da Valentina Venturi | 4 Set, 2023 | Animali, Biodiversità, Difesa Foreste
L’uccisione dell’orsa Amarena deve imporre una riflessione sulla gestione degli orsi marsicani e su come tenerli lontani dai paesi, in particolare su come far trovare loro cibo a sufficienza nelle aree non occupate dall’uomo. Un elemento troppo spesso trascurato in questo senso è la qualità e il grado di complessità dei boschi che sono territorio dell’orso, la loro importanza nel fornire fonti alimentari a questa specie, e l’impatto che hanno i tagli boschivi nel compromettere la capacità delle foreste di produrre cibo per gli orsi.
L’orso è un animale onnivoro e una parte rilevante della sua alimentazione è costituita da ghiande (prodotte dalle querce) e di faggiole (il frutto del faggio): sono stati trovati escrementi di orso composti unicamente da ghiande e faggiole. Ma non tutti gli alberi producono ghiande e faggiole allo stesso modo. Esattamente come un bambino ha bisogno di crescere prima di entrare nell’età riproduttiva, anche le piante non fruttificano durante i primi anni di vita.
Un faggio comincia a fruttificare non prima dei 20-30 anni di età, mentre le querce cominciano a fruttificare a 30-40 (le farnie un po’ prima delle altre specie). Un albero troppo giovane, quindi, non produce frutti, e non fornisce cibo agli animali selvatici. Molti boschi sono in questa situazione, in particolare quelli nati dall’espansione del bosco in zone prima coltivate.
Ci sono poi i boschi governati a ceduo, dove le piante vengono tagliate alla base per fare legna, e ricrescono con giovani rami chiamati polloni. Questa forma di governo del bosco, dannosa perché lascia il suolo forestale quasi completamente scoperto, è molto diffusa in Italia e purtroppo viene utilizzata anche all’interno dei parchi nazionali.
Le piante ceduate devono ricrescere da capo dopo ogni taglio, ricostituendo la parte aerea. L’albero quindi spende moltissime energie per sopravvivere al taglio, e non fruttifica per qualche anno, o lo fa ma producendo pochissimi frutti. Una pianta ricresciuta dopo un taglio ceduo è un pianta piccola, e dopo turni molto brevi (di solito 20 anni, ma a volte anche meno) viene tagliata di nuovo. Questi alberi, condannati a non poter mai raggiungere dimensioni dignitose, hanno una produzione di frutti misera e assolutamente imparagonabile a una pianta secolare.
Altro effetto delle continue ceduazioni è il taglio del sottobosco, che fornisce cibo agli animali selvatici sotto forma di frutti di bosco, insetti e micromammiferi. Il sottobosco viene eliminato per consentire il passaggio dei macchinari per il taglio boschivo.
È quindi importante, nel considerare l’areale dell’orso, non concentrarsi solo sulla sua estensione, ma anche sulla qualità e complessità dei boschi compresi nel territorio della specie. Boschi più evoluti hanno una capacità portante per la specie molto superiore a boschi giovani o ceduati, che sono ecosistemi immaturi dove non ci sono catene alimentari stabili e articolate. Gli orsi marsicani hanno bisogno di un numero rilevante di aree boschive lasciate all’evoluzione naturale, con boschi indisturbati da tagli, e ricchi di cibo per loro e altre specie animali, se vogliamo tenerli lontani dai centri abitati per favorire la convivenza e salvare la specie.
Nei boschi sottoposti invece a gestione, bisogna abbandonare il governo a ceduo e puntare su quello ad alto fusto, più rispettoso delle dinamiche naturali. Si possono fare tagli oculati e limitati, senza aprire o destrutturare troppo la foresta, praticando una selvicoltura più ecosostenibile e meno impattante, che lasci un numero adeguato di piante mature che possono fruttificare e nutrire la fauna.
Anche le pinete artificiali, di cui si invoca così spesso il diradamento, possono fornire cibo agli orsi marsicani. A causa della grande quantità di legno morto al loro interno sono ricche di insetti e micromammiferi: tutti cibi apprezzati dagli orsi.
Tutto questo non esclude altri possibili interventi per l’alimentazione degli orsi, come una possibile ripresa della pasturazione in aree isolate. Ma un discorso sulle fonti alimentari degli orsi non può prescindere da una discussione sullo stato delle foreste.
È utile in questo senso anche la conservazione degli esemplari di alberi da frutto rimasti nei terreni non più coltivati. Questi alberi camporili possono essere di varie specie e trovarsi in condizioni diverse: in pieno campo, ai margini meno coltivabili o sui confini, come accade nei pascoli e seminativi arborati o cespugliati, per le querce camporili, o per gli alberi maritati alle viti (aceri e olmi campestri, ma anche gelsi e più raramente meli e altre specie di alberi). Sono piante robuste, longeve e rustiche, selezionate dalla natura, che possono costituire una risorsa trofica per la fauna.
Le foreste possono anche essere arricchite di fonti alimentari per l’orso con la messa a dimora di alberi da frutti come meli e peri selvatici. Queste piante sono perfette ai margini di boschi e praterie, o dove c’è una gestione orientata alla conservazione di pascoli, creando pascoli arborati, o garrighe, e andando a creare corridoi ecologici ricchi di fonti alimentari.
Le garrighe, aree aperte e aride dove il bosco non arriva, e i pascoli arborati possono essere di particolare interesse a questo scopo. La messa a dimora di alcuni alberi da frutto in questi contesti permetterebbe anche di ricreare alcuni elementi tradizionali del paesaggio, con interventi che aumentino la diversità a mosaico degli habitat secondari. I pascoli arborati, per esempio, consentono un uso sinergico del territorio. Questi luoghi possono agire come zone buffer per tenere lontani i selvatici dalle attività agricole e dai paesi. Alberi e arbusti di questo tipo possono essere una risorsa d’emergenza per le specie più minacciate, specialmente negli anni non di pasciona.
Altra azione importante può essere il restauro dei ramneti in alta quota, dove sono primari.
Ogni specie vivente, compresa quella umana, è legata a doppio filo al proprio ambiente naturale. Le azioni per salvare le specie a rischio estinzione devono quindi avere come punto di partenza la conservazione del suo habitat. Se vogliamo salvare gli orsi marsicani, dobbiamo avere più cura delle loro foreste.
da Valentina Venturi | 16 Ago, 2023 | Difesa Foreste, Foreste, Piano AIB
Pubblichiamo di seguito la lettera ricevuta dal Professor Franco Pedrotti, luminare della botanica:
“L’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise ha preso la decisione di effettuare un
taglio di pini nella pineta di Villetta Barrea.
Viene subito da dire che un parco nazionale ha per scopo quello di proteggere gli alberi e non di
tagliarli. La pineta di Villetta Barrea è un bosco residuo e relitto, di grande interesse fitogeografico,
poiché rappresenta l’ultimo frammento di una pineta che in passato era molto diffusa in tutto
l’Appennino centrale, come risulta dalle analisi polliniche eseguite.
In un Parco Nazionale si dovrebbero sempre prevedere alcune aree ove il bosco è lasciato al suo
libero sviluppo, in modo da raggiungere la fase ecologica della fluttuazione. In questo caso gli
alberi completano nello stesso punto il loro ciclo vitale, dal seme alla vetustà. Questa forma di
gestione dovrebbe essere applicata anche alla pineta di Villetta Barrea.
Si può anche pensare a una forma di gestione più articolata della pineta, sempre che non comporti
l’eliminazione di porzioni della stessa. In nessun caso è ammissibile il taglio, né lo sfoltimento
giustificato da prevenzione incendio.
La prevenzione incendio va fatta utilizzando uomini e mezzi adeguati che non prevedano la
distruzione o la manomissione del bosco, altrimenti distruggiamo ciò che invece vorremmo tutelare.
Si chiede pertanto che il Parco voglia ripensare e sospendere definitivamente questa insensata
decisione, ancor più che questa pineta rappresenta un alto valore ecologico, storico, culturale e botanico.
Essa mostra una importante rinnovazione di pino e latifoglie, nonché una struttura forestale ormai
notevole. Questa pineta è importante anche per la stabilità idrogeologica e per la biodiversità,
racchiudendo specie di piante non comuni (es.: Orthilia secunda).
Essa incarna anche un alto valore da un punto di vista forestale, in quanto essa rappresenta l’opera
dei forestali e la pineta madre dei rimboschimenti realizzati in Italia centrale.
Professore Emerito Franco Pedrotti,
già Consigliere del Parco e già Presidente della commissione scientifica del Parco “
da Valentina Venturi | 3 Ago, 2023 | Biomasse, Energia, Foreste, Uncategorized
L’associazione GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane applaude la decisione della Giunta Regionale della Calabria e del suo Presidente, Roberto Occhiuto, che ha approvato il Piano del Parco Nazionale del Pollino senza concedere deroghe alla potenza della centrale del Mercure, grande impianto che produce energia elettrica bruciando biomasse forestali.
Il Piano del Parco prevede la presenza di centrali a biomasse fino alla potenza di massima di circa 2,7 MWe, escludendo quindi la megacentrale che ha una potenza circa 15 volte superiore.
“Il Pollino, perciò, non ospiterà più megacentrali a biomasse, pericolose per la salute dei cittadini e per l’ambiente, ma anche per lo sviluppo turistico ed economico dell’area protetta più grande d’Italia, che è anche tutelata dall’UE in quanto ZPS, nonché patrimonio UNESCO, e che dunque non può inseguire una impossibile e perniciosa pseudo-industrializzazione, utile soltanto alla proprietà della centrale e dannosa, sotto ogni aspetto per le popolazioni residenti che tante volte ed in maniera partecipatissima si sono mobilitate contro la centrale”, dice Ferdinando Laghi, consigliere regionale e membro delle associazioni ISDE e GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane-, che combatte contro la centrale da oltre 20 anni, a difesa delle foreste italiane e della salute dei cittadini calabresi e lucani.
La megacentrale collocata nel Parco Nazionale del Pollino brucia circa 350.000 tonnellate di legno vergine all’anno (frutto del taglio di centinaia di migliaia di alberi) per produrre energia elettrica: una modalità di produzione di energia – in una regione che produce circa tre volte l’energia di cui necessita e a cui la centrale del Mercure contribuisce per appena lo 0,0002 % — che l’Italia deve abbandonare per tre importanti ragioni.
In primis, bruciare biomasse forestali accelera il riscaldamento globale: le energie da biomasse legnose sono più climalteranti persino delle energie fossili poiché, a parità di energia prodotta, emettono il 150% di CO2 rispetto al carbone e il 300% rispetto al gas naturale (da “Letter From Scientists To The EU Parliament Regarding Forest Biomass” del gennaio 2018), mentre il riassorbimento di equivalenti quantità di CO2 da parte di nuovi alberi richiederà molti decenni: un tempo che non abbiamo a disposizione. Il taglio di un numero così elevato di alberi va ad aggravare il riscaldamento globale di cui una delle concause principali è proprio la deforestazione. Per rimuovere la CO2 accumulata abbiamo bisogno di grandi alberi e delle foreste vergini, che la assorbono oltre 50 volte in più rispetto ai nuovi alberi e alle piantagioni.
Secondo, la combustione di biomasse forestali presenta un grave rischio per la salute dei cittadini, in particolare in una zona come la Valle del Mercure, dove i fumi di combustione ristagnano a lungo a causa del fenomeno dell’inversione termica. La combustione di tutte le biomasse legnose, secondo i dati ufficiali dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) e di ISPRA, per la sola emissione in atmosfera di PM2,5, causa in Italia circa 20.000 morti premature ogni anno, senza contare le patologie dovute alle emissioni di inquinanti emessi nella combustione del legno (arsenico, mercurio, diossina, furani, IPA…). L’Italia detiene il triste record in Europa per morti premature derivanti dalla cattiva qualità dell’aria.
Terzo, l’utilizzo delle biomasse legnose come fonte di energia minaccia le foreste. Il patrimonio boschivo italiano èormai sfruttato intensivamente e oltre i limiti di rigenerazione dello stesso. Un disastro ecologico che compromette gravemente gli ecosistemi forestali, privando le specie animali e vegetali del loro habitat, e che ha effetti anche sulla popolazione, in quanto la conservazione del patrimonio forestale è essenziale per la stabilità del suolo e la regimazione delle acque.
La produzione di energia da combustione di biomasse legnose non può quindi essere considerata energia pulita, non dovrebbe poter usufruire di generosi incentivi economici, e andrebbe abbandonata al più presto per la salute del pianeta, dei cittadini e per la nostra sicurezza sanitaria e sociale. GUFI è per un utilizzo razionale e sostenibile del legno, ottenuto da selvicoltura ecologica e in boschi destinati all’uopo, e per qualsiasi prodotto in cui il carbonio in esso contenuto resti allo stato solido.
Foto: Di Demincob – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31953639
da Valentina Venturi | 12 Lug, 2022 | Clima
Conferenza scientifica multidisciplinare fra ricerca e azione
“Dalla Strategia di Bioeconomia della Commissione europea alla Bioeconomia integrata e in armonia con la vita e le leggi della natura: analisi, pratiche, esperienze, attività”
12 e 13 dicembre – Roma presso la Società Geografica Italiana
Premessa
Il 25 settembre 2020 si è tenuta la conferenza multidisciplinare “La Strategia europea di Bioeconomia: scenari e impatti territoriali, opportunità e rischi” – patrocinata da società scientifiche e università – che ha raccolto i contributi di storici, geografi, economisti, urbanisti, costituzionalisti, biologi, biologi forestali e medici le cui analisi hanno messo in evidenza una serie di criticità sulla base delle quali si può asserire che la Strategia di Bioeconomia della Commissione Europea (del 2012 aggiornata nel 2018) e la conseguente Strategia Italiana siano piuttosto distanti dall’idea originaria di Bioeconomia teorizzata negli anni sessanta da Nicholas Georgescu-Roegen, ovvero una bioeconomia integrata e in armonia (embedded, direbbe Karl Polanyi) con la vita e con le leggi della natura. Detta strategia, invece, riflette un’accezione relativamente recente della parola ‘bioeconomia’, che nasce dall’industria biotech, chimica, farmaceutica, agroindustriale e dai progressi della biologia, della genetica e della tecnologia molecolari, nonché dalla domanda di biomasse per usi non alimentari. Questa accezione, attualmente dominante, si fonda su una indimostrata equivalenza tra “rinnovabilità” e“ sostenibilità”, e su una visione tecnocentrica che vede nell’high-tech enelle tecnologie a controllo centralizzato le soluzioni a ogni problema ambientale e il superamento di ogni limite allo sviluppo. I lavori della conferenza hanno messo in luce che la Strategia di Bioeconomia – promossa come la nuova frontiera dell’economia “verde” e basata sulla sostituzione delle fonti fossili con la biomassa – presenta forti contraddizioni rispetto agli stessi obiettivi che si pone, in quanto dipendente da risorse non sostenibili, non rinnovabili e dalle catene internazionali del valore, arrivando alla conclusione che, per tali ragioni, essa stessa richiederebbe una rielaborazione che non può prescindere dal suo adeguamento alla Strategia europea sulla biodiversità, nonché al Piano nazionale integrato per l’energia e il clima(PNIEC).
I risultati della Conferenza sono confluiti in un Documento di Valutazione e Indirizzo, inviato alla Commissione europea, al Governo e ai parlamentari italiani e pubblicato sulla Rivista “Economia e Ambiente” (1/2021) liberamente scaricabile dall’homepage del sito www.economiaeambiente.it.
Le tematiche della conferenza sono state oggetto di ulteriore approfondimento e aggiornamento, in parte svolti nel quadro del Pra 2020 dell’Università di Foggia ‘La Bioeconomia in Europa e in Italia: politiche e territori. Scenari socio-economici, ambientali e geopolitici’ e confluiti in un volume attualmente in corso di pubblicazione con la Società dei Territorialisti Edizioni e presto disponibile in open access.I promotori della conferenza, nella convinzione che la Strategia di bioeconomia non rappresenti solo un’opportunità da cogliere “a tutti i costi”, hanno ritenuto di costituire l’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia (OIB) – www.osservatoriobioeconomia.it– per il monitoraggio e lo studio delle iniziative e dei progetti ispirati alle diverse accezioni di Bioeconomia, al fine di contribuire alla comprensione dei processi in corso e dei possibili scenari. La seconda fase di quest’iniziativa sulla tematica in questione prevede l’organizzazione di una conferenza multidisciplinare fra ricerca e azione incentrata sulle pratiche di bioeconomia coerenti con la concezione originaria di Georgescu-Roegen.
L’iniziativa, organizzata nell’ambito del PRA 2020 dell’Università di Foggia, è promossa dall’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia e dalla Rivista scientifica “Economia e Ambiente” e patrocinata dalle seguenti organizzazioni: AIIG, Associazione Italiana Insegnanti di Geografia; Associazione “Dislivelli”; ISDE, International Society of Doctors for the Environment; Fondazione “Allineare Sanità e Salute”, Fondazione di partecipazione delle Buone Pratiche, SdT, Società dei territorialisti e delle territorialiste; SGI, Società Geografica Italiana; SIRF, Società Italiana di Restauro Forestale; SIU, Società Italiana degli Urbanisti, SSG, Società di Studi Geografici; Corso di Laurea in Scienze della Montagna, Università della Tuscia; Dipartimento di Architettura, Università di Firenze; Dipartimento di Economia, Management e Territorio, Università di Foggia.
Approccio scientifico alla conferenza e contenuti
Il periodo che stiamo vivendo è un periodo di crisi ecologica (con riferimento all’accezione etimologica del termine e, dunque, anche alla sua componente “sociale”), di stravolgimenti e apparenti cambiamenti sul piano politico, nonché di caos sistemico. Molte delle attuali attività e politiche economiche “verdi” – comprese quelle che si richiamano alla “bioeconomia” – sono basate sul paradigma riduzionista, meccanicista e utilitarista, sul dogma della crescita economica e della competizione, designate dalla stessa ideologia neoliberista che ha prodotto le problematiche e i guasti di cui ora le nuove politiche si propongono come “soluzione”. Insomma, tali iniziative “bio” ripropongono la stessa logica industrialista alla base dell’economia “fossile”. Pertanto, riteniamo urgente affiancare al necessario processo di interpretazione delle attuali politiche “verdi”, lo sviluppo di ricerche, studi e analisi di esperienze concrete, orientate a una bioeconomia che sia realmente integrata e in armonia con la vita e la natura, che possano costituire un punto di riferimento a livello sia teorico sia concreto per l’ormai non più procrastinabile salto di paradigma.
La bioeconomia, secondo la teoria di Nicholas Georgescu-Roegen, si fonda sul presupposto che i processi economici, investendo il mondo fisico, sono soggetti alle sue leggi, prima fra tutte l’entropia, ovvero la irreversibile dissipazione di energia e materia generata dai processi di trasformazione. I processi di produzione sono visti come un insieme di fondi (terra, capitale e lavoro) e flussi (risorse naturali, prodotti e scarti), in cui non vi è sostituibilità tra fondi e flussi: si può sostituire il lavoro con il capitale, ma certamente non le risorse con il capitale. D’altro canto, l’efficienza energetica, lungi dal potersi riferire solo al mero rapporto tra input e output di energia, deve considerare i processi dissipativi della materia coinvolti nella trasformazione dell’energia stessa. Un’economia sostenibile e circolare non richiede, dunque, soltanto flussi rinnovabili, ma anche una relazione fondi-flussi che rispetti e mantenga l’identità dei fondi, ovvero una compatibilità fondativa tra la velocità/densità dei flussi nella tecno-sfera e la capacità/velocità di rigenerazione dei fondi della biosfera.
Partendo dall’assunto che le civilizzazioni umane hanno prodotto nel tempo territori e paesaggi con sapienza e saggezza mantenendo una relazione fondi-flussi equilibrata, possiamo affermare che proprio la modalità e la capacità di tessere tale relazione in base a valori e interpretazioni diverse ma sempre armoniche con la natura ha portato alla grande differenziazione locale delle forme dei nostri contesti di vita. Oggi come un tempo sono proprio le pratiche sociali che consentono di entrare nella modalità complessa e integrata di economie capaci di interagire con i beni naturali e di riprodurre territori, paesaggi, risorse.
La conferenza si interroga su come attuare nella contemporaneità una bioeconomia integrata e in armonia con la vita e la natura. Sarà possibile presentare contributi basati su riflessioni, studi e pratiche che trattano di esperienze concrete coerenti con principi quali:
- la visione sistemica dell’ambiente;
- l’ambiente come fondamento del palinsesto territoriale e paesaggistico;
- l’assunzione del concetto di limite ecosistemico come regolatore delle attività economiche;
- l’adattamento del metabolismo industriale ai cicli naturali;
- il concetto di sostenibilità fondato sulla capacità di rigenerazione delle risorse naturali e sulla necessità di preservazione dell’equilibrio del ciclo biogeochimico;
- la governance politica e il progetto territoriale e paesaggistico basati sulla pianificazione ecologica partecipata e sulla salvaguardia delle matrici vitali partendo in primis dell’insediamento;
- l’uso delle risorse fondato sulla riduzione dei consumi di materia ed energia;
- la promozione dell’innovazione sociale, ovvero della valorizzazione delle conoscenze e dei saperi della natura, integrate ai contesti di vita;
- l’agroecologia e, più in generale, i modelli virtuosi di agricoltura in grado di rigenerare l’ambiente e il territorio;
- i modelli locali di produzione basati sulla diversità, sulla resilienza, sui beni relazionali e sulla partecipazione.
La conferenza si compone di tre sezioni: una sessione sui paradigmi scientifici alla base degli approcci bioeconomici nella quale saranno presentati i risultati del PRA 2020 dell’Università di Foggia insieme ad alcuni contributi dei fondatori dell’Osservatorio Interdisciplinare sulla Bioeconomia (OIB); e due sessioni aperte a contributi esterni suddivise nelle seguenti tipologie:
- riflessioni teoriche o casi studio che raccoglierà i contributi di studiosi che si occupano di bioeconomia coerente con la teoria di Georgescu-Roegen, ovvero l’economia integrata e in armonia con la natura e la vita
- sulle pratiche nella quale saranno accolte esperienze e pratiche coerenti con i principi enunciati in precedenza con l’obiettivo, fra gli altri, di conferire rilevanza scientifica alle pratiche sociali per farle entrare nel dibattito scientifico ed accademico.
I temi che la conferenza intende indagare in maniera preminente fanno riferimento ai seguenti campi:
- agricoltura, allevamento, pesca
- acqua e foreste
- produzione manifatturiera
- energia
- servizi
- gestione delle risorse come beni comuni
- insediamenti
- paesaggio
- salute.
Modalità di presentazione dei contributi e tempi di consegna
L’approvazione del contributo prevede in via preliminare l’invio di una sintesi (abstract) contenente:
- titolo
- testo (massimo 2.000 caratteri spazi inclusi)
- 3 parole chiave.
A seguire:
- nome/i dell’autore/i
- ente di afferenza o organizzazione di appartenenza
- dichiarazione di possibili conflitti di interesse
- indicazione del campo tematico
- indicazione della modalità di presentazione del lavoro.
La sintesi (abstract) dovrà essere inviata entro il 30 giugno a
conferenza.2022@osservatoriobioeconomia.it
L’approvazione avverrà entro il 30 settembre sulla base dei seguenti criteri:
- pertinenza al tema oggetto della conferenza,
- coerenza del caso di studio o della pratica con i principi enunciati di una bioeconomia integrata con la vita e e le leggi della natura. Non saranno ammesse le proposte di contributo che presenteranno casi di studio o esperienze riconducibili alla bio-industria, ovvero che fanno riferimento a una mera sostituzione delle risorse fossili con quelle organiche.
Il lavoro finale dovrà essere inviato entro il 31 gennaio2023 ai fini della pubblicazione.
Modalità di presentazione dei lavori:
- riflessione teorica e casi studio con indicazione della preferenza di: presentazione orale (15 minuti), comunicazione orale breve (7 minuti), poster;
- pratiche con indicazione della preferenza di presentazione orale (15 minuti), comunicazione orale breve (7 min.), poster (in formato pdf), video (mp4, durata massima 3 min.)
In base ai materiali presentati, gli organizzatori della conferenza potranno richiedere una modalità specifica di presentazione, che verrà comunicata al momento dell’accettazione della sintesi (abstract).
ATTENZIONE: ogni partecipante alla conferenza può presentare un solo contributo come primo autore, pur potendo partecipare come co-autore in altri contributi.
Per qualsiasi ulteriore informazione: conferenza.2022@osservatoriobioeconomia.it
Link PDF della Call: https://www.osservatoriobioeconomia.it/wpcontent/uploads/2022/05/call_II_conferenza_bioeconomia_2022.pdf
da Valentina Venturi | 4 Lug, 2022 | Difesa Foreste
di Mariarita Signorini
On.le Enrico Letta,
sono Mariarita Signorini, da sempre impegnata nell’Associazione Italia Nostra, la più antica del Paese per la tutela del patrimonio artistico storico e ambientale, Associazione di cui ho ricoperto diversi incarichi fino a esserne Presidente nazionale.
Con la presente voglio esprimerLe la mia preoccupazione per il futuro del Monte Amiata, che costituisce un grande ecosistema ricco di boschi, biodiversità, ricco di acque sorgive, un bene comune cosi fragile e a rischio, come dimostra la recente drammatica siccità. Ed è proprio per la tutela del patrimonio paesaggistico, storico e ambientale di questi luoghi che da Presidente Nazionale e ora da Vicepresidente regionale ho avviato da anni e sostenuto un’azione giudiziaria, in sede amministrativa, per contrastare la realizzazione di una centrale geotermica a ciclo binario a Poggio Montone, in prossimità della Riserva naturale del Pigelleto a sud di Piancastagnaio. Sono sempre più convinta, infatti, che la coltivazione geotermica, che si sta intensificando enormemente in questi ultimi anni, sia incompatibile con il territorio del Monte Amiata, che sarebbe invece naturalmente vocato a divenire un Parco nazionale o regionale, un progetto lungimirante che tante Associazioni, tra le quali Italia Nostra sostengono, del pari all’istituzione di un Parco Archeologico in Val di Paglia che porterebbe alla valorizzazione della Via Francigena, nel cui tracciato insiste invece, tristemente, il progetto di un’altra centrale geotermica denominata “Le Cascinelle”. Così come il Ministro Franceschini, che ha aderito alla procedura di dissenso posto in essere dal ricorso della Soprintendenza toscana, auspico che anche lei voglia intraprendere un’azione politica di contrarietà per la centrale di “ Le Cascinelle “ e la realizzazione del secondo Polo Industriale geotermico sul Monte Amiata. La grave crisi idrica e la siccità, che stanno investendo l’intero Paese, impongono scelte ponderate e del tutto diverse da quanto la politica decide ora a spese dei territori, delle risorse e della popolazione. L’ Amiata possiede il bacino idrico più importante del centro Italia, un bacino strategico che disseta 700.000 utenti e cittadini e interessa le provincie di Siena, di Grosseto e di Viterbo. Le centrali geotermiche esistenti sono già, a tutt’oggi, tra le cause del depauperamento delle falde acquifere e delle massive emissioni di CO2, di metano e di sostanze inquinanti, nocive all’ambiente e alla salute. Si sta perpetrando un danno irreversibile per l’intero comprensorio amiatino con gravi conseguenze anche per i territori a valle. Ci auguriamo pertanto che anche Lei sappia opporsi a un tale scempio.
Mariarita Signorini
Vicepresidente Italia Nostra Toscana, già Presidente nazionale Italia Nostra, Consigliere GUFI – Gruppo Unitario per le Foreste Italiane
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