramai da secoli lo scheletro roccioso con aspetto paesaggistico desolante ed asetto ecologicamente povero e banale.
Inoltre vanno considerate, se operiamo un confronto tra le possibili alternative per la prevenzione degli incendi boschivi, le peculiarità del nostro Paese: elevata densità di popolazione, territorio accidentato con prevalenti versanti scoscesi, presenza di case e di piccoli insediamenti abitativi sparsi, l’eccessivo frazionamento fondiario, l’interfaccia estesa e il contatto diretto fra i perimetri dei suoli ad uso agricolo-forestale e insediativo, la presenza pressochè capillare di infrastrutture quali strade, ferrovie, acquedotti, elettrodotti, gasdotti, cavidotti, impianti di depurazione, impianti energetici diffusi anche di piccolissime dimensioni, discariche, depuratori e beni storico-artistici diffusi, dagli eremi di montagna alle chiese pastorali passando per dimore storiche e castelli.
Non riteniamo secondarie, inoltre, le questioni legate alla qualità delle acque sotterranee i cui impatti possono essere valutati con monitoraggi protratti per tempi lunghissimi e solo con analisi sito-specifiche per via delle diversità orografiche, geologiche , idrogeologiche che fanno parlare di fragilità del nostro Paese, accentuata dalle modificazioni climatiche in corso e dalla modificazione del regime e della intensità delle precipitazioni.
Non possono neppure essere messi in secondo piano gli aspetti paesaggistico-percettivi e paesaggistico-funzionali che, oltre agli aspetti pur importanti legati alla bellezza, hanno riflessi sulla vivibilità, sull’economia turistica sostenibile –anche potenziale- e che sono comunque generalmente tutelati tra i princìpi istituzionali dettati dall’art. 9 della Costituzione.
L’Italia non è la brughiera a Calluna vulgaris di molte aree geografiche d’Europa ove si è regolamentato l’uso rurale del fuoco né ha le grandi praterie estese come quelle del continente americano. Ha tanta diversità ambientale, ecologica e culturale per cui non è adatta a una patica tanto pericolosa e distruttiva che presenta il rischio che possa sfuggire al controllo.
Un cittadino anziano in un convegno, appreso dell’esistenza del fuoco prescritto, ha riassunto efficacemente così la propria condivisibile opinione: <..è come se per timore che possa venirmi la carie…, mi facessi estrarre i denti”.
Un po tutti gli studi finora effettuati hanno evidenziato aspetti critici nel nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda la carenza di adeguate conoscenze di base sull’ambiente nonché sugli aspetti teorici, operativi e sperimentali, e il conflitto con normative vigenti. Alcune Regioni hanno aggiornato così la propria normativa, o dettato prescrizioni di massima o adottato Piani Regionali di Previsione, Prevenzione e Lotta agli Incendi Boschivi ai sensi della L. 353/2000, prevedendo la possibilità di autorizzare sperimentazioni o applicazioni di fuoco prescritto anche nei Parchi Nazionali, Riserve Statali e Regionali. In nome dell’emergenza e della lotta agli incendi, si è preteso persino di operare disboscamenti in zone a tutela paesaggistica ed idrogeologica senza il parere delle Soprintendenze. E’ il caso della Riserva Naturale Litorale Romano ove tagli, non ostante le denunce, il sequestro di un cantiere, interrogazioni parlamentari a camera e senato, continuano. E’ anche il caso del Piano AIB della Regione Toscana per la Pineta litoranea del Tombolo, nel grossetano. Su ricorso al capo dello Stato (prima firmataria Mariarita Signorini all’epoca Presidente di Italia Nostra, di cui oggi è consigliere nazionale, e attualmente del direttivo G.U.F.I.) il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza dettagliatissima di 56 pagine, sugellata come decreto del Presidente della Repubblica, che ha smontato e annullato il Piano AIB e, tra l’altro, ha ribadito che il parere delle Soprintendenze, ove si agisce in zone vincolate, è obbligatorio e ineludibile. Contro l’obbligo di richiedere il parere delle Soprintendenze si è creato un piccolo ma chiassoso e lobbystico movimento appoggiato da alcuni accademici che pretenderebbe di avere mano libera per i tagli dei boschi e che il governo legiferasse per evitare i pareri attualmente richiesti. Di converso 100 associazioni hanno firmato un documento a sostegno della necessità che i vincoli paesaggistico e idrogeologco, ove vigenti, vengano mantenuti e rispettati.
Se fossero condotti minimamente tutti gli studi multidisciplinari che si rendono necessari per l’applicazione del fuoco deliberato, se si rispettassero estesamente le norme esistenti, non ci sarebbe partita per il “Fuoco prescritto” rispetto alle possibili alternative praticabili nei vari habitat.
Gli incendi si possono e si devono prevenire;
con la sorveglianza e l’avvistamento precoce
con l’intervento immediato, a terra, nello spegnimento, con squadre qualificate, ben attrezzate e addestrate, governate da un Direttore delle Operazioni di Spegnimento (D.O.S.);
Con provvedimenti amministrativi,legando possibilmente gli stipendi e salari all’entità delle aree salvate preventivamente tramite incentivazioni e premi , mentre possono essere irrogate penalizzazioni in proporzione alle aree incendiate;
con la messa in primo piano anche gli interventi selvicolturali di miglioramento boschivo.
con l’addestramento e la conoscenza delle tecniche per controllare i materiali infiammabili in modo da armonizzare e migliorare le tecniche di selvicoltura preventiva rispetto agli incendi.
attraverso il pascolo controllato (scelta da preferire) dal momento che oltre al risultato per la prevenzione degli incendi assicura anche un vantaggio economico ed è una pratica che se controllata e pianificata adeguatamente appare molto sostenibile. L’allevamento delle capre anche in zone impervie, organizzato con la dotazione di una mungitrice mobile e un centro di confezionamento di latte fresco, latte a lunga conservazione e di trasformazione lattiero-casearia, è una risorsa economica ed occupazionale di assoluto rispetto che andrebbe incentivata e raccomandata. Ciò, soprattutto, nelle aree in cui è in atto l’espansione dei boschi quale esito all’abbandono di terreni un tempo oggetto di pratiche agricole e che il TUFF espone ai tagli;
con la rimozione parziale, in fasce strategiche, della vegetazione infiammabile con procedure meccaniche e manuali. (la potatura e la pulizia manuale è da preferire sempre)
e se proprio non bastassero le misure di prevenzione e d’intervento immediato, con il ricorso a mezzi aerei, che peraltro non possono operare di notte, e su cui si è fatto in Italia troppo affidamento questi devono essere di ausilio (e non sostitutivi) degli interventi a terra!
Ovviamente è necessario predisporre mappe di punti strategici di approvvigionamento dell’acqua, realizzati anche artificialmente ove non presenti in natura.
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Il destino delle società contemporanee è stato affidato all’economia e alla finanza, al liberismo globalizzato nell’illusione che questi fossero in grado di autoregolarsi, correggersi da errori e dare un futuro di progresso basato sulla previsione di una crescita continua. La crisi ecologica, economica e sociale in corso e le disuguaglianze accresciutesi enormemente ci mostrano quanto questa previsione si sia rivelata errata e quanto tempo abbiamo perso per avviare una transizione programmata e poco traumatica. Adesso la transizione energetica ed ecologica, del vivere e del produrre, è sempre più difficile e a tratti si annuncia anche dolorosa. Si parla, oramai, di RESISTENZA, di ADATTAMENTO e di MITIGAZIONE mentre il tempo utile per agire sta per scadere e l’urgenza fattasi estrema non ci consente più di commettere errori.
La conversione ecologica della società riguarda prioritariamente i settori dell’economia (con i suoi pesanti risvolti sociali), del clima, della biodiversità. Essa non può che fondarsi sull’uso di risorse naturali rinnovabili, in sostituzione delle fonti fossili e su metodi, stili di vita, tecnologie e organizzazione sociale compatibili con l’ambiente, con la salute degli ecosistemi a livello locale e globale.
Importanza strategica in questa transizione va assegnata alle risorse biologiche, biomasse e derivati provenienti dalla fotosintesi.
L’Europa ha finalmente delineato la macrostruttura di una linea politica per una «bioeconomia sostenibile», «circolare» che intende «rafforzare il collegamento tra economia, società e ambiente».
Ma gli scenari finora delineati presentano rischi (anche di clamorosi fallimenti) e criticità su troppe questioni irrisolte o indefinite, nonché contrasti nei confronti di linee politiche avviate dalla stessa Unione Europea in altri settori tra cui il tema epocale della BIODIVERSITA’ che è intimamente legato a quello del CLIMA.
Le specie che risultano estinte in Italia, negli anni più recenti, sono 6 sono (lo storione comune e quello ladano, la gru, la quaglia tridattila, il gobbo rugginoso; e un mammifero, il pipistrello rinolofo di Blasius).
Minacciate di estinzione in tempi probabilmente imminenti sono 161 (138 terrestri e 23 marine. Fonte: ISPRA)
Secondo la “lista rossa” dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) nel mondo 1.199 mammiferi (il 26% delle specie conosciute), 1957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%) sono minacciati di estinzione imminente. Il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute, organismi a noi zoologicamente più vicini per la loro appartenenza alla famiglia deli Ominidi nella Classe dei Primati, è in pericolo di estinzione.
Stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa su scala globale a causa delle attività umane, tanto che nel 2000 è stato coniato il termine “antropocene” dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen, per designare l’era attuale in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre.
Tutti gli indicatori e gli indici esistenti, senza eccezione alcuna, mostrano una situazione di grave pericolo per la biodiversità e per gli habitat connessi.
Per gli agrosistemi la situazione è ancora peggiore: il numero delle estinzioni documentate di piante di interesse alimentare o come fonte di materie prime per prodotti pregiati, è pari al doppio della somma complessiva di quelle dei mammiferi, uccelli e anfibi.
Quando parliamo di biodiversità dobbiamo tenere ben presente che esistono ampie lacune conoscitive, anche in Italia e in Europa, che riguardano le comunità biologiche del suolo, la vita acquatica, gli insetti, il mondo dei funghi e dei batteri, la loro autoecologia, le relazioni tra le componenti biotiche degli ecosistemi e tra loro e il mondo chimico-fisico. Pertanto i dati già preoccupanti riportati in letteratura sono riferibili a una parte del biota, vale a dire a quello che conosciamo o pensiamo di conoscere ma la complessità dei sistemi naturali è talmente grande da sfuggire alle indagini scientifiche anche molto accurate. Batteri e microfunghi, ad esempio, sono artefici ubiquitari della scomposizione finale della materia morta o degli escreti dei viventi (detrito organico). Dobbiamo a questo regno biologico vastissimo e quasi negletto le reazioni dei processi catatabolici con i quali vengono scisse le molecole organiche complesse in molecole minerali più semplici e stabili, con conseguente liberazione di energia e messa a disposizione di nutrienti indispensabili per la vita delle piante. Si stima che al mondo esistano ameno 30 milioni di specie microbiche e noi ne sappiamo coltivare circa un migliaio e ne conosciamo appena qualche decina di migliaia.
L’esistenza del ciclo di materia sostenuto da un flusso di energia solare negli ecosistemi dipende completamente dall’efficienza dei microbi saprobici per cui la loro importanza è pari a quella della fotosintesi mentre noi animali negli ecosistemi siamo utili per la velocizzazione dei cicli biogeochimici e per la quantità di materia posta in circolo, ma non tecnicamente indispensabili. Potremmo auto-espellerci da Gaia e gli ecosistemi continuerebbero ad esistere, con lentezza dei cicli, in maniera semplificata, ma rigogliosamente e senza di noi.
A livello della comunità microbica cade anche il determinismo genetico, già caduto a livello di genoma non codificante e con la scoperta dell’epigenetica perché assume forte evidenza l’importanza dei mutevoli fattori ambientali e delle contingenze nell’adattamento e nell’evoluzione ontogenetica, filogenetica e antropologica. La scala dell’organizzazione della materia, con l’entropia negativa crescente, inoltre, ci mostra che non esiste l’ambiente. E’ più corretto parlare di AMBIENTI, ECOSISTEMI, tra loro correlati ed interagenti, sempre in fase evolutiva e quindi, nel tempo, mai identici a sé stessi. Questo non vale solo per il mosaico di ecosictemi visti “in orizzontale”, ma anche verticalmente. Il DNA ha come ambiente la cellula che è il suo “ecosistema”; lo stesso vale per un mitocondrio che tra l’altro ha un proprio DNA; un organo non è un insieme di cellule….ma è l’ambiente in cui si trovano e operano le cellule; un individuo non è un insieme di organi nè di cellule….ma è molto di più ed è inserito in un ecosistema che può essere naturale oppure semiurbano o urbano. Noi stessi siamo l’ecosistema del nostro microbioma intestinale (e non solo), ove il numero dei batteri simbionti che influenzano il nostro essere è superiore a quello di tutte le altre cellule del nostro organismo. Ai vari livelli di organizzazione della materia, lungo una scala verticale, nei vari “ambienti”, si producono proprietà e regole aggiuntive che non erano presenti nei livelli inferiori a minore contenuto di entropia negativa. Un ecosistema pertanto non è la somma di tutti i suoi componenti ma è molto di più grazie all’integrazione della infinità di ambienti che lo compongono. La biodiversità non è la quantità delle specie presenti in un ecosistema, ma è molto di più.
Il concetto di natura e di biodiversità si sono mostrati assai più complessi di quanto si riteneva solo 20 anni fa. Oggi appare come un mosaico pluridimensionale che include il parametro tempo, di ambienti mai completamente chiusi ma comunicanti e interattivi, con proprio ordine interno caratterizzato da grande complessità, con vari livelli di organizzazione e varie modalità di comunicazione che garantisce l’integrazione e la resilienza. Solo recentemente abbiamo scoperto che il livello epigenetico condiziona gli organismi, lo stato di salute, gli ecosistemi con meccanismi di complessità estrema e non conosciuti. Le mutazioni adattative dettate dai meccanismi epigenetici infatti, si sono rivelati assai più veloci di quelle genetiche interpretabili u scala di generazioni con Charles Darwin, Gregory Mendel, James Watson e Francis Crick e Jaques Monod. L’ENTROPIA DEI SISTEMI ECO-BIOLOGICI non si misura con la materia, bensì con l’ordine interno al sistema esaminato, vale a dire con il livello di complessità dato dalla ricchezza e caratteristiche delle sue componenti e dalle relazioni tra le parti (quindi dalla comunicazione attraverso segnali telemediatori acustici, visivi, olfattivi ed elettromagnetici) e con quelle con il biotopo. L’ecosistema è un mosaico di ambienti.
A livello attuale delle conoscenze le cause della perdita di biodiversità possono essere così individuate:
la perdita degli habitat (conversione agricola industriale dei suoli, edificazione, infrastrutture);
eccessivo sfruttamento delle risorse;
frammentazione dello spazio minimo vitale per le specie;
inquinamento;
interferenze endocrine
interferenze nei segnali telemediatori di comunicazione (suoni, colori, forme, sostanze aerodisperse che costituiscono “odori”, campi elettromagnetici)
Su tutto agisce la crisi climatica che produce riscaldamento globale, colpisce gli ambienti acquatici e il suolo con siccità e incendi, consente l’espandersi di parassitosi, provoca scompensi nell’autoecologia, eventi estremi ricorrenti, la comparsa di specie aliene nei nostri habitat. Per quanto riguarda quest’ultime i dati del Mediterraneo sono illuminanti.
Complessivamente, ad oggi, nel Mediterraneo sono intruse 565 specie alloctone:
? 132 appartenenti al regno vegetale
?25 celenterati, ?16 briozoi,
?141 molluschi, ?59 anellidi,
?60 crostacei, ?12 ascidiacei,
?120 pesci.
Di queste, 185 specie sono già intruse nei mari italiani
Fonte: Commission Internationale pour l’exploration Scientifique de la Mèditerranèe
Come si pone la Strategia europea sulla bioeconomy di fronte a questo quadro?
Il peccato originale del documento “Una bioeconomia sostenibile per l’Europa” risiede nel fatto che viene individuata come destinataria degli interventi, l’industria, e il rilancio della competitività. Da questa premessa non possiamo aspettarci molto di buono sul tema della biodiversità. A livello agroalimentare, per esempio, chi custodisce la variabilità genetica e ha consentito la sopravvivenza di cultivar diversificati, non è certo l’industria che invece persegue la standardizzazione dei prodotti, la massima uniformità possibile e rincorre criteri di vendita competitiva su aspetti estetici dei prodotti quali colore e dimensioni e il minor numero possibile di addetti. Custode della biodiversità è invece la costellazione di produttori agricoli, di aziende artigiane tradizionali che operano sulla base di antichi saperi e che sono detentori di genotipi, anche se questi non garantiscono loro crescita importante dei profitti. Le pratiche agricole di questo tipo sono il risultato di secoli o millenni di ricerca applicata, di sperimentazioni ancorchè empiriche mosse non solo dal desiderio di conoscenza o dal legame con a tradizione, ma dalla necessità di sopravvivenza e di adeguare il loro operato alle condizioni ecologiche locali. I cultivar sono stati trasmessi nel tempo tra le generazioni e le buone pratiche connesse per tradizione orale e il tutto è stato storicamente condiviso in forma cooperativa e per tradizione orale mentre il miglioramento dei prodotti è avvenuto nel rispetto delle leggi della natura, con gradualità nel tempo. La strategia europea non considera questo grande ed effettivo giacimento di saperi né i detentori diffusi di genotipi locali coltivati in situ, mentre rischia addirittura di minacciarne l’esistenza. Infatti focalizza, tra gli strumenti attuativi, il tema della certificazione. Ma se la certificazione riguardasse solo i prodotti industriali a cui pare rivolgersi la strategia in forma esclusiva, potremmo creare un mondo in cui ciò che è prodotto all’infuori della sfera industriale diviene marginale e perente (se va bene), residuale (e destinato all’estinzione, se va male), o addirittura illegale (se va come vorrebbe una certa industria che non ama di certo la concorrenza, anche dei “piccoli” produttori). Pensate cosa rischierebbe l’Italia dal punto di vista della cultura culinaria, dei prodotti tipici locali di difficile certificazione, del paesaggio agrario. L’importanza per l’umanità della conservazione dei genotipi d’interesse agronomico non è nuova: il botanico Nikolai Vavilov, tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso raccolse semi in 65 Paesi e fondò l’istituto che oggi è ancora attivo e conserva 350 mila specie a San Pietroburgo. Resistette con i suoi collaboratori all’assedio nazista senza toccare un solo seme mentre morivano di fame ma fu poi eliminato da Stalin. Oggi l’Istituto Svalbard Global Seed Vault in Norvegia conserva in un bunker tra i ghiacci 7 milioni di campioni di colture da tutto il mondo. Ma quei ghiacci vanno sciogendosi. In ogni caso è solo questa la salvezza della biodiversità agronomica? Non è meglio rivolgersi alla terra, a valorizzare l’opera degli agricoltori?
Inoltre, una bioeconomia dovrebbe introdurre quanti più possibili meccanismi di cooperazione piuttosto che competitività e, per giunta, misurata come oggi avviene con il P.I.L. che notoriamente include esclusivamente gli aspetti quantitativi dei mercati mentre ignora completamente indicatori di benessere individuale e sociale nonchè dell’ambiente . La cooperazione, le simbiosi, sono strategie vincenti in natura e nel sociale (Georgeschu Roegen).
La Strategia Europea non fa accenno alla necessità di ridurre i consumi attraverso beni durevoli né considera il fine vita dei prodotti e il loro destino rispettosi dei cicli ecologici. Per quanto riguarda la riduzione dei consumi il rischio più grande è quello del consumo di suolo. Se si pensa di sostituire l’impiego dei combustibili fossili, soprattutto per autotrazione, con biofluel (benzine ottenute dalla trans-esterificazione degli oli vegetali, biogas e biocarburanti in genere) senza ridurre drasticamente i consumi attuali, occorreranno immense distese di monocolture industriali a solo scopo energetico e il sacrificio di ambienti ed ecosistemi, con connesso incremento della perdita di biodiversità. Procedere poi al trattamento dei rifiuti organici dell’era “bio” in impianti di gassificazione è di scarsa efficienza termodinamica, comporta l’introduzione di una complicazione tecnologica inutile rispetto , ad es., al compostaggio aerobico, nonché impiego di risorse e fornitura di prodotti climalteranti.
Non prende in considerazione la necessità di ridurre la nostra insostenibile impronta ecologica, possibile con l’avvio di un processo di abbandono della proprietà privata dei beni per transitare alla fruizione di «servizi» (Paul Hawken, Amory Lovins, L. Hunter Lovins). Perché possedere in proprio un’automobile, un trattore, quando è possibile che restino in proprietà del produttore e che sia possibile averli a disposizione solo quando serve, a prezzi bassi, pagando solo le ore di uso e quindi il solo servizio reso? Ciò farebbe cessare l’obsolescenza programmata dei beni costringendo il produttore a progettarli per il massimo della durabilità, stroncherebbe il consumismo, costringerebbe a realizzare prodotti più performanti e porterebbe ad un’evoluzione tecnologica, ottimizzazione e prezzi accessibili, esattamente com’è avvenuto nel campo delle fotocopiatrici.
L’unità di analisi della Strategia continua a non essere costituita dal benessere degli individui e del complesso della società mentre in bioeconomia vanno valutati insieme a questo le relazioni fra i sistemi biologici ai vari livelli con quelli economico-sociali (G. Bateson).
In economia, a partire da quella famigliare, è decisivo conoscere e tenere sotto controllo l’ammontare del capitale, stimare le rendite, controllare le uscite, avere contezza, in definitiva, della consistenza economica e del suo trend. Fare diversamente comporta il rischio di fare prelievi eccessivi e di staccare assegni a vuoto con le conseguenze del caso. Inoltre viene considerato il merito delle spese in relazione al benessere e alla soddisfazione che possono comportare. Nella strategia della bioeconomia invece non si pone al centro la quantificazione e il monitoraggio dei flussi di prelievo dal mondo biologico per commisurare l’entità dei prelievi delle risorse alle capacità biogeniche, vale a dire di rigenerazione negli ecosistemi nei tempi dovuti. Eppure ciò dovrebbe essere alla base della sostenibilità, assieme all’attenzione di prelevare ciò che è la “rendita” possibile dagli ecosistemi senza distruggere il capitale che quella rendita produce. Intuizioni in tal senso sono oramai datate (l’economista Herman Daly e formulò nel 1972) ma non le vediamo trasposte nella strategia sulla bioeconomy). La misurazione della “competitività” effettuata col P.I.L. nulla dice dei riflessi dell’economia sul benessere dei cittadini.
L’Unione Europea produce documenti ricchi di principi generali e condivisibili ed enfatizza l’integrazione fra tutti i settori d’intervento. Purtroppo in fase di applicazione tali principi spesso si rilevano generici e arrivano persino a produrre l’effetto contrario rispetto alle finalità originarie per cui erano stati postulati. Un esempio è l’Agenda 2030, stilata in sede delle Nazioni Unite e fatta propria dall’Unione Europea. L’importante il documento determina gli impegni sullo sviluppo sostenibile che dovranno essere realizzati entro il 2030, individuando 17 obiettivi globali (SDGs – Sustainable Development Goals) e 169 target, prevede, d’interesse per il nostro discorso sulla biodiversità, che:
L’agricoltura (Obiettivo 2) ha un ruolo di primo piano all’interno di qualsiasi prospettiva di sviluppo sostenibile, dal momento che è un settore intrinsecamente legato a questioni quali l’occupazione, l’alimentazione, l’aria, i cambiamenti climatici, le risorse idriche, il suolo e la biodiversità;
Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni” (obiettivo 7);
Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti (obiettivo 8).
Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo (obiettivo 12).
Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico (obiettivo 13),
Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile (obiettivo 14). .
Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno e fermare la perdita di diversità biologica (obiettivo 15).
L’Unione però dispone incentivazioni statali all’impego delle biomasse legnose ad uso energetico-industriale che oltre a contraddire i predetti principi perché apre ai disboscamenti, si pone in contrasto con numerose direttive, dalla Direttiva Habitat 92/42/CEE passando per la Framework Water Directive (FWD 60/2000/CE) che istituisce un quadro europeo per la difesa dell’acqua, ancorato molto alla difesa e al ripristino della biodiversità degli ambienti acquatici) alla 2007/60/CE concernente la difesa dalle alluvioni. Il disboscamento contrasta inoltre con gli impegni sul clima assunti con gli accordi nel corso della COP 21 di Parigi nel dicembre 2015.
Il rischio della Strategia sulla bioeconomy, pertanto, è che si possa procedere alla sostituzione dei combustibili fossili per produrre energia con le biomasse legnose, cellulosiche e organiche in genere.
Questo rischio va monitorato e scongiurato per i seguenti motivi:
Bruciare massivamente legno o materia organica, non è neutrale rispetto alle emissioni di carbonio in atmosfera, come si vuol far credere da parte di settori che lucrano su queste attività, appoggiati da qualche accademico, ma è, al contrario, fortemente aggravante della crisi climatica . L’anidride carbonica emessa, infatti, non è solo quella che deriva dal legno combusto e quindi dal carbonio accumulato dall’albero attraverso la fotosintesi. Vanno considerate le emissioni prodotte nelle fasi del cantiere forestale per l‘approvvigionamento delle biomasse: consumi di carburante per le macchine operatrici, per l’apertura di piste nel bosco, per il taglio dei tronchi e dei rami, per l’accatastamento, per l’esbosco, trasporto, per il carico su camion fino alla nave o ferrovia dirette alla centrale elettrica, per lo scarico, per la cippatura e riduzione i pellet… Se solo si analizza il bilancio complessivo delle operazioni di filiera già si vede che la presunta neutralità non esiste, ma c’è di più. L’uso energetico delle biomasse :
? richiede approvvigionamento notevole di materia prima perché il legno ha un basso potere calorifico;
? non considera il fattore tempo di rinnovazione del bosco e il tempo di perdita di funzione: mentre la combustione aggrava immediatamente la crisi climatica, alberi piantati ex novo dovranno crescere e passeranno decenni prima che possano svolgere le stesse funzioni di quelli distrutti (ecosistemiche e di assorbimento della CO2) e tutto questo tempo invece per fronteggiare la crisi climatica non c’è;
? non considera, per le biomasse legnose, che buona parte del carbonio non si trova solo nel tronco e nei rami ma anche nel suolo: la lettiera e l’humus assorbono carbonio fino ad 8 volte più che il legno e lo immobilizzano per tempi lunghissimi;
? non considera la quota, rilevante, di carbonio esalato dalla respirazione delle radici dell’albero, che non interessa l’aria ma viene assorbito nel sottosuolo perché si discioglie come acido carbonico nell’acqua e questo acido debole, nell’interazione con le rocce, regola il ciclo dell’acqua dal punto di vista quantitativo e qualitativo;
?Sottrae carbonio ai suoli ove costituisce fattore di fertilità, per immetterlo in atmosfera ove è già in concentrazioni eccedenti i limiti di tolleranza dell’ecosistema globale. Così il suolo “muore di fame” e l’atmosfera “di indigestione”.
Inoltre la combustione delle biomasse legnose produce inquinamento atmosferico soprattutto da PM10 e da PM2,5 , più di qualsiasi altra fonte producendo migliaia di morti premature/anno.
Una strategia sulla bioeconomy dovrebbe pertanto, per coerenza e affidabiltà, intanto revocare gli incentivi statali alle biomasse e rinunciare soprattutto all’utilizzo energetico industriale del legno e chiarire, senza possibilità di equivoci, che il suo uso va ammesso e incentivato per tutte le finalità nobili, in sostituzione della plastica, come materiale da opera per cantieristica navale, infissi, pavimenti, tetti, case, strumenti musicali… Basterebbe scrivere che il legno va utilizzato in qualsiasi modo purchè il carbonio in esso contenuto resti il più possibile allo stato solido. Sostenibilità significa rispettare il patrimonio arboreo esistente e incrementarlo a partire dagli ambienti urbani e periurbani. E’ possibile, secondo calcoli attendibili, lasciare indisturbato alla libera evoluzione naturale almeno il 50% del patrimonio forestale italiano perchè le foreste non sono solo serbatoi di legname, ma svolgono una molteplicità di funzioni sul clima, sul ciclo dell’acqua, sulla qualità dell’aria e sono scrigno di biodiversità. Il restante 50% può fornire utilità se gestito con criteri di selvicoltura ecologica, nel rispetto delle funzioni ecosistemiche anche potenziali, della biodiversità, del paesaggio.
Una bioeconomia effettiva, in conclusione, non può basarsi sull’uso energetico delle biomasse siano esse solide, liquide o gassose. Intraprendere una strada simile significa tra l’altro un ritorno al passato, al medio-evo quando c’era solo il legno per riscaldarsi, cuocere i mattoni, lavorare il ferro e il vetro. Significa ancora e distrarre l’attenzione, gli sforzi, i finanziamenti e gli interventi dalla rivoluzione energetica del futuro che bussa alle porte e che è basata sull’impiego dell’idrogeno quale vettore energetico, prodotto per elettrolisi dell’acqua da fonti pulite, appropriate e rinnovabili.
Anche le forzature sulla disciplina dei paesaggi montani hanno contribuito all’annullamento del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale del Lazio; una occasione per ripensare le strategie per le montagne del Lazio e arrestare la devastazione del Terminillo
La Corte Costituzionale, con sentenza pubblicata pochi giorni fa, ha annullato il Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR) del Lazio, e lo ha fatto perchè la Regione Lazio ha violato il principio di leale collaborazione tra istituzioni.
Il testo del PTPR concordato con il MiBACT come legge impone, infatti, avrebbe dovuto essere approvato tal quale dal Consiglio Regionale, che di converso ha licenziato un testo modificato in più parti e contenente norme che scardinano l’obbligo di copianificazione Stato-Regione e che allentano le tutele di molti beni paesaggistici tra cui le aree montane, dove il PTPR manomesso avrebbe consentito la realizzazione di impianti sciistici, impianti di innevamento artificiale e attrezzature ricettive al di sopra della fascia dei 1200 metri.
Questa disattenzione nei confronti della tutela paesaggistica della montagna purtroppo non sorprende.
Da anni – attraverso le ripetute osservazioni presentate nell’ambito delle procedure di VIA del progetto Terminillo Stazione Montana (TSM) – il Comitato del #noTSM ha rilevato come la Regione Lazio interpretasse in maniera ingiustificatamente estensiva le norme del PTPR, e come tali interpretazioni collidessero in maniera sostanziale anche con le Direttive Comunitarie, il tutto per consentire la realizzazione di un progetto devastante per il paesaggio e per l’ambiente, economicamente fallimentare e posto fuori dal tempo dal climate change.
Duole constatare che fino ad oggi questa insensibilità regionale è stata sostanzialmente condivisa dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Province di Frosinone, Rieti e Latina, che ha già emesso parere paesaggistico positivo sul TSM nonostante al tempo di formazione dell’atto fossero in vigore le norme più restrittive di quelle successivamente manomesse dalla Regione Lazio. Il nostro auspicio è che questa vicenda spinga la Regione Lazio a considerare con maggiore consapevolezza la tutela paesaggistica del suo territorio, e che tale consapevolezza si estenda anche alle strutture periferiche del MiBACT.
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